La necessità divina della (bio)politica

Face to face and the third in the middle, disegno di Rodafà Sosteno

Senza la parentesi del titolo, l’espressione appartiene interamente a Karl Barth, del cui noto (almeno sperabilmente noto) commento alla Lettera ai Romani ricorrono i cento anni. Come spiega Francesco Saverio Festa, introducendo, prima della sua traduzione, il volume del grande teologo su Impegno politico e libertà dell’Evangelo, uscito in febbraio per Castelvecchi, la prima edizione del commento di Barth alla Lettera ai Romani comparve nel 1919 a Berna presso l’editore G. A. Bäschlin.

Alle pp. 22 e 23 di tale volume si leggono queste parole di Karl Barth: «L’autorità in sé e per sé e le “autorità” che di fatto esistono sono – proprio in quanto “autorità”, in quanto interiormente slegate dal pensiero di Dio, frantumate dalla forza dell’origine – diventate autonome, forze soltanto mondane, atee, empie e, tuttavia, proprio in quanto frammenti della potenza di Dio, restano affidate – per ciò che riguarda la posizione, la durata, il luogo, i limiti, per la loro efficacia complessiva – alla disposizione divina; restano sottoposte alla direzione divina, alla quale neanche loro possono sottrarsi. Esse, di per sé malvagie, sono costrette a vendicare il male. È questo il diritto di esistenza divino e la funzione dello Stato, di ogni Stato, che non sia lo Stato di Dio. È questa la necessità divina della politica.»

Parole pesantissime per la nostra sensibilità e probabilmente passibili di qualche grave fraintendimento.

Il corsivo degli aggettivi fornisce una spia ermeneutica che non può essere ignorata. Barth ritiene, in buona sostanza - e chiedendo venia per una simile sintesi, di sicuro intollerabile sotto il profilo dell’analisi scientifica del suo pensiero -, che il male storico, il male concreto dei poteri politici, si combatta e si sconfigga soltanto con lo stesso male e sullo stesso terreno. Le autorità politiche, malvagie teologicamente per definizione (tutto al contrario, dunque, di una bieca esaltazione dell’autorità costituita alla scuola, magari, di un San Paolo travisato), sono costrette, esse stesse, a vendicare il male. In un altro passaggio, Barth scrive (alle pp. 26 e 27): «Sottomettetevi! Lasciate cioè che lo Stato vada per la sua strada e voi, come cristiani, andate per la vostra! Il cristianesimo non è adatto ad essere una parola d’ordine accanto alle altre: esso sopprime tutte le altre, perché le include in sé. (…) Non entra in concorrenza con lo Stato, lo nega: nel presupposto e nell’essenza.» In coerenza con simile posizione – che solo un’impressione superficiale può ritenere invece contraddittoria – Barth si iscrisse già nel 1915 al Partito Socialdemocratico svizzeo, partecipando persino al congresso socialista come delegato.

Proviamo a dire ciò che ci pare di avere capito: è solo l’immersione nel male, senza disperazione ma anche con assoluto realismo, a permettere di disinnescare il male. Un po’ come imparare a nuotare solo entrando in acqua.

Nell’accezione propria di Michel Foucault, tuttavia, la nozione di “biopolitica” – diversa da quella di “politica” - non ha alcuna connotazione militante o di appartenenza, ma anzi individua una strutturazione precisa, “microfisica”, obbligante, necessaria, ineludibile, fatta di poteri che reciprocamente si controllano e si affermano, della vita concreta, contemporaneamente biologica e sociale.

La nostra vita, di ciascuno e ciascuna di noi, è di necessità una “bio-politica”, cioè risponde ad alcune logiche funzionali che organizzano il mondo ed il modo in cui viviamo.

Eppure anche dentro questa “bio-politica” esistenziale, o meglio bio-logica (il lógos del bíos), una necessità divina traluce.

In che senso e con quale significato?

Prendiamo due contesti molto diversi, uno privato e l’altro pubblico.

Quello privato possiamo riferirlo alle dinamiche, personalissime, dell’amore.

Amori malati esistono eccome, eppure quasi mai chi li vive è disposto ad ammettere che di affezione si tratti, di stato precario, di morbo. L’amore malato ottunde, droga, crea dipendenza e sedazione. Posso persino accettare di sparire, di restare completamente in ombra, in nome di una dedizione assoluta a chi amo, che ritengo sia segno, prova, di amore estremo mentre – ad un osservatore esterno, esterno a tali dinamiche – appare segno di alienazione, di sofferenza grande, di deperimento, di emaciazione, a volte addirittura di perversione. Semplicemente perché non c’è alcuna reciprocità: io soffro nell’ombra, chi amo no, ma fa restare me attaccato a quella collosa oscurità. È una manifestazione conclamata di biopolitica in atto che si sovverte, però, rimanendovi dentro, non abbracciando improvvisi – e improvvisati – salvatori, con una sola avvertenza: la consapevolezza della malattia di quell’amore. Sarà tale consapevolezza a permettermi di guarire. E tale guarigione è teologicamente uguale al concetto di “salvezza”.

Sul versante pubblico, facendo riferimento alla stretta – strettissima - attualità di cose vaticane, è stato pubblicato l’Instrumentum Laboris del Sinodo amazzonico (http://www.sinodoamazonico.va/content/sinodoamazonico/it.html), in programma in Vaticano dal 6 al 27 ottobre. All’interno di tale fondamentale documento che apre alla prossima celebrazione dell’evento di Chiesa si ammette (al n. 129, lettera a), 2) che possa procedersi all’ordinazione presbiterale di uomini che abbiano “già una famiglia costituita e stabile” e che siano anziani e “preferibilmente indigeni”.

Tutte queste coordinate di riferimento disegnano, anche in tal caso, un preciso contesto dentro il quale il – chiamiamolo così – “potere ecclesiastico”, da secoli celibatario e culturalmente formato in modo pressoché univoco, inizia a mettersi da solo in discussione, dal momento che le limitazioni all’ordinazione presbiterale di uomini sposati (non appartenenti alle Chiese Orientali, anzi davvero “di un altro mondo” pure rispetto ad esse) da un lato sembrano prive di una consistenza giuridica apprezzabile e, dall’altro – e sia detto con totale rispetto – fanno un po’ sorridere perché rimesse ad una interpretazione che non potrà che attingere a quel medesimo ambito vitale che intendono disciplinare. Ancora, dunque, biopolitica. Nel senso più bello e vero. Come spazio condiviso dove le urgenze e le verità della vita si affrontano assieme. E, di nuovo, la teologia ne viene arricchita. E la fede confermata.

Gesù di Nazaret aveva un corpo storicamente condizionato. Forse è il caso di ribadirlo proprio oggi, solennità del Corpus Domini secondo il calendario cattolico latino.

La realtà fisica, corporea, del confessato Figlio di Dio non si sottraeva alla nostra stessa contingenza storica e materiale. Si sarà ammalato, mangiava, dormiva, parlava una lingua determinata.

Scrive ancora Barth (pp. 29 e 30 del volume citato): «(…) Ognuno, piuttosto, lasci che cresca e si rafforzi l’inquietudine salvifica, che vien data al suo cuore da Dio, e la lasci sopravvenire come rafforzamento del generale, crescente profluvio del divino che un giorno da solo spezzerà le dighe. Ma, nel frattempo: sottomettetevi! Le misura e il modo della vostra partecipazione all’organizzazione della vita politica non deve però essere compromessa da questo avvertimento. Essa può essere, a seconda delle circostanze, molto ampia, e difficilmente potrete collocarvi altrove se non nell’estrema sinistra.»

A prescindere dalle specifiche opzioni politiche (di estrema sinistra, sembrerebbe) del padre della teologia dialettica, il paradosso è effettivamente ripieno di ossigeno: solo accettando lo scacco matto vinciamo la partita.

Si potrebbe forse anche sussurrare che solo morendo si apprezza la vita, solo amando si soffre d’amore. E si guarisce.

Che vi sia in tutto questo una necessità di ordine divino è faccenda rimessa alle coscienze individuali, ma è faccenda decisiva.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro