Quel singolare invito evangelico a odiare (o ad amare di meno)

Incontro di due Cardinali al Pincio, Ferdinand Heilbuth, 1868

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Una comprensibile pudica preoccupazione ha portato a tradurre il verbo greco neotestamentario “miseo” (μισέω), che letteralmente significa “odiare” e che è presente nel  Vangelo di Luca, al cap. 14, in quel versetto 26 che la liturgia romana legge e proclama questa domenica, con un più sereno e meno indigesto “amare di meno”, o “amare di più”.

Ma la sensazione che se ne ricava non è propriamente di conforto. Traduce la rinnovata formulazione liturgica: «Se uno viene a me e non mi ama più di quanto ami suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo.»

Quell’ “odiare” si è perso definitivamente e sembrerebbe giusto ed opportuno che avvenga. E tuttavia qualcosa non va, non torna.

La “buona notizia” con cui coincide l’ “evangelo” non può corrispondere - giustamente si sostiene - ad una predicazione d’odio, mai, sia pure tutto da interpretare e spiritualizzare.

È vero, eppure, anche se è così, l’odio ci è familiare, pure quando ne deprechiamo il sopravvento. Ad esempio, di “politiche d’odio” abbiamo fatto e facciamo larga esperienza.

Ed il problema in effetti è proprio questo ed è tutto qui.

Perché il vangelo dovrebbe evitare di farci contaminare con la nostra propria realtà anche nei suoi lati ed aspetti meno presentabili?

Perché dovremmo a tutti i costi fare la stimata figura di coloro che non odiano mai nessuno e che anzi confessano come grave peccato l’odiare chicchessia? Questa sarebbe virtù?

Perché il vangelo dovrebbe posizionarci in una specie di area protetta dove non odiamo nessuno e presumibilmente nessuno ci odia o, anche se ci odia, noi veniamo preservati da ogni reciprocità che tale odio in astratto potrebbe suscitare?

Il Vangelo, invece – non sembri blasfemo dirlo così -, è fatto proprio per chi odia, non per chi ha paura di odiare. Cioè, spieghiamo meglio: il vangelo è fatto per chi ama talmente tanto da ricomprendere nella sua esperienza d’amore anche l’odio. L’odio verso i torturatori dei propri cari in un conflitto etnico, ad esempio. L’odio verso chi ha commesso uno stupro. L’odio verso chi ha ucciso vite innocenti quasi per il gusto di farlo. L’odio verso chi ha pianificato stragi. L’odio verso chi s’è incrudelito sui più deboli ed indifesi.

Certo, l’odio non porta da nessuna parte. Ma c’è. Ed ignorare che ci sia non è lezione evangelica e non è per nulla virtuoso.

Proviamo a fare un timido passo ancora più avanti.

Il primato assoluto, in termini evangelici appunto, va alla vita o all’amore? All’amore, senza dubbio. L’opposto della morte non è la vita ma l’amore.

Che significa dunque odiare padre, madre, moglie, figli, fratelli, sorelle e perfino la propria vita? Significa odiare un amore costretto dai ruoli e su di essi costruito. Non si ama per obbligazione sociale. Non si ama per diritto naturale. Non si ama perché è cosa molto rispettabile e per bene, si ama odiando ogni limite all’amore. Fa forse impressione sintetizzare così, ma “la nostra vita”, che in effetti il testo greco traduce con “tèn psychèn”, pressoché intraducibile in realtà in italiano (mica sarà “la psiche”, vero? Eppure non c’è scritto “vita”), questo ci fa scoprire. Non amo la mia vita perché sono obbligato a vivere, ma perché c’è un andare con qualcuno, qualcuna, più importante del fatto stesso di vivere. C’è chi odia la propria vita, per i più svariati motivi, disperando e finendo in un odio spesso furibondo verso se stesso o se stessa. Ecco, è lì che compare il viso di Qualcuno che propone di andare con Lui (o con Lei). L’amore sta, cioè, dentro l’odio, e non fuori di esso.

Il caso eclatante è quello del concorrente d’amore. Come si fa a non odiarlo, a non augurarsi che sparisca? Eppure lo scandalo, il peccato, consiste nello spreco di energie che posso impiegare odiando costui – o costei – piuttosto che dedicandomi completamente a chi amo.

Lo sforzo volontaristico di non odiare coincide spesso con una ricerca di purezza che aliena e alimenta, alla fine, proprio l’odio verso chi invece così puro non è e non riesce ad essere.

È un po’ come il ritornello che “quando c’è la salute, c’è tutto.” Ma nemmeno per sogno: si può scoppiare di salute e non amare nessuno e non essere amati da nessuno. Piuttosto: quando c’è l’amore c’è tutto, ma l’amore non è non-odio, non è sconto di fine stagione alla complessità del mio cuore e della mia mente (che sia questa la “psyché” di cui parla il vangelo?), è innesto di novità, di buona e bella novità, dentro ciò che sono e che sento e che non è sempre una dolce armonia di benevolenza universale, ma assai spesso, al contrario, una rabbia irrefrenabile verso ogni limite d’amore che avverto quale intollerabile ingiustizia.

Esiste un amore politico che non fa da supporto a nessun presunto “partito dell’amore”. Esiste un amore capace, piuttosto, di farsi carico di ogni limite per contrapporvisi e superarlo in avanti, non ruzzolando all’indietro.

“Si quis venit ad me et non odit”, “se qualcuno viene a me e non odia”, se non lo fa, mente a se stesso, mente all’amore. Non c’è amore senza odio. Senza odio verso la repressione dell’amore.

Ci può essere il più compiuto rispetto di padre, madre, moglie, figli, fratelli e sorelle, tutto formalmente a posto, tutto regolare e rispondente alle attese d’ogni società, ma in tale perfetta architettura affettiva può crescere una desolante solitudine che è l’esatto contrario dell’amore.

L’amore politico anela a non nascondersi perché odia l’oscurità anche se spesso ne abita il mistero. Un amore assolutamente non oscuro, ma tutto chiarori e musiche trionfali, non è un amore vero, non è un amore nostro.

In quel “venire a me” si può avvertire persino un cenno a quell’esperienza d’amore tutta fisica ma non solo fisica, che questa volta davvero il pudore ci impedisce di descrivere oltre.

Ma l’amore è un fare e non esiste un fare che non sporchi le mani, gli occhi, la bocca, le gambe. 

L’amore salva perché sta dentro una realtà che abbisogna di salvezza e l’odio, si diceva, non porta da nessuna parte, porta soltanto a morire. Però la vita comprende anche la morte e così come non esiste vita senza morte, così pure non esiste amore senza odio. Pretendere che esista non è affatto buona notizia, vangelo, ma sottile perversione.

E così la nostra vita abbraccia il nostro amore, i nostri amori. E redime, amando, quell’odio che siamo disposti a non celare, a non sotterrare, a non tenere compresso, represso dentro noi stessi.

Perché o il vangelo è liberazione o è contro-vangelo di addomesticamento morale.

C’è da fare un mondo nelle nostre vite e sarà un mondo bellissimo perché completo d’ogni nostro tutto. Onnigamico, ecco.

Ci diamo da fare volentieri perché amore si faccia, come e quando e dove si possa fare, “nonostante qualunque odio in contrario”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro