Se Gesù è l’unico mediatore, il dialogo è impossibile
Solus Christus, opera dello scultore Magnus Kleine-Tebbe
in pietra arenaria di Obernkirchener,
Bienroder See, inaugurata l’11 ottobre 2014 -
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Per gli ebrei del I secolo non si poteva neanche lontanamente pensare che un insignificante artigiano galileo, un signor ‘nessuno’ (visto che i galilei non erano neanche considerati veri credenti), che per di più si scontrava di frequente col sacro Tempio e col suo infallibile magistero come faceva Gesù, potesse essere l’intermediario autorizzato per parlare di Dio (Castillo J.M.). Tutti sapevano che non c’era possibilità di salvezza per chi non si adeguava alla religione del Tempio.
La Chiesa, seguendo la stessa logica del Tempio, ha preso alla lettera l’affermazione paolina ove, in modo categorico, si proclama che Gesù Cristo è l’«unico Mediatore» fra Dio e gli uomini (1Tm 2, 5-6: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti»; cfr. Rm 8, 32; 2Cor 5, 14). A prescindere dal fatto che qui Paolo parla apertamente di Gesù come uomo e non come Dio, sappiamo che anche Paolo non è Dio, anche se dopo la lettura delle sue lettere si conclude col classico “Parola di Dio,” come fosse stato Dio stesso a parlare. Ebbene, se si prende alla lettera questa affermazione paolina, si arriva inevitabilmente a queste conclusioni:
a) il cristianesimo è l’unica vera religione, ed è superiore a tutte le altre religioni del mondo; pertanto tutte le altre religioni e i loro adepti restano condannati agli errori e alle falsità che essi portano con sé;
b) Se Cristo è l’unico Mediatore fra Dio e gli esseri umani, è necessariamente anche l’unico Salvatore (cfr. in tal senso la Dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede - Dominus Iesus §13, del 6.8.2000; il concetto è stato ribadito dal cardinal Müller nel suo recente, “Manifesto della fede” diffuso il 9 febbraio di quest’anno). Ciò deriva da una concatenazione logica lineare avallata da una lunga tradizione cristiana: per la Chiesa la salvezza (cioè la partecipazione all’eternità divina) resta legata al particolare evento storico di duemila anni fa; ne consegue che, se la salvezza è dipendente da quella storia particolare, o si partecipa a quella storia o non si è salvi (Mancuso V.). Questa partecipazione, poi, è garantita solo dalla Chiesa e dai suoi sacramenti (n. 846 Catechismo), per cui si salva solo chi, senza colpa, ignora Cristo e la Chiesa. Oggi, dunque, potrebbero essere salve solo quelle tribù di aborigeni che vivono ancora isolate nella preistoria, senza alcun contatto col mondo. Per la dottrina ufficiale, solo in Cristo ci si salva e solo la Chiesa conosce, possiede e annunzia Cristo (Ortensio da Spinetoli). Per chi non si adegua alla religione della Chiesa non c’è possibilità di salvezza.
b) Pertanto fuori di Cristo e fuori della Chiesa non c’è salvezza. Anche il Concilio Vaticano II (Costituzione dogmatica sulla Chiesa del 21.11.1964, - Lumen Gentium, § 14. Nel § 16, però, il principio viene annacquato), basandosi sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, ribadisce che questa Chiesa cattolica è necessaria alla salvezza, per cui solo Cristo, presente in mezzo a noi nel suo corpo che è la Chiesa, è il mediatore e la via della salvezza.
Evidente che queste conclusioni, fatte proprie dalla Chiesa, portano inevitabilmente a una dottrina cristologica escludente, che si fonda su un Dio altrettanto escludente.
Tutte le tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo, islam), a parte la pretesa di essere ognuna l'unica via di salvezza indicata dallo stesso Dio con conseguente certezza di superiorità rispetto alle altre, hanno in comune almeno quattro grandi pilastri spirituali: la preghiera, l’elemosina, il digiuno, il pellegrinaggio (anche se nel cristianesimo questi pilastri appaiono oggi annacquati). Ma nonostante questa comunanza, le persone pie di ogni religione, più sono ortodosse, più preferiscono accentuare le differenze e più vedono nel dialogo interreligioso un pericolo di contaminazione piuttosto che una possibilità di arricchimento: occupata una certa area geografica, al pari degli animali, non sopportano che altre religioni entrino a scorrazzare e a fare seguaci in quello che ormai considerano propria esclusiva riserva di caccia; perciò i cristiani non vogliono moschee a casa loro, e i musulmani non vogliono chiese a casa loro [1]; sempre per lo stesso motivo il patriarca ortodosso di Mosca non vuole che il papa cattolico venga in visita in Russia. Giustamente Papa Francesco ha detto invece che è impossibile dialogare se non si riconosce che lo Spirito ha seminato negli altri un dono di cui anche noi possiamo godere (Spadaro A., Intervista a Papa Francesco, in “La Civiltà Cattolica” n. 3918/2013, 466).
Ma, se riteniamo esatta la formula sopravvista prospetta dal magistero (Dio-Cristo-Chiesa), stiamo lasciando lo Spirito ai margini della Chiesa: abbiamo una Chiesa che crede nel Padre, che crede in Cristo e che è governata dai vescovi. E lo Spirito? È la stessa Chiesa con questa sua dottrina a insinuare che non c’è perfetta uguaglianza fra le tre persone della Trinità. Questo è, infatti, cristomonismo, come già ammoniva Yves Congar.
Se poi Gesù Cristo è veramente l’unico Mediatore attraverso il quale Dio nello Spirito Santo fa dono di sé e effonde i suoi doni, ed ognuno deve poi sforzarsi di realizzare da sé la sequela dell’unico pastore Gesù, pur con tutti i suoi limiti e i suoi difetti (Pietro non ne era certamente esente); se non esistono altri intermediari, padri spirituali, pastori, capi o papi (Mt 23, 8ss.) che ci possano dire cosa e come fare all’infuori di Cristo, com’è che la Chiesa si è inserita proponendosi a sua volta come intermediaria?
La risposta si trova probabilmente in quest’altra domanda: come può l’uomo comune – che è peccatore e non può vivere, o non ce la fa a vivere, con lo spasmodico impegno dei santi eremiti – osare avvinarsi a Dio, toccare con le sue mani impure l’intoccabile, il puro, l’infinitamente santo? Ecco perché c’è bisogno di un mediatore, e - come risulta da un titoletto dell’Enciclica del 20.12.1935,- il sacerdote ci è stato appunto presentato come mediatore fra Dio e gli uomini (Pio XI, Ad catholici sacerdotii, in http://w2.vatican.va/content/pius-xi/it/encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19351220_ad-catholici-sacerdotii.html). Dunque, per la Chiesa l’uomo laico ha sempre bisogno di un addetto al culto (sacerdote), il quale realizza questa mediazione con riti particolari (il culto), in spazi particolari e sacri (nel Tempio, nella chiesa), seguendo procedure appositamente studiate (liturgia), impartendo regole particolari (comandamenti, precetti).
Però, anche se il magistero insiste nell’affermare che Gesù Cristo è l’unico Mediatore fra Dio e gli esseri umani, nei vangeli non si dice affatto che, in questo rapporto, si debba inserire l’istituzione Chiesa come ulteriore intermediario, con i suoi sacerdoti. Ricordiamo che Gesù non solo ha detto: “Nessuno si faccia chiamare Maestro, o Padre o Guida” (Mt 23, 8-10), ma ha anche detto: «Nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo» (Mt 11, 27; Lc 10, 22). Con questa massima sconcertante la comunità primitiva spiegava perché solo gli ignoranti che non hanno studiato teologia, cioè gli ultimi (non il colto e infallibile magistero), sono quelli che conoscono Dio (il Padre). Infatti «la grande rivoluzione religiosa compiuta da Gesù consiste nell'aver aperto agli uomini un'altra via di accesso a Dio, diversa dal sacro», e quindi diversa da quella seguita normalmente dalle religioni: «la via profana del rapporto con il prossimo, rapporto vissuto come servizio al prossimo» (Joseph Moingt). Gesù ci ha dato una nuova immagine di Dio, e definendolo unico mediatore stiamo solo affermando che ci ha fatto conoscere Dio come nessun altro prima di lui. Quindi possiamo senz’altro dire che la missione centrale di Gesù è stata quella di messaggero di Dio (Gv 1, 3-10; 1Cor 7, 10.25) (E Schillebeeckx), quella di essere il Rivelatore di Dio, colui che ce lo fa conoscere, visto che «nessuno ha mai visto Dio» (Gv 1, 18). Il termine mediatore non può essere invece inteso nel senso che non ci si può rivolgere a Dio direttamente, perché anzi Gesù ci invita a farlo (basta pensare al Padre Nostro). E risulta che Gesù comunica questa conoscenza proprio a quelli che, secondo coloro che contano (come quelli che, ad esempio, fanno parte del magistero), fanno parte della gente che non conta nulla e che non sa nulla di nulla. Simile affermazione sovverte ovviamente i nostri abituali criteri culturali, gerarchici e sociali. Dunque, se vogliamo sapere qualcosa di Dio, dobbiamo guardare Gesù, e non c’è un’altra possibilità di conoscere nulla riguardo la divinità, neanche attraverso la teologia, la metafisica, la filosofia. Gesù ci fa conoscere qualcosa del divino e ci dice che questo qualcosa lo capiscono meglio gli ignoranti che i sapienti (Mt 11, 25), perché gli ignoranti riescono a imitarlo col cuore, i sapienti si limitano a studiarlo con la mente.
Ci si dimentica poi (o si fa finta di dimenticare) che, sempre stando ai vangeli, tutti siamo “sacerdoti” come si è già detto nell’articolo Ma Gesù ha fondato questa Chiesa? al n. 504 di questo giornale (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-504---12-maggio-2019/ma-gesu-ha-fondato-questa-chiesa). Dio non è più una realtà esterna all’uomo e lontana da lui, ma interiore all’uomo. La relazione con questo Dio aveva bisogno di mediatori/mediazioni; ora, l’intimità col Padre le rende superflue. Non esistono ambiti sacri al di fuori dell’uomo (Gv 14, 15ss.). L’uomo, ogni uomo, è sacro; non è più sacro il Tempio; non lo è più l’edificio chiesa. Stefano, solo per aver affermato questa verità (At 7, 48), è stato ucciso dai suoi confratelli! E questa verità ancora dopo duemila anni non piace al magistero, che vede sminuito il suo ruolo.
Inoltre, ormai lo si è visto più volte, dai vangeli risulta che Gesù presenta una nuova immagine di Dio che non è per nulla escludente [2]. Si è anzi visto nei precedenti articoli Gesù serve a unire o dividere?, L’incarnazione e Gesù non ha fondato una religione (nn. 458, 459 e 474 di questo giornale, rispettivamente consultabili presso https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-459---1-luglio-2018/l-incarnazione e https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-474---14-ottobre-2018/gesu-ha-fondato-una-religione) che l’eliminazione dai nostri schemi mentali di un «Dio escludente» è un presupposto indispensabile per poter parlare di Dio in maniera oggi accettabile. Se, allora, si segue quest’ultima linea, è chiaro che la spiritualità può essere vissuta anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, nei quali lo Spirito suscita segni della sua presenza, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera (Gv 3, 8: lo Spirito soffia dove vuole), e questo neanche la Chiesa lo può impedire.
È stato Paul F. Knitter, nella sua opera Introduzione alle teologie delle religioni, che, con più chiarezza e miglior documentazione, ha spiegato i diversi modelli interpretativi oggi più seguiti. I principali modelli possono essere così riassunti:
1. Modello di sostituzione: «solo una è la vera religione». Si tratta del modello che caratterizza il fondamentalismo cristiano, e che ancora oggi prevale nell’ala conservatrice della nostra Chiesa. Coloro che insistono su questo modello non hanno dubbi nell’affermare che non c’è alcun valore nelle altre religioni. Questo modello è chiaramente un modello di «esclusione», perché chi è fuori della Chiesa cattolica resta escluso dalla verità e dalla salvezza.
2. Modello di conformità: «l’uno completa i molti». È il modello il cui rappresentante più qualificato è stato Karl Rahner. Si tratta dell’idea secondo la quale Gesù è la causa della salvezza, di ogni possibile salvezza. Ecco perché tutti gli esseri umani che si salvano, qualunque sia la loro religione o anche se non lo sanno, in realtà sono cristiani. Siamo davanti a un chiaro tentativo di salvare capra e cavoli: da una parte non si vuol respingere l’insegnamento del magistero (e quindi confermare l’assoluta superiorità del cristianesimo su qualunque altra religione), ma dall’altra si vuol superare la sua palese incoerenza quando afferma che la maggior parte dell’umanità non sarebbe salvata perché sta fuori della Chiesa.
3. Il modello di accettazione: «Molte sono le religioni vere». È la posizione più aperta, tollerante e progressista. Le tradizioni religiose del mondo sono realmente differenti e noi dobbiamo accettare tali differenze. In altre parole, si evidenzia come, mentre per gli altri modelli le differenze sono qualcosa che si deve superare, «per il modello dell’accettazione sono qualcosa con cui non soltanto si può convivere temporaneamente, ma con cui si desidera convivere in permanenza». Questo modello è agli antipodi di quello di sostituzione: non si tratta di cercare le somiglianze con le altre religioni, né di catechizzare gli altri alla nostra verità, né di procurare avvicinamenti confessionali. Chi si riconosce in questo modello dà valore alle differenze al pari delle somiglianze. Insomma, in questo modello, il problema religioso si pensa e si vive in modo che sussista «il diritto di precedenza del dialogo sulla teologia».
Il grande mistico musulmano IbnʹArabi, maestro sufi vissuto cavallo fra il 1100 e il 1200, da strenuo propugnatore del dialogo interreligioso ben 800 anni prima che Papa Giovanni Paolo II lo ricominciasse ad Assisi, partendo dall’idea che l’Essere Supremo è uno e le varie religioni monoteiste sono tutte valide perché convergono verso quel punto centrale e solo le vie per raggiungerlo sono diverse, aveva fatto questo ragionamento che mi azzardo a semplificare (con tutte le conseguenti imprecisioni, essendo il suo ragionamento molto più articolato): la conoscenza umana passa attraverso le facoltà dei sensi, dell’immaginazione, della ragione. Tutto viene trasmesso all’intelletto il quale è neutro, ma come una spugna assorbe tutto. La ragione, che serve a sistematizzare le informazioni ricevute dalle nostre facoltà, non serve però per conoscere Dio, per il semplice fatto che si aspetta di trovare delle forme, come nel mondo esterno che conosciamo, mentre Dio appartiene al mondo ultra formale, trascendente. Occorre pertanto rivolgersi al cuore, che non guarda al mondo esterno sensoriale, ma è fonte di conoscenza principiale, direttamente donataci da Dio. L’intelletto, per conoscere Dio, deve quindi rivolgersi a uno strumento interiore, non a facoltà esteriori, altrimenti la porta della conoscenza su Dio non si aprirà mai. È come se avessimo uno specchio e stando alla finestra lo rivolgessimo all’esterno: rifletterà sempre e solo le cose che stanno fuori della finestra. Per riflettere chi tiene in mano lo specchio, occorre girarlo all’interno. Questo capovolgimento non si può ottenere con la ragione, ma, ad esempio, seguendo la via del sufismo che permette all’intelletto di rivolgersi al cuore, e non più alle facoltà che guardano verso il mondo esterno. La conoscenza della ragione sarà a quel punto sostituita da flash di comprensione, e se l’uomo chiede fermamente di comprendere, Dio gli risponderà.
Per quel che riguarda il cristianesimo, giustamente è stato fatto notare (Castillo J.M.) che, se Gesù accettò senza il minimo problema tutte le persone di altre religioni con le quali s’incontrò (così dicono i vangeli), senza mai imporre a nessuno di cambiare il suo precedente Credo religioso, questo vuol dire chiaramente che Gesù era convinto che in qualunque religione si trovi la salvezza. Allora il modello da accogliere è l’ultimo, perché sono molte le religioni vere, e questo non deve mai portare allo scontro.
A conferma di questa conclusione, si pensi a quando Gesù si azzardò a dire a Nazareth, davanti alla gente del suo villaggio (Lc 4, 24-28), che ai tempi del profeta Elia, quando c’era penuria e fame da tutte le parti, quel profeta non venne mandato a soccorrere nessuna delle molte vedove che si trovavano in difficoltà in Israele, ma Dio preferì aiutare una donna pagana del territorio di Sidone (1Re 17, 9). E qualcosa di analogo accadde ai tempi di Eliseo, quando egli non curò alcun lebbroso in Israele, ma un ministro del re di Siria (2Re 5, 1-19), guarendolo. Ciò che Gesù stava dicendo realmente, e che il suo uditorio non aveva voluto accettare (tanto che hanno cercato di ucciderlo), è che il vangelo non fa preferenza fra religioni, né favorisce i fedeli di una presunta religione vera quando la gente che ha altre credenze si vede maltrattata per qualunque motivo. Né Gesù, né il Dio di Gesù stabiliscono differenze e preferenze (Castillo J.M.).
Oppure si pensi al caso del centurione romano: Gesù afferma che quell’uomo aveva fede (Mt 8, 5-13; Lc 7, 2-10). Tanta fede che Gesù ne restò ammirato. Ma era chiaramente una fede in un Dio del tutto diverso da quello che Gesù stava raccontando: il centurione non era infatti un suo seguace. Oppure si pensi alla donna cananea (Mt 15, 21-28), che in quanto non israelita non poteva pretendere nulla dal Dio d’Israele. O ancora si pensi a quando Giacomo e Giovanni chiedono a Gesù di annientare con un fulmine gli abitanti del villaggio samaritano che avevano rifiutato di accoglierli. Gesù, non solo respinge simile proposta, ma in più li «rimprovera» severamente (Lc 9, 51). È chiaro che Gesù non è disposto a tollerare scontri fra genti di diverse credenze religiose. Esattamente l’opposto di quanto abbiamo fatto in seguito noi cristiani, e inutilmente Papa Francesco sembra oggi combattere questa linea che ancora furoreggia fra molti sedicenti cristiani.
È un dato di fatto che, oggi, un Dio escludente sia un serio problema per ogni religione. Le diverse, e a volta contrapposte, modalità di intendere e vivere la religione continuano ad essere ai giorni nostri fonte ed origine di incessanti conflitti, tensioni, divisioni e scontri. Mi sembra abbia giustamente osservato il teologo Castillo come questo problema affondi le sue radici innanzitutto nella tensione fra umano e inumano che c’è in ciascuno di noi. Ma oltre a questo, il problema sta nel fatto che le religioni, invece di risolvere questa tensione, di frequente non fanno che aggravarla, non solo aumentando la violenza, ma perfino giustificandola. Dando alla violenza, che è sempre inumana, spiegazioni di carattere «spirituale» o anche «trascendente», è come se fosse lo stesso Dio il primo a volere e perfino ad esigere la violenza. Con una particolarità ulteriore nel cristianesimo: la cristologia è diventata un pezzo indispensabile nella macchina dello scontro e della violenza, perché l’affermazione teologica secondo cui Cristo è l’unico Mediatore fra Dio e gli uomini, e l’unico Salvatore per gli esseri umani, ha fatto di questa teologia l’argomento più chiaro e più forte della supremazia del cristianesimo su tutte le altre religioni. E pertanto, ha fissato in Gesù un motivo di divisione o, almeno, un’enorme difficoltà per l’unione fra gli uomini. Tutto questo è assurdo se si pensa che Gesù, finché è stato in vita, ha sempre portato all’unione e alla fratellanza fra tutti gli uomini, mai alla divisione e allo scontro. Invece il Cristo resuscitato predicato dalla religione, invece di umanizzarci, spesso ci disumanizza, senza che noi neanche ce ne rendiamo conto. Allora, che soluzione proporre?
John D. Crossan avverte: «Sembra abbastanza ovvio che Gesù, nello scontrarsi probabilmente per la prima e unica volta nella sua vita con la ricchezza e la magnificenza del Tempio, distrusse simbolicamente la funzione dell’intermediario - per gli altri perfettamente legittima - che questo deteneva in nome del Regno di Dio, nel quale invece non c’era posto per intermediari». Quindi cominciamo a prendere con le molle l’affermazione che Gesù è l’unico mediatore fra il Dio trascendente e l’umanità immanente.
Il magistero ufficiale continua a sostenere che deve essere fermamente creduto che Gesù Cristo è l’unico ed universale mediatore di salvezza per tutta l'umanità, come affermato da Paolo in 1Tm 2, 5. E se avesse invece ragione il teologo belga Jacques Dupuis, il quale sostiene che Paolo, con quella frase, voleva semplicemente indicare che la salvezza ha la sua origine in Dio, mentre l’uomo Gesù è il portatore (termine migliore di mediatore) della salvezza che viene da Dio? È stato, mi sembra correttamente, anche obiettato che se Gesù è mediatore, non può essere lui la sorgente. Il Padre, dunque, non Gesù, è la fonte o la sorgente della nostra salvezza. Salvatore è il Padre, mentre Gesù lo sarebbe solo in modo derivato (Dupuis J.).
Dice sempre il magistero ufficiale che deve essere fermamente creduto che l’azione salvifica del Verbo è attuata soltanto in e per Gesù Cristo. Obietta, e mi sembra di nuovo correttamente, lo stesso teologo belga, che così si nega l’esistenza di ogni azione salvifica del Verbo prima dell’incarnazione, visto che l’umanità di Gesù non esisteva prima dell’incarnazione del Verbo nella storia. Forse che prima di Cristo non c’era salvezza? E Dio, dopo l’incarnazione, non sarebbe più libero di optare per altre vie? In effetti la questione è se la missione diretta dello Spirito dal Padre possa continuare anche dopo la resurrezione di Cristo o se dopo la resurrezione si debba affermare che l’invio dello Spirito passa sempre e necessariamente attraverso la mediazione dell’umanità di Gesù risorto. Ma perché non potrebbe esistere anche dopo l’incarnazione e la resurrezione di Cristo una missione dello Spirito nel mondo la cui origine sta solo nel Padre? La stessa incarnazione non è causata dal Padre attraverso la potenza dello Spirito? E Cristo non è stato resuscitato da Dio attraverso la potenza dello Spirito? Qui, l’umanità di Gesù non è mai intervenuta. Perché dovrebbe intervenire inderogabilmente in seguito?
Dunque, mi sembra che da tutto questo correttamente il prof. Castillo J.M. tragga la seguente conclusione: Gesù è, prima che un modello di religiosità, un modello di umanità. I vangeli, prima di essere libri di religione, sono un progetto di vita. Di vita pienamente umana. Pertanto, tutte le religioni, nella misura in cui rispondono ad aspirazioni umane e rendono possibile il raggiungimento di queste aspirazioni, in questa stessa misura sono strade che portano all’incontro con il Dio di Gesù. Ciò che importa non è allora la religione che ognuno pratica. Ciò che importa è la dose di umanità che ognuno vive e condivide (cfr. Mt 25, 31ss, “il giudizio finale”).
È indubbio che la Chiesa ha sempre timore di innovazioni che mettano in dubbio l’unica verità e l’unica salvezza che essa stessa ha sempre preteso di insegnare a questo mondo, e si arrocca in uno stato di chiusura, anche se sono cambiate la cultura e la mentalità corrente. La Chiesa non riesce a comunicare con l’attuale mentalità, e ferma sulla sua linea pretende che sia il mondo esterno a cambiare.
Quando un simile atteggiamento di chiusura si verifica fra le persone sul piano della psiche, si parla in psichiatria di paranoia. Il paranoico è colui che non riesce a comunicare con la realtà, e la respinge con scatti isterici (Vannucci G., Esercizi spirituali, ed. Comunità di Romena, Pratovecchio (AR), 2005, 74). I vangeli non parlano di paranoia, ma dello spirito immondo, che si contrappone allo spirito santo: un impulso interiore fatto di ostilità e intransigenza, disposto a scattare come una molla, che non ammette dialogo, che si esprime in giudizi estremi, in reazioni violente, in desideri di castigo, in rifiuto di ogni comprensione, in imposizione (Mateos J. e Camacho F., Il Figlio dell’Uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 304). Il cattolico intransigente, non appena sente qualcuno che si discosta dall’ufficialità si affligge, si adombra, si ritrae inorridito, taccia l’altro di miscredenza, si inalbera davanti alla prima obiezione e si rifiuta anche solo di immaginare che Dio abbia potuto illuminare chi non la pensa come lui, chi non è obbediente al magistero, ma dimentica innanzitutto che lo Spirito santo soffia dove vuole (Gv 3, 8); dimentica che Gesù si trovava assai bene col centurione romano pagano, con l’impura emorroissa, con l’adultera samaritana; dimentica che in nessun vangelo sta detto che solo obbedendo al proprio vescovo si coglie necessariamente la volontà di Dio; inoltre dimentica che ogni buon cattolico deve sempre cercar di comunicare con la parte santa di ogni creatura, perché Dio lo troviamo nella concretezza di tutte le creature esistenti (Vannucci G.). Non riconoscendo che esistono anche altre verità, altre realtà, che Dio si manifesta nella vita in modo sempre nuovo e imprevedibile, e non attraverso la dottrina cattolica (perché Dio non è cattolico, come non è musulmano, come non è ebreo), queste persone, che si reputano gli unici veri credenti, si comportano - secondo i manuali di psichiatria - da paranoici isterici. Rendere comoda la realtà, semplificandola, è tipico degli individui psichicamente fragili, i quali non accettano che il mondo sia complesso. La complessità disturba per cui sono proprio i più fragili ad aderire più facilmente degli altri alle ideologie estremiste che appaiono più rassicuranti, perché garantiscono loro che il mondo è semplice: bianco o nero. Così sono convinti che basta eliminare la zizzania, i cattivi, gli impuri, i miscredenti, e il bene trionferà automaticamente su questa terra, e tutti saranno felici.
Forse quelli che hanno lanciato pietre e sputi, urlando «ritorna a casa tua» contro due mamme e sette bambini rom, che due operatrici della coop Dedalus avevano accompagnato in un cinema di Napoli (Il Manifesto 14.04.2019), penseranno di essere anche buoni cristiani, veri soldati di Cristo che stanno estirpando la zizzania; ma quando si umiliano i diritti e le dignità di altri esseri umani si è ben lontani dal vangelo. Gesù non ha pensato due volte a violare la legge del sabato, ma solo per far riacquistare dignità a chi se la vedeva sminuita. Il vangelo afferma che solo onorando l’uomo, ogni uomo che incontriamo sulla nostra strada, si onora Dio. Forse è ora che tutti comincino a rendersi conto che un Gesù escludente e causa di scontri non può essere il vero Gesù raccontato dai vangeli (Castillo J.M.).
Dario Culot
[1] Ovviamente il discorso non va generalizzato: in Arabia non ammettono chiese, ma queste convivono perfettamente accanto alle moschee negli Emirati Arabi, in Marocco, in Kuwait, in Indonesia o in Siria, tanto per citare alcuni Stati. Ecco perché è priva di senso l’affermazione dei fondamentalisti cattolici: “lasceremo che costruiscano moschee qui da noi, quando loro lasceranno che costruiamo chiese lì da loro”, visto che molti Paesi musulmani già ammettono la costruzione di chiese sul proprio territorio.
[2] Il punto è stato ampliamente esaminato e spiegato dal prof. Castillo J.M. nel suo libro L’umanizzazione di Dio che dovrebbe uscire nella versione italiana, pubblicato dalla EDB di Bologna, il prossimo settembre.