Chi è grano e chi è zizzania?

Zizania latifolia - foto tratta da commons.wikimedia.org

I credenti buoni sono il grano; la zizzania rappresenta gli altri, i cattivi. La zizzania è figura di individui umani che sono i seguaci del Male (Mateos J. e Camacho F., Il figlio dell’uomo, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 76 s.). Ovviamente tutti pensano di far parte dei buoni; i cattivi sono sempre gli altri. La scorsa settimana si è fatto riferimento alla zizzania, dicendo che molti pii credenti sono convinti che basti eliminare la zizzania, cioè i cattivi, gli impuri, e il bene trionferà automaticamente. Che pia illusione!

Partiamo da un dato assodato: è un principio universale quello secondo cui ogni scelta provoca inevitabilmente un’esclusione. Applicato alla religione, quando uno si sente buono e il «prescelto», per ciò stesso gli altri saranno e si vedranno «esclusi». Il solo fatto di appropriarsi di una rivelazione privilegiata di Dio rende evidente che si assume una posizione «preferenziale» non raggiungibile dagli altri (Castillo J.M.). E quando una religione pretende di avere il monopolio di Dio, non tollera che altri possano mettere in dubbio le sue certezze. Ne consegue che tutte le religioni che pretendono di essere le uniche vere sono per loro natura violente, perché chi si sente depositario di una verità assoluta vuole a tutti i costi correggere il resto dell’umanità errante, ed estirpare la zizzania. I “buoni” sono dunque i primi ad essere violenti.

Basta guardare a cosa aveva scritto il grande san Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae,  II-II, 11, 3, in http://www.documentacatholicaomnia.eu/): l’eretico merita la scomunica e anche di essere messo a morte. Lo stesso si è visto perfino nel mite buddhismo (cfr. Il Bin Laden buddista gran maestro dell’odio, “La Repubblica” del 3.5.2013, p. 34), dove si parla del successo di un monaco birmano nell’istigare alle violenze contro i musulmani, che fanno la parte dei cattivi. Delle violenze dei fondamentalisti musulmani è inutile parlare, le conosciamo bene, come conosciamo bene il Dio violento della Bibbia ebraica. Dopo tutto Yhwh è “uomo di guerra” (Ish, cioè uomo, dice proprio così Es 15, 3), e la guerra è per sua natura violenta.

Si è visto ormai varie volte che più si è lontani dal dio della religione e più è facile accogliere il messaggio di Gesù; più si è immersi in un mondo sacrale, in un mondo religioso, e più si è refrattari. «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite» (Mc 8, 18), ripeteva Gesù ai suoi apostoli intrisi di religione, e quindi perfetti fondamentalisti. Ricordiamoci di come volevano mandar via l’impura donna pagana che insisteva con Gesù - Mt 15, 23; ma ricordiamoci anche di come lo stesso Pietro ci ha messo un sacco di tempo ad accettare che non c’è una sola persona al mondo che per la sua condotta, per il suo comportamento religioso, morale, sessuale, possa sentirsi esclusa dall’amore di Dio. Gesù era ormai morto e risorto da un sacco di tempo, e, finalmente, solo dopo l’episodio del centurione Cornelio, Pietro arriva a formulare questa conclusione: «Dio mi ha insegnato che nessun uomo deve essere considerato impuro o contaminato»  - At 10, 28 e 34. In realtà, gliel’aveva insegnato Gesù molti anni prima, ma Pietro non l’aveva capito, come non l’ha capito ancora gran parte dei cattolici, decisi a rifiutare l’eucarestia ai divorziati risposati, agli omosessuali, ai peccatori in genere (cfr. quanto detto proprio sull’apartheid eucaristica nell’articolo Che cos’è la spiritualità? di due settimane fa, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-513---14-luglio-2019/che-cos-e-la-spiritualita).

Dunque, si può tranquillamente affermare che le persone possedute dal ‘demonio’ sono innanzitutto le persone possedute dalla religione, i dogmatici puri e inflessibili che pretendono di imporre solo le loro verità senza mettersi mai in discussione (rinvio a quanto detto nell’articolo Demoni e diavoli, al n. 476 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-476---28-ottobre-2018/demoni-e-diavoli). Così erano i fedeli puri e ortodossi della Chiesa di Efeso (Ap 2, 1ss.), sempre pronti a investire gli altri con la propria verità assoluta e indiscutibile. Succede allora che proprio questi intransigenti custodi dell’ortodossia, così sicuri all’interno dei loro principi religiosi, non riescono ad accorgersi di ciò che Dio offre loro e, in nome della religione, rifiuteranno l’offerta d’amore del Dio che viene. Ecco perché già duemila anni fa i refrattari al messaggio di Gesù non erano stati i peccatori, ma le persone pie e religiose; non erano state le prostitute, ma i sacerdoti e i teologi ufficiali. Ecco perché Gesù poteva dire agli attoniti pii difensori della Legge divina che le prostitute e i pubblicani (zizzania secondo il punto di vista dell’ortodossia) li avevano già preceduti nel Regno dei cieli (Mt 21, 31). Questa frase l’abbiamo sentita ripetere mille volte, eppure facciamo ancora oggi fatica a recepirla: impossibile che una baldracca mezza svestita e immorale possa entrare nel regno di Dio, mentre un eminente vescovo, tutto compito e vestito con i suoi sacri paludamenti, possa restarne fuori. Siamo ancora eredi del diritto romano e per noi la giustizia è retributiva: si tira una riga per terra, e i buoni da premiare vanno da una parte, i cattivi da castigare dall’altra. Siamo ancora convinti che il vescovo sa cosa vuole Dio e segue la sua volontà, mentre l’immorale prostituta non lo può sapere, e anche se lo sa non segue mai la sua volontà.

Ma se si riconosce che Dio è trascendente, che è completamente al di là della nostra portata, come si può essere sicuri che Dio si è allontanato sdegnato da chi è peccatore? La risposta, secondo cui sappiamo tutto perché c’è stata la rivelazione, è insufficiente, perché la rivelazione è senz’altro dono di Dio, ma l’interpretazione della rivelazione e la costruzione teologica che ne segue sono sempre frutto di attività umana.

Cercando d’interpretare cosa Gesù ci ha rivelato di Dio, con l’innovativa idea dell’umanizzazione di Dio (incarnazione), questa rivelazione sembra dirci che – anche se nessuno può pensare di vedere Dio (Gv 1, 18) – lo possiamo trovare nell’umanità, nella debolezza della carne. Ma allora anche noi dovremmo volare bassi, stare con i piedi per terra, e guardando solo al modello umano di Gesù non dovremmo domandarci qual è il nostro rapporto con Dio, ma solo qual è il nostro rapporto con gli altri uomini: infatti non sappiamo come Dio si è rapportato con Gesù, mentre dalle numerose testimonianze possiamo ben sapere come Gesù si è rapportato con gli altri uomini. Inoltre, se abbiamo umanizzato Dio dovremmo umanizzare anche il peccato, che va visto in rapporto orizzontale sempre con gli altri uomini, e non in senso verticale passando dall’immanenza alla trascendenza (cfr. l’articolo I peccati secondo Gesù, al n. 485 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-485---30-dicembre-2018/i-peccati-secondo-gesu). E se s’incontra Dio solo nell’umano che ci sta attorno, non c’è motivo di andare a incontrarlo nel Tempio, con l’intermediazione dei sacerdoti, visto che già siamo tutti sacerdoti che lo possono contattare direttamente, e per di più gratuitamente.

Non è che prima di Gesù gli ebrei avessero fatto meglio di noi: a parte il fatto che, per occupare la terra promessa, avevano ammazzato con fervore in nome del proprio Dio quelle popolazioni che già la occupavano e non accettavano l’idea di venire sfrattate (come i Cananei), o che cercavano al pari di loro di occuparla (come i Filistei che venivano dal mare), anche fra di loro non si sopportavano: i giudei consideravano i samaritani [1] una razza inferiore e scismatica  – quel popolo stupido che abita a Sichem, come risulta dal Siracide (Sir 50, 26), - ed erano convinti che Dio in persona avesse preso nota della malvagità della Samaria che meritava lo sterminio (Os 8, 5-6). Per questo, non sopportavano che anche quei miscredenti della Samaria (2Re 17, 24-41) potessero adorare lo stesso Dio che loro, gli unici veri credenti, adoravano a Gerusalemme. Per questo avevano distrutto il Tempio costruito dai samaritani sul monte Garizim, in passato luogo delle benedizioni della Bibbia (Dt 11, 29; Dt 27, 12); a distanza di tempo i samaritani si erano vendicati profanando il Tempio di Gerusalemme, impedendo così la celebrazione della Pasqua; come ritorsione quei miscredenti avevano ricevuto il divieto assoluto per il futuro di entrare nel Tempio sacro da essi profanato: espulsi a vita; comunque, ogni qualvolta s’incontravano, giù botte da orbi per non parlare dei furti (Tacito, Annali, 12, 54). Ecco perché la samaritana al pozzo si era stupita del fatto che un giudeo (Gesù) le parlasse senza disprezzo (Gv 4, 9).

Oggi, a noi ancora non suona strano (eppure lo dovrebbe) che persone, le quali abbracciano una determinata fede, si credano di per ciò solo superiori, più degne e pretendano più diritti di coloro che hanno credenze religiose anche solo leggermente diverse dalle proprie (così noi cattolici pensiamo dei protestanti e degli ortodossi, e viceversa). Neanche ci stupisce né ci scandalizza sentir affermare: “Prima gli italiani!” Cioè gli italiani dovrebbero avere più diritti degli altri in Italia; ma allora dovremmo coerentemente accettare di avere meno diritti degli altri quando andiamo all’estero (dove altri diranno: “Prima gli americani!”, ecc.), ma questo già ci piace di meno.

Insomma, ci sono tanti modi per dar importanza nella propria vita a quello in cui si crede e, forse, la cosa peggiore in assoluto è dire: “tu non credi a ciò che credo io? Allora non sei credente, sei dalla parte sbagliata ed io sono superiore a te!” Ragionando così, un cristiano non potrà mai vedere un credente in un musulmano, né viceversa. In effetti la definizione offerta dall’art. 3 del Catechismo di Pio X, che escludeva il non battezzato dall’ambito dei credenti, negava in radice che fra gli ebrei o i musulmani o gli indù potessero esservi dei veri credenti. Purtroppo sono ancora in tanti a pensarla così, anche perché molti ferventi cattolici identificano la vera fede solo col blocco dottrinario che è proposto dalla Chiesa di Roma, sì che chi non crede a queste verità non è per loro credente, ma è uno senza fede. Abbiamo visto nell’articolo Cosa è la fede, al n. 498 di questo giornale (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-498---31-marzo-2019/cosa-e-la-fede), che credere in una certa dottrina è fede secondo Paolo, ma non secondo i vangeli.

Questa granitica convinzione di essere gli unici a seguire la retta via non resta scalfita neanche di fronte all’episodio evangelico (Mc 3, 31) in cui si narra che l’intera famiglia di Gesù si mosse in gruppo per andare a catturarlo, ritenendolo fuori di testa. Ma perché vogliono catturalo? Perché se il clan non fa nulla, sembra accettare l’operato di Gesù, e chiunque lo accettava rischiava l’espulsione dalla sinagoga (Gv 9, 22). La scomunica religiosa non significava solo non poter partecipare al culto, ma aveva gravi conseguenze nell’ambito sociale: insomma era la morte civile per tutta la famiglia che non poteva aver più alcun rapporto con i credenti ammessi al culto. Ecco allora che il clan parte da Nazareth, ma arrivato dove si trova Gesù si ferma, perché Gesù è attorniato da un cerchio di gente impura: questo ostacolo non era stato previsto. Loro, facenti parte del popolo eletto, dei prescelti, sono puri; non possono avvicinarsi a Gesù senza rischiare di sfiorare questa folla di miscredenti impuri, contaminarsi e diventare così a loro volta impuri (Maggi A.). Non mischiandosi con gli impuri e non facendosi contaminare da loro, il gruppo, che si ritiene puro e quindi eletto, è convinto non solo di dimostrare visibilmente a tutti il pieno disaccordo con Gesù, ma è convinto soprattutto di far parte dei perfetti ed unici veri osservanti della Legge, mentre non si rende conto che nessuno di essi potrà mai fare vera esperienza di Dio se non si avvicina a Gesù, sì che, in realtà, il vangelo ci sta dicendo che proprio coloro che si ritengono gli eletti sono i più lontani da Dio, anche se sono convinti di essere i più vicini. Pensano di essere grano, sono zizzania, e con una mostruosa contraddizione non si rendono conto che per essere realmente coerenti dovrebbero per prima cosa estirpare sé stessi.

Ulteriore annotazione importante: la Madonna fa parte del clan che considera Gesù pazzo, per cui appare infondata la tesi secondo cui ella ha dato adesione immediata e senza incertezze alla Parola di Dio (Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 120s.). La sua conversione sarà lunga, faticosa e dolorosa. Ecco la famosa spada che la trafiggerà (Lc 2, 35). Ma la spada non va intesa tanto come segno di dolore perché essere trafitti fa sicuramente male, ma è piuttosto l’immagine della Parola di Dio che costringe a stare di qua o di là, visto che la spada taglia in due parti nette. Da notare anche come, fra l’altro, questo doloroso percorso ci mostri una Maria molto più umana di quanto normalmente ce la presentino (Maggi A., Nostra Signora degli eretici, ed. Cittadella, Assisi, 2003, 131 ss.). Solo alla fine, dunque, sotto la croce, Maria sceglierà di seguire da vera discepola la sorte del figlio Maestro. In realtà Maria si è trovata davanti a un dilemma: rinnegare il figlio e restare col suo clan, oppure scegliere il matto di casa, diventare sua discepola e perdere la propria reputazione (ecco la sua croce), perché si deve sapere che in quell’epoca era semplicemente inconcepibile che una donna vivesse fuori del clan, da emancipata. Maria sceglierà la strada più difficile e rende evidente che sollevare la croce è, per tutti, il simbolo di tutte le prove, i sacrifici e le sofferenze che incontriamo per strada se si decide di dare adesione a Gesù. Piuttosto diverso dall’Immacolata creatura del cielo, dalla Vergine purissima che han fatto entrare nel nostro mondo avvolta da un’aureola di impareggiabile incanto (Ortensio da Spinetoli, La Madonna della Lumen Gentium, ed. Paoline, Roma, 1968, 38).

Neanche la stessa parabola della zizzania (Mt 13, 36-41) riesce a far deflettere questi coriacei ultracristiani convinti di essere già santificati dalla grazia, e non li fa riflettere sul fatto che costituisce una vera e propria tentazione fondamentalista e demoniaca quella di voler farsi carico di eliminare ciò che è sbagliato (= che è male) dalla faccia della terra allo scopo di far trionfare solo il bene; infatti da lì a voler eliminare anche le persone che esprimono questo male il passo è assai breve. Queste pie persone sono convinte che uccidere è male, ma in questo caso lo farebbero ai fini di un bene superiore. Quanta Santa Inquisizione, quante guerre di religione, quanti morti per voler far trionfare il Bene, il Vero e il Giusto, dimenticando che prostitute e pubblicani (zizzania da estirpare secondo i puri ortodossi) precedono gli zelanti difensori dell’ortodossia nel Regno dei cieli (Mt 21, 31). Oggi restiamo inorriditi davanti ai massacri dell’Isis, ma come si può dimenticare che, ad esempio, nell’estate del 1209, durante la santa crociata contro i catari, venne investita la città di Béziers (Francia), abitata vuoi da eretici, vuoi da cattolici (circa 20.000 persone, di cui circa il 5% catari) che convivevano pacificamente. Avendo ottenuto un netto rifiuto da parte degli assediati di consegnare gli eretici, il giorno seguente la città venne espugnata e l’intera popolazione massacrata. Secondo il cronachista cistercense Cesario di Heisterbach, quando prima dell’assalto venne chiesto al legato pontificio (Arnaud Amaury abate di Citeaux) come distinguere gli eretici dai non eretici, questi ordinò di uccidere tutti indiscriminatamente, con la famosa frase: «Caedite eos! Novit enim Dominus qui sunt eius» (Uccideteli tutti! Dio riconoscerà i suoi).

Se ben ricordo è stato don Mazzolari a dire che si diventa fanatici ogniqualvolta si dimentica che Dio ci dà la consegna di lavorare per il bene, non quella di farlo trionfare. Infatti, nel prologo al Vangelo di Giovanni, c’è un’espressione molto importante, spesso dimenticata nell’insegnamento della religione. Scrive l’evangelista «E la luce splende tra le tenebre» (Gv 1, 5). Non dice che la luce combatte le tenebre.

Molti dicono di credere in Dio, ma se qualcuno togliesse loro questo Dio, per la maggior parte di essi non cambierebbe proprio nulla, perché continuerebbero a vivere egoisticamente, curando solo il proprio interesse, il proprio piccolo orticello, come se Dio non ci fosse, anche se dicono di crederci. Solo di tanto in tanto diventano bellicosi e gridano contro chi vuol togliere il crocifisso dalle scuole, o contro chi vorrebbe dare la comunione ai divorziati risposati, e combattono contro le donne assassine che abortiscono o contro chi vuol selezionare l’embrione per non generare un figlio sicuramente ammalato. Ci si dovrebbe interrogare allora se il non credere in Dio da parte di un numero sempre maggiore di persone non sia il frutto proprio del comportamento di coloro che si sono professati credenti e avrebbero dovuto essere luce e invece sono stati causa prima e diretta dell’assenza di Dio nel loro modo di relazionarsi con gli altri. Il Concilio Vaticano II (Costituzione pastorale sulla Chiesa – Gaudium et spes, 7.12.1965 § 19 ult. co.) ha espressamente riconosciuto che nella genesi dell'ateismo possono contribuire non poco i credenti, nella misura in cui, per aver trascurato di educare la propria fede, o per una presentazione ingannevole della dottrina, od anche per i difetti della propria vita religiosa, morale e sociale, si deve dire piuttosto che nascondono e non che manifestano il genuino volto di Dio e del cattolicesimo. Ancor più gelidamente un autore ha così fotografato questi sedicenti credenti: “non avendo la forza per essere della natura, credono di appartenere alla grazia” (Péguy C.).

Dunque il vero cattolico non combatte mai nessuno. L’atteggiamento del credente cattolico che ha accolto il messaggio di Gesù non può essere mai bellicoso. Toni da crociata, da soldati di Cristo, atteggiamenti violenti e intolleranti trasformano in zizzania proprio quelle stesse persone che invece si ritengono purissimo grano. Non era questa la spiritualità trasmessaci da Gesù, il quale voleva che i suoi discepoli si caratterizzassero solo per essere la luce del mondo (Mt 5, 14), e questa luce si manifesta nel dono, nel donare sé stessi, e non nel proclamare, nel giudicare e neanche nell’imporre dottrine. Gesù dice «Risplenda la vostra luce davanti agli uomini perché vedano le vostre opere buone» (Mt 5, 16), non perché sentano le vostre belle prediche. La luce si vede solo attraverso le opere buone, non attraverso parole buone, men che meno attraverso profonde disquisizioni metafisiche o imponendo di credere a dei dogmi. Solo le opere manifestano questa luce. Gesù non vuole ammiratori, ma collaboratori. Quindi Gesù non invita ad insegnare una dottrina, ad evangelizzare il mondo illustrando a tutti degli alti principi morali, a imporre leggi (chiamate naturali o divine), ma a svolgere una pratica buona e fruttifera che assomigli a quella che lui stesso ha esercitato (Gv 17, 18: «Come tu mi hai inviato nel mondo, anche io li ho inviati nel mondo»). Ed è proprio vero che quando si passa da una formulazione dottrinale a un’altra di solito non si trasmette un bel niente; forse si potrà trasmettere qualcosa passando da esperienza ad esperienza, nella forma del contatto, da persona a persona, come una fiamma si accende da un’altra fiamma (Enciclica Lumen Fidei, §37 di Papa Francesco, in www.vatican.va). La gente si aspetta dai seguaci di Gesù un’alternativa a questa società che tutti intuiscono deve poter essere migliore; una modalità di vita diversa, a maggior ragione in questo mondo violento e bulimico di oggi. Se la gente vede che il messaggio di Gesù viene predicato ma non viene poi messo in pratica rimane delusa e lo lascia perdere.

Anche nell’Apocalisse (Ap 6, 12-17), quando la rottura del sesto sigillo svela la sconvolgimento da fine del mondo, si sta affermando che l’ordine della creazione non esiste più, che la luce (come in Mt 5, 14) si è ritirata dal mondo. In che senso? Se i credenti, che sono i veri rappresentanti di Dio sulla terra, smettono di collaborare (magari perché sono stati uccisi, magari perché non credono più nel progetto), prevalgono gli uomini che non praticano la giustizia, e allora non resta che il caos, il buio. Quanti sedicenti credenti, in realtà solo religiosi dalla fede rabbiosa e militante, sarebbero contenti in cuor loro se il mondo finisse quando loro si ritirano sdegnosamente. Invece anche l’Apocalisse, che sembra così terribile, fa capire che non è così: fa capire che la collaborazione è indispensabile per il mondo, che i credenti hanno la responsabilità di essere luce nel mondo, ma alla fin fine il mondo si conserverà e la catastrofe cosmica in realtà non si verificherà (Ap 7 ss.) perché ci saranno sempre dei collaboratori di Dio, e la catastrofe viene fatta vedere solo come una possibile ipotesi.

È triste, allora, osservare come tante persone, che si reputano le uniche vere credenti, tutte così piene di zelo osservante, sempre pronte a salmodiare lodi e a difendere a spada tratta i principi non negoziabili della propria religione con l’aggressività tipica di chi sa di essere nel giusto e di avere Dio dalla sua, non si rendano proprio conto di trovarsi in piena rotta di collisione con l’insegnamento di Gesù, il quale esclude espressamente qualunque forma di aggressività: «se avete qualcosa contro alcuno perdonate, perché anche il Padre vostro nei cieli perdoni a voi le vostre colpe» (Mc 11, 25). Aggiunge anche: “Non giudicate!” (Mt 7, 1) e ci dice, invece: “Amate!” (Gv 13, 34), e amandovi risolverete tutto, cambierete il mondo.

Questi che si ergono a credenti, e sono poi anche convinti di essere gli unici veri credenti, si comportano come Elia, che era pieno di zelo per il Signore (1Re 19, 14), e proprio per questo gli altri “con zelo li ridusse a pochi” (Sir 48, 2), o sgozzandoli personalmente (1Re 18, 40) o anche bruciandoli cinquanta alla volta (2 Re 1, 9-15). La parola zelota viene da zelo; gente, come Elia, piena di sacro furore che stermina assai volentieri tutti quelli che pensa siano nemici del proprio Dio; e questa gente esiste ancora oggi, anche nel mondo cristiano, non solo fra i musulmani dell’Isis. Oggi la maggior parte di noi, a differenza dei fondamentalisti dell’Isis, dubita che possa essere definito vero credente colui che lastrica la sua strada di cadaveri di infedeli, ma nei secoli passati i cristiani fondamentalisti hanno fatto esattamente questo. Oggi, il pio credente cristiano integralista non uccide più con le armi, salvo rare eccezioni (si pensi agli omicidi negli Stati Uniti di medici abortisti da parte dei fieri oppositori dell’aborto [2], perché per loro… la vita è sacra) perché la legge profana non glielo permette; ma essendo ancora convinto di aver il sacrosanto dovere di strappare la zizzania dalla faccia della terra  - perché come cristiano sente di avere il compito di eliminare il male e il peccato, - si sente infelice, soffre, perché questo non gli è più consentito; non si capacita di come altri continuino ostinatamente a rifiutare di ascoltare i suoi pressanti ammonimenti, non vivano e non la pensino come lui, e non si pentano di vivere nel peccato. Quanto vorrebbe poter raddrizzare e purificare questa umanità peccatrice che reca offesa a Dio e al suo Creato! Se solo la legge statale glielo permettesse, tanti cristiani pii e religiosi sarebbero ancora pronti a togliere di mezzo i peccatori e chi fa ciò che è male agli occhi di Dio, come prevedeva del resto la Bibbia (Dt 13, 6), a estirpare insieme peccato e peccatore, che offende in continuazione Dio, che si ostina a non pentirsi e a non tornare sulla retta via. Insomma, l’ossessione per l’osservanza delle regole, la passione per il Dio-Legge, resta sempre attuale nel mondo religioso, non solo fra i fondamentalisti dell’Isis.

Ma basterebbe solo meditare sulla parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18, 9-14). Anche il fariseo della parabola, mentre disprezza il pubblicano peccatore, si compiace dei propri meriti e della sua perfetta osservanza della legge, ma alla fine, chi ottiene il perdono e l’amore di Dio? Il pubblicano, pieno di peccati. Che meriti ha il pubblicano peccatore? Nessuno. E il fariseo così ricco di meriti e di virtù, che sa di essere in grazia di Dio, che sa di essere più degno, più puro e quindi più vicino a Dio, che fine fa? Il fariseo convinto che  sono solo gli altri a dover cambiare non torna a casa giustificato, cioè in giusto rapporto con Dio, perché pensa di essere lui il principio del bene che compie e che Dio gli deve essere grato per questo. L’uomo spirituale è consapevole di non essere lui il principio della sua perfezione ed azione (Gv 5, 19: il figlio non fa nulla da sé). L’uomo spirituale sa che non è lui ad amare, ma è il bene che in lui cerca di diventare amore; non è lui a volere, ma la forza della vita che in lui cerca di diventare desiderio, azione  (Molari C., Per una spiritualità adulta, ed. Cittadella, Assisi, 2008,  129ss.).

Nulla di nuovo sotto il sole: la conversione è difficile per i peccatori, ma ancor di più per i credenti: la conversione, infatti, non è un atto puntuale della propria vita, ma un atto continuativo; chi non si apre continuamente al Dio che viene rimane un guardiano al museo del Dio che era, e in nome del Dio che era, dirà Gesù, perseguiterà i profeti del Dio che viene. È assai difficile passare dall’otre vecchio all’otre nuovo, e quanta resistenza si trova nell’abbandonare le abitudini religiose che sono ben consolidate. Al momento della nascita di Gesù i sacerdoti interpellati da Erode, scombussolato ed impaurito dalle domande dei maghi (Mt 2, 4), dimostrano di svolgere professionalmente un mestiere, ma non si curano minimamente dell’arrivo dell’atteso Messia e del Regno di Dio. Non seguono la nuova stella che è sorta. Sanno di essere già veri credenti, sanno già tutto per cui non sono spinti a cambiare, non sono interessati ad allargare i propri orizzonti, né a intraprendere un nuovo cammino; restano attaccati alla propria tradizione, e pensano di non aver nulla da cercare; stanno bene così. Sanno indicare la strada, perché hanno studiato, ma poi restano là, seduti al margine di essa. È un atteggiamento che ritorna di continuo, anche ai giorni nostri, anche nel dialogo interreligioso. Dove sono le nostre novità? Le nostre strade nuove di cammino verso la verità? Sono gli altri a dover cambiare: i veri credenti, che si considerano già arrivati, restano seduti. Invece, restare seduti, non trovarsi in continuo cammino nella storia che continua imperterrita ad avanzare, è un errore piuttosto grave: ad esempio in Italia, con l’immigrazione degli ultimi trent’anni, molti non si rendono conto che il concetto tradizionale di collocazione geografica della religione comincia a vacillare; non accettano ancora l’idea che stiamo diventando multi religiosi. All’opposto di quelli che si considerano anche oggi veri credenti, come del resto si consideravano veri credenti i sacerdoti di Erode o i soldati dell’abate di Citeaux, dovremmo darci una mossa e metterci faticosamente in ascolto e in cammino per la strada che porta verso Dio, come avevano fatto in allora gl’impuri maghi pagani quando, attirati dalla semplice visione di una stella, si erano messi in moto alla ricerca di un incontro con Dio, perché tutti i camminatori sono alla ricerca di un senso che si disvela solo cammin facendo (Bianchi E., Come nomadi in cerca di Dio, “Famiglia Cristiana, n.12/2011, VIII.). Il loro orizzonte spirituale si è indubbiamente modificato nel corso di questo cammino; lo stesso avverrà per il nostro, purché non ci fermiamo e non ci sediamo al margine della strada considerandoci già arrivati. Dunque, l’importante è mettersi in cammino già oggi, cominciando a darsi, perché l’unica soluzione non è dire agli altri cosa non devono fare, ma fare ciascuno di noi quello che gli è richiesto di fare.

Dario Culot

 

[1] Il re d’Israele o del Nord o di Samaria (742-740), filo assiro, venne assassinato dall’ufficiale Peca (o Pekach), il quale con un colpo di stato s’impadronì del potere e poi si alleò con i siri di Damasco. Cercò di coinvolgere nella sua politica anche il re Acab di Gerusalemme, e al suo rifiuto, gli invase le terre (Is 7, 1); Acab chiese aiuto agli Assiri, i quali non chiedevano di meglio: invasero, ridussero la ricca Samaria del 90% e deportarono gran parte della popolazione ebrea: da allora non si parlerà più del regno del Nord, ma di Efraim (nome della regione, che aveva Sichem come città importante). Nel 722 anche quel che restava della Samaria venne invaso, la popolazione venne deportata e questa fu veramente la fine.

Questa è storicamente la più grande deportazione degli ebrei, alla quale non seguirà alcun ritorno. Ma siccome sono i giudei a scrivere la Bibbia, loro enfatizzeranno la deportazione di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi. Dopo la deportazione, la popolazione dei Samaritani sarà costituita dai pochi ebrei rimasti mischiati a molte altre popolazioni pagane fatte affluire nella zona centrale della Palestina sempre dagli Assiri; questi nuovi abitanti vennero considerati discendenza impura dai successivi reduci di Babilonia e da qui nasce il disprezzo giudeo per i samaritani.

Quando ci fu lo scisma religioso e politico in Israele, tra il regno di Giuda (Gerusalemme) e il regno del Nord (la Samaria), i samaritani posero dei vitelli d’oro nel santuario di Betel (il santuario casa di Dio). Questo atto venne bollato come un grande peccato di idolatria. Betel non fu più chiamata la casa di Dio, ma la casa del peccato. Quando si parla della casa del peccato la Bibbia aggiunge di non tornare più da quella parte, di allontanarsi completamente dal luogo dove non si dà culto a Dio, ma si è caduti nella idolatria “Se ne andò per un’altra strada e non tornò per quella che aveva percorsa venendo a Betel” (1Re 13,10). Matteo fa notare che anche i magi, dopo aver adorato il bambinello, non tornarono a Gerusalemme, da intendere come casa del peccato, ma se ne ritornarono per un’altra strada (Mt 2, 12). Il vangelo equipara dunque il peccato di idolatria di Betel a quello di Gerusalemme.

I samaritani, il cui sommo sacerdote si riteneva discendente di Aronne, avevano come testo sacro il solo Pentateuco e, pur non credendo nella tradizione orale e negli altri scritti biblici, credevano nella prossima venuta del  Messia, atteso come il profeta (Dt. 18,15); credevano nella risurrezione; avevano un proprio calendario e proprie usanze, e facevano sacrifici sul monte Garizim vicino a Nablus (ove nel III sec. a C. avevano costruito il loro Tempio). Da notare che anche i puri farisei esclusero dal canone dell’AT tutti i libri scritti in greco (AA.VV., Il cristianesimo questo sconosciuto, ed. Didaskaleion, Torino, 1993, 67).

[2] Il 31.5.2009 venne ucciso con un colpo di pistola dagli attivisti pro life il dr. George Tiller che eseguiva aborti tardivi (“Il Venerdì di Repubblica”, 24.5.13,  p.45). Cfr. anche Stille A., Il messaggio d’odio che infiamma l’America, “La Repubblica”, 14.1.2011.