Le lingue dello Spirito

Vetrata con la Pentecoste, opera di Hans Stocker, chiesa cattolica di St. Peter a Büsserach (Svizzera) 

- foto tratta da commons.wikimedia.org

È abbastanza comune e diffusa la concezione dello Spirito, sia esso umano o divino, come una specie di contenuto che sta dentro un qualche contenitore – il corpo, ad esempio, od una chiesa, un tempio, persino un libro considerato sacro -, oppure come un oggetto destinato ad essere fatto proprio, conosciuto, desiderato, da un soggetto. Persino dunque lo “Spirito Santo” sembrerebbe Qualcuno – o forse Qualcosa – che Dio ha, che contiene, che è Suo ma che non gli corrisponde del tutto. Pure “lo Spirito di Gesù” parrebbe essere qualcosa che il Nazareno avesse, o abbia, di proprio, una cosa Sua.

Scrive Ernesto Balducci in un’omelia per l’odierna solennità di Pentecoste (da Gli ultimi tempi, Commento alla liturgia della Parola, Vol. 3/C, Borla 1991, pp. 197-198): «Gli studiosi di antropologia hanno fatto una ipotesi che per me è molto suggestiva: che sotto le nostre diverse lingue, quelli in cui un popolo, una tribù trova la massima identità e che viene trasmessa nella educazione familiare e pubblica, ci sia una specie di lingua comune per tutti gli uomini. Ci domandiamo spesso come sia possibile che un uomo occidentale possa intendersi con l’abitante di una tribù remota dell’Africa o dell’Australia. Qual è il punto di unione possibile che non sia quello del dominio da parte del più forte che impone la propria lingua al debole? È una lingua soggiacente, che è come una struttura interna ad ogni essere umano, che non trova mai una perfetta e compiuta traduzione nelle lingue particolari nelle quali noi parliamo. È la lingua universale, ma solo potenzialmente universale perché di fatto ciascuno di noi vive nella propria lingua e comprende solo ciò che nella propria lingua gli viene detto. È però un indizio di qualcosa di misterioso e di attivo che agisce in noi il fatto che possiamo imparare anche altre lingue. Un bambino può parlare simultaneamente più lingue utilizzando come struttura di trasmissione dall’una all’altra questa lingua latente, senza parole precise ma generatrice di parole e di concetti. (…) Io penso che il messaggio dello Spirito sia quello che introduce al fondo di ciascuno di noi una parola che ciascuno riesce a tradurre nella propria lingua. (…) Calandoci nella nostra condizione di cristiani che hanno trascinato dal passato una immagine di Dio, una immagine di Gesù Cristo, un insieme di dogmi che ci hanno insegnato come intoccabili, ci troviamo all’improvviso di fronte ad altre tribù umane – uso il termine in senso metaforico – per le quali la nostra tradizione non ha nessun senso, al punto tale che queste tribù estranee si difendono dalla nostra aggressività spirituale.»

La lingua prima delle lingue unisce oggetto e soggetto. Pure Balducci non si sottrae all’idea di qualcosa di interno, da far venire alla luce, da trovare in sé, ma questo qualcosa conduce al soggetto, anzi ai soggetti, tanti, plurali, che parlano diverse lingue.

E non vi sono solo le lingue dei diversi idiomi e delle diverse scritture, ma ci sono anche i linguaggi culturali che interpellano la coscienze e le scelte socio-politiche, secondo la nostra sensibilità attuale che non può dirsi più del tutto coincidente con quella degli Anni Novanta del secolo scorso, quando scriveva Balducci.

Anche la Chiesa, dal punto di vista teologico, non è propriamente un oggetto, bensì un soggetto. Il Credo la rende – ecco, appunto – contenuto di fede (“Credo la Chiesa, una, santa, cattolica, apostolica”), ma quel dire “la” Chiesa e non “nella” Chiesa fa tralucere anche una soggettività probabilmente insospettabile. La Chiesa è altro anche da se stessa, anche rispetto a sé. È una soggettività che supera le singole soggettività, in maniera del tutto analoga a quanto affermava Balducci.

Ed in questa Chiesa paiono oggi quattro i linguaggi culturali che si deve riuscire finalmente a parlare e prima ancora comprendere: il linguaggio delle donne, il linguaggio delle vittime di abusi, il linguaggio delle singole storie personali (verrebbe da dire proprio “delle soggettività”, ma forse ci sarebbe il rischio di confusione, o forse no, chissà) ed il linguaggio del diritto.

Sono quattro linguaggi che vengono usati separatamente, senza scambi e intersezioni, in ambiti non osmotici e che portano di necessità: ad istanze rivendicative, a ricerca di soluzioni soltanto sanzionatorie e non preventive, ad affermazioni deduttive e non induttive, a semplicismi e scorciatoie istituzionali.

Dentro la Chiesa poi: la questione delle donne fatica ancora a divenire una questione di veri e propri ministeri liturgici, nello spazio del presbiterio laddove si celebra l’eucarestia; la questione degli abusi è affannosa rincorsa di quanto richiedono gli apparati giudiziari civili; le storie personali non fanno innamorare e restano solo “esempi”, “casi”; il diritto canonico resta relegato in una specie di ambito esoterico dove possono esercitarsi i suoi cultori, spesso clericalmente separati da ogni mondana contaminazione.

Se lo Spirito non è contenuto ma – sia lecito dire così – “contenitore”, sfera vitale ove tutto accade, dunque al Suo interno e non al Suo esterno, l’interrogazione sulla lingua comune che possa far decodificare tutti e quattro questi linguaggi ha ormai tempi scaduti di risposta.

Si tratta allora di vedere se una vera e propria passione per una “lingua culturale comune” da scoprire sia ancora presente o si sia affievolita sino a sparire.

A volte, in tema di questione delle donne si ha l’impressione che paralizzi ancora ogni evoluzione la paura del mettere in discussione un’intera cultura; in tema di abusi sembra che la questione dell’omertà da estirpare garantisca in ogni caso su un futuro non abusante di intere strutture; in tema di soggettività pare che sia sufficiente ripetere lezioni già esposte ex cathedra ed in tema di diritto tutto sembra riducibile ad una normazione più o meno coerente e codificata.

Lo Spirito ha altro da dire e da far vivere.

Ma sarebbe possibile individuare una modalità di traduzione che, senza far venire meno la singolarità delle nostre lingue, permetta di avvertirne la parentela linguistica che le avvicina e non le rende estranee l’una all’altra?

Ad avviso di chi scrive qui, è possibile e si tratta dell’amore. Ma la parola andrebbe sviscerata, resa anch’essa soggettuale e non oggettuale.

Vi sono infiniti amori in infiniti diversi linguaggi, eppure chi potrebbe negare che esista anche una loro unità assai profonda e reale? Chi non vorrebbe fare sintesi dei tanti amori, farli vivere tutti assieme senza amputazioni e senza finzioni?

Anche le “quattro urgenze linguistiche” dell’attualità ecclesiale potrebbero essere affrontare con un vocabolario del tutto diverso da quelli sin qui adoprati: il vocabolario di un coinvolgimento tale che coincida con ciò che definiamo amore.

Scrive ancora Balducci (Op. cit., pp. 202-203): «Noi consumiamo informazioni che ci vengono date in ogni modo, ma nessuno di noi è più in grado di informare. Il primitivo informava, noi non informiamo ma consumiamo quello che ci viene dato. Così facendo, un’anonima potenza, che è all’opposto dello Spirito Santo, ci divora la coscienza, ce la predispone ad accettare i verdetti di domani, gli autoritarismi più severi, che non avvertiremo più come tali perché avremo una coscienza adatta ad accoglierli con esultanza. Questa dittatura anonima cresce ogni anno. Noi andiamo fieri di avere strumenti, giornali, mass media, ma in realtà ci dimentichiamo che non abbiamo più la scienza della voce. La scienza della voce è la scienza del saper dire e del saper ascoltare i messaggi degli altri.»

Buona domenica di Pentecoste.

 

Stefano Sodaro