Lettera aperta agli amici di Rodafà - Pietro Piro

Memoria di don Michele Do nella pietra del Monastero di Bose - foto del direttore

Lettera aperta agli amici di Rodafà

di Pietro Piro

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Carissimi amici,

permettetemi anzitutto, di rivolgere un pensiero di profonda gratitudine per Stefano. Credo che averlo incontrato nel mio pellegrinaggio sulla Terra sia un segno di Grazia. I momenti condivisi con lui nella ricerca sono per me di grande consolazione e spero anche per voi.

Vorrei, in questa occasione di festa, usare parole semplici e dirette al cuore degli amici. 

La vostra presenza mi da gioia e riempie il mio cuore di Speranza. Oggi scrivo a degli amici e mi permetto di dire delle cose che possono essere sussurrate solo dove l’accoglienza si fa calore concreto. Solo dove l’uomo depone il fardello dell’ostinazione per accogliere l’altro in un abbraccio.

Da tempo tutti noi dedichiamo sforzi indicibili nel tentativo di comprendere la realtà che ci circonda. Cerchiamo – ognuno con i propri strumenti – di leggere i “segni dei tempi” e proviamo a dire parole che possano sfiorare le dimensioni del senso.

Cerchiamo di fare luce dove la luce stenta farsi strada. Spessissimo, facciamo ricorso alle parole del passato per poter vivere il presente.

Tuttavia, il presente, questo mostro selvaggio e indomito, non fa che sfuggire al nostro sguardo. Si nasconde dietro la trasparenza dell’immediato e divora ogni nostro attimo. Il presente divora il passato e impone la sua continua accelerazione che ci logora e ci sfinisce.

Siamo dunque costretti a venire a patti col presente per non essere triturati. Questi patti però ci dicono che per vivere dobbiamo essere accomodanti con le dimensioni più oscure del potere. Siamo tutti – e l’eccezione conferma la regola – dentro una dimensione accomodante e indulgente nei confronti del mondo che abitiamo. Complici. È dentro questo vincolo di complicità che l’amore stenta a respirare, asfissiato dalla logica stringente dei sistemi di potere. Sembra proprio che la relazione tra oppressori e oppressi, tra persuasori e persuasi, tra padrone e servo non sia così netta e che tutti sogniamo gli stessi sogni.

Quale oscura e spensierata leggerezza avvolge come una cappa malefica le dimensioni liberanti dell’amore oggi. Quale pervasivo senso d’inutilità minaccia ogni nostro slancio verso l’altro.

Combattiamo ogni giorno contro una rassegnazione che si fa sempre più grande, contro una dilagante disumanizzazione, contro la perdita della memoria dell’umano.

In questa battaglia noi amici ci stringiamo forte, ci diamo forza e coraggio, ci sussurriamo nelle orecchie parole di vita. Ma sappiano, in cuor nostro, che il Male ci seduce e ci attanaglia.

Recentemente ho riletto queste righe di Jacques Maritain del 1938:

Perché il cristiano è libero nel mondo? È libero perché è legato, legato a qualche cosa che non è nel mondo . Noi siamo legati al Vangelo, ed il Vangelo annuncia il Regno dei Cieli. Alla radice di tutti i nostri problemi sta il problema del Vangelo e del mondo.

Questa affermazione ci riguarda. Noi siamo insieme oggi a celebrare la nostra amicizia perché qualcosa ci lega profondamente.

Questo qualcosa, va oltre il livello psicologico-sociale e oltre la logica dell’attrazione-repulsione. Questo qualcosa è il Vangelo. Noi siamo amici grazie al Vangelo. Il Vangelo ci ha condotto per mano fino ad oggi e ci permette di dialogare su una dimensione altra rispetto alle logiche del dominio del mondo. Credo abbiamo tutti un profondo debito di gratitudine nei confronti del potere aggregante del Vangelo.

Allo stesso tempo però, ogni nostro disagio, ogni nostra sofferenza, ogni nostra tribolazione, deriva dalla follia di fare continuamente riferimento al Vangelo.  Noi vorremmo avvicinarci al Vangelo. I più spirituali di noi vorrebbero, addirittura, vivere il Vangelo. 

Ma noi tutti sappiamo che viviamo in un mondo adulto dove la fede nel Vangelo deve essere continuamente sottoposta alle Leggi della Terra. Al dominio degli uomini sugli uomini. Ecco, è proprio questo continuo conflitto che fa nascere in noi lo sconforto, il pessimismo, la rassegnazione. Ma quando riusciamo a ritornare in forze, torniamo a fare il nostro lavoro di cristiani che è quello di:

Aumentare e tenere viva nel mondo la tensione interna ed il processo di lenta e dolorosa liberazione generata dalle invisibili forze di verità, di giustizia, di bontà e di amore che sono attive nella massa, la quale le contrasta […] guai al mondo se i cristiani se ne discostano, se rinunciano a fare il loro mestiere, che è quello di far crescere quaggiù la carica e la tensione dello spirituale.

Il nostro compito, dunque, cari amici, è di mantenere viva la nostra lacerazione, di lasciare che la tensione d’amore che anima le nostre vite le consumi fino al midollo, nel tentativo di dare fuoco al fuoco dello spirito. Condivido il pensiero di chi ha detto che: “dobbiamo morire a qualcosa per diventare desideranti, desideranti del vero desiderio al di là del bisogno, con l’amore come sola guida”.

In questi tempi in cui tutti – e in questi tutti ci sono anche molti cristiani – sembrano impazziti per la rivendicazione identitaria, per la salvaguardia d’interessi economici e politici, per la libidine della notorietà, il nostro mestiere sarà quello di desiderare che la parola del Vangelo ribalti l’ordine del discorso e permetta a tutti di liberarsi dagli inganni del potere.

Questi tempi nostri sono segnati da grandi tragedie. Le migrazioni forzate di milioni di nostri fratelli  costretti alla fuga dalla miseria e dalla guerra, la fame che colpisce ancora intere nazioni, gli sconvolgimenti ambientali causati dall’inquinamento e dallo sfruttamento delle risorse della Terra, la disoccupazione forzata che colpisce milioni di famiglie. Di fronte a queste tragedie noi possiamo solo moltiplicare all’infinito il gesto del Samaritano. Ha scritto il reverendo Martin Luther King:

Come non mai prima d’ora, amici miei, gli uomini di tutte le razze e nazionalità sono oggi chiamati ad essere ‘prossimi’ gli uni verso gli altri. L’appello ad una politica mondiale di buon vicinato è assai più che un effimera parola d’ordine: è l’appello ad una forma di vita capace di trasformare la nostra imminente elegia cosmica in un salmo di pienezza creativa. Non possiamo più a lungo permetterci il lusso di tirare dritto dall’altra parte: una tale follia si chiamava una volta fallimento morale, oggi porterebbe al suicidio universale. Non possiamo a lungo sopravvivere separati spiritualmente in un mondo che è unito dal punto di vista geografico. In ultima analisi, io non devo ignorare l’uomo ferito sulla strada di Gerico della vita, perché egli è parte di me e io sono parte di lui: la sua agonia mi diminuisce, la sua salvezza mi accresce.

L’agonia dell’altro mi diminuisce, la sua salvezza mi accresce. Quanta comprensione spirituale in questa semplice affermazione. Perché, badate bene amici carissimi, che dopo duemila anni noi siamo ancora nella condizione di domandare:

Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? (Mt, 25, 37-39)

Solo quando smetteremo di fare queste stupide domande avremo finalmente compreso qual’è il nostro mestiere. Quando avremo compreso che “ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me”.

Grazie a tutti, vi abbraccio fraternamente. 

Bologna 14/04/2019