Il numero 500 di Rodafà e la Chiesa - Dario Culot

Chiesa del Monastero di Bose di notte, foto del direttore

Il numero 500 di Rodafà e la Chiesa

di Dario Culot

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Non so quante siano le persone che seguono questo giornale on line, giunto ormai quasi al suo decimo anno di vita. Se la maggioranza delle persone è oggi disinteressata a quanto dicono i vescovi o il magistero in genere (come lo ero del resto io anni fa), forse lo si deve al fatto che questi professionisti della religione non sanno leggere i segni dei tempi: il linguaggio ufficiale che usano non corrisponde più alle strutture mentali dell’attuale generazione. Per rendersene conto basta, ad es., leggere il Catechismo della Prima Comunione e Cresima, del Centro Librarium Sodalitium del 2013 con l’imprimatur vescovile del 1957, anno cioè ben antecedente al concilio Vaticano II. Nel testo si continua ad offrire la versione del Catechismo di Pio X, chiara ma ormai inadeguata. 

I credenti conservatori rimangano attaccati alla dottrina alla quale si è creduto per secoli, per cui dicono di no a nuove strade, a nuovi linguaggi, a nuove idee, e non si rendono conto che gli stessi dogmi - che a loro giudizio devono restare immutabili per l’eternità,-  sono la formulazione che una generazione del passato ha dato alla propria esperienza di fede. Non si rendono conto che, nella cultura attuale, la gente non accetta più l’autorità sulla sola base dell’autorità formale che pretende di essere autorità. Non si rendono neanche conto che la cultura e lo stesso significato delle parole usate nei secoli passati sono oggi cambiati. Il latino, duemila anni fa, era universale; oggi non lo è più. Per cercar di entrare in contatto con chi si dimostra disinteressato penso si debbano ormai percorrere nuove strade, e un nuovo modo di parlare può nascere solo da un’esperienza.

In questo numero di per sé particolare, perché il n. 500 è di per sé un bel traguardo, vi propongo la storia di una mia esperienza che ha contribuito a cambiarmi la vita. Il curioso è che non si tratta di un’esperienza di fede, ma di vita vissuta; vissuta in un luogo profano, non religioso, in un momento in cui non stavo minimamente pensando a Dio o alla religione, che – come ho detto,- all’epoca non mi interessavano. Subito dopo questa esperienza completamente profana, improvvisamente mi si è accesa come una lampadina che mi ha ‘costretto’ a ripensare a quello cui non pensavo più da tempo e che avevo lasciato alle spalle, deluso dall’immobilità ecclesiastica post-conciliare. Non so come e perché, ma mi è venuto in mente un brano evangelico che avevo già sentito cento volte e che mi era sempre scivolato via come fosse acqua fresca. In quel momento, invece, ho capito che quel passo non andava collegato a una dottrina da imparare a memoria (come ancora sollecita il libretto di preparazione alla comunione del Centro Librarium Sodalitium), o a un pacchetto di verità da credere, ma a un comportamento pratico da immedesimare nella propria vita. Rivedere quel passo era come vedere un cartello indicatore per la soluzione di problemi pratici che tutti noi affrontiamo ogni giorno. In precedenza non avevo mai lontanamente pensato che una via tracciata duemila anni fa potesse diventare attuale anche per me, tanto di più perché mi suggeriva un progetto di umanizzazione profana, senza alcun richiamo al culto sacro, ai dogmi o alla dottrina. In realtà avevo sempre pensato alla religione (studio del sacro), come un campo del tutto separato dalla vita quotidiana profana, perché così mi era stato insegnato. Invece improvvisamente, come in un flash, mi appariva evidente che tutti noi, credenti e non credenti, possiamo fare ogni giorno qualcosa di utile e di bene per gli altri, nella normale vita quotidiana che resta profana; e se dopo averlo fatto ci sentiamo meglio, forse senza accorgercene abbiamo fatto esperienza della Trascendenza, che più di qualcuno chiama Dio. In altre parole, ho sperimentato che è l’esperienza profana a metterci in contatto con quello che la religione continua tenacemente a voler tener separato: l’etereo divino, il sacro, da una parte; il profano, il materiale palpabile dall’altra. Don Milani aveva detto a ragione: “Puoi aver fatto tutte le cose più interessanti di questo mondo, ma al termine della giornata, se non hai compiuto un’azione per gli altri, se non hai fatto qualcosa per crescere dentro, hai sprecato il tuo tempo.” Non occorre volare alti, credere a chissà quali verità dottrinali, basta restare nell’umano, nel secolare.

Io credo che tutti abbiamo vissuto esperienze personali del genere, e sarebbe bello se qualche lettore contribuisse raccontando a questo giornale qualche sua esperienza significativa, diffondendola così fra gli altri, perché l’esperienza di uno può toccare anche il cuore di un altro. Credo che questo sia il modo migliore non solo per far crescere questo giornale (vedo il suo futuro soprattutto come un giornale di buone notizie, perché il Vangelo è la Buona Novella che deve valere sempre, anche per noi oggi), ma anche per aiutare ciascuno di noi a crescere di dentro, visto che, di primo mattino appena alzati, già ci troviamo smarriti leggendo sui quotidiani freschi di stampa le cattive notizie che si accumulano ogni giorno. Per fortuna le buone notizie sono ancora tante perché, come diceva Gandhi, se la somma delle attività umane desse un totale distruttivo, il mondo sarebbe effettivamente finito da un pezzo; per fortuna l’amore, anche se non fa notizia, continua a sostenere questo pianeta. Io mi auguro che, nel generale bombardamento di notizie negative, questo giornale continui a tener accesa una fiammella di speranza, perché di questo abbiamo più che mai bisogno in questi tempi così grigi, confusi e incerti. Sarebbe un bel modo di fare teologia vivente.