Le chiavi del Regno

Duomo di Orbetello, Guido da Siena, foto di Dario Culot, aprile 2013, 

in basso a sin. si nota Pietro che accoglie le anime in Paradiso

Il magistero, per confermare il suo monopolio su Dio, mette in collegamento diretto il potere di legare e sciogliere con le chiavi. Solo Pietro è il detentore delle chiavi della Chiesa [clavigero] (Mt 16,19), e le chiavi sono viste chiaramente come simbolo di potere, di autorità: chi ha le chiavi è l’autorità centrale, è il padrone di casa o del recinto dove raccogliere le pecore. Insegna Benedetto XVI che la metafora sta ad indicare che Pietro potrà aprire o chiudere a chi gli sembra giusto, quindi potrà stabilire o proibire ciò che riterrà necessario per la vita della Chiesa; e il papa, come successore di Pietro e vicario di Cristo, potrà concedere o rifiutare l’ingresso al regno di Dio; gli è stata data carta bianca, per cui Dio ratificherà le sue decisioni. Il n. 553 del Catechismo afferma che il potere delle chiavi designa l’autorità di governare. Chi ha le chiavi governa, senza aver nessun uomo al di sopra. Però è stato già detto la settimana scorsa come, con siffatto potere divino, il papa si metterebbe perfino al posto di Dio, mentre Dio stesso si metterebbe nelle mani di un uomo. Ma può il Creatore mettersi nelle mani di una creatura?

Ora, che i capi di un’istituzione religiosa pretendano di porsi alla guida di una comunità trasformandola in un gregge da comandare, non è certo una novità. Quando nel Vangelo di Giovanni (Gv 7, 44-48) le guardie mandate dai farisei e dai sommi sacerdoti ad arrestare Gesù tornano a mani vuote, i farisei stizziti perché non l’hanno catturato esigono una spiegazione; al che le guardie rispondono che non l’hanno arrestato “perché mai nessuno ha parlato come quest’uomo”. Mai nessuno ha parlato come quell’uomo? A queste parole i capi si indispettiscono di brutto e gridano alle guardie: “ci ha creduto forse qualcuno dei capi?” Spiegazione per i meno avveduti: chi vi ha autorizzato a pensare diversamente da come pensiamo noi che siamo i vostri capi? Siamo noi capi a decidere cosa dovete e come dovete pensare. Voi, popolo-gregge, non dovete neanche sognarvi di pensare diversamente da come la pensano i pastori del gregge. Da subito, la Chiesa cattolica ha fatto propria l’idea dei capi farisei, come si vede già nella prima comunità: “Per questo io sentenzio…” disse Giacomo nel primo Concilio di Gerusalemme, nella disputa fra la chiesa ufficiale e Paolo (At.15,19). “Io giudico e decido”, e gli altri? Gli altri, zitti; decido io che sono il capo; gli altri hanno l’unico compito di dire “sì”. Chiesa docente e Chiesa discente. Ecco l’autoritarismo che emerge già nella primissima chiesa di Gerusalemme. Ma, stando ai vangeli, non doveva essere così nella Chiesa.

Nuovamente è il caso di ricordare che già nel II secolo d.C. Tertulliano aveva escluso che le chiavi consegnate a Pietro potessero passare automaticamente ai suoi successori in Roma. È bene leggere quanto scritto da Tertulliano: le chiavi sono state date personalmente a Pietro, ma da lui sono passate alla Chiesa intera, e certo non al successore di Pietro, perché in ogni chiesa agisce lo Spirito Santo [4]. Anche San Cipriano era di questa stessa idea, richiamandosi a Gv 20, 20.21 e Mt 18, 18, (così  Congar Y., Sinodo, primato e collegialità episcopale, in “La collegialità episcopale per il futuro della Chiesa”, ed. Vallecchi, Firenze, 1969, 53).

Se poi si parte dal presupposto che Pietro, pur avendo ricevuto le chiavi, non è il successore di Gesù, perché il compito di portare avanti il progetto di Dio spetta a tutta la Chiesa sotto la guida del Resuscitato, unico pastore, unico capo riconosciuto e sempre presente col suo Spirito, come si può pensare che Dio abbia dato carta bianca a Pietro?

Ma ripartiamo dal testo: «Ti darò le chiavi del Regno dei cieli» (Mt 16, 19). Cosa si fa con le chiavi? Si apre e si chiude una porta o un finestra.. Chi è fuori è fuori, chi è dentro non può uscire. In Isaia (Is 22, 22) si dice che a chi viene data autorità sulla casa di Davide riceverà le chiavi: il potere delle chiavi si riferisce all’incarico dato al sovrintendente di palazzo, dove Eliakim viene chiamato a questa carica presso il palazzo di Ezechia [5]: poiché quest’ultimo prenderà il posto di chi gli ha consegnato le chiavi, queste diventano simbolo dell’autorità e della sovranità di chi le detiene.

Ma se le chiavi servono per aprire o chiudere una serratura, è alquanto strano che Gesù, invece di parlare di aprire e chiudere una porta (siamo noi che abbiamo pensato a quella del paradiso), accosti le chiavi al legare e sciogliere, visto che con le chiavi non si può legare e sciogliere proprio niente. Già questo dovrebbe farci fermare un attimo a meditare.

Nel vangelo, poi, Gesù lamenta che i farisei e gli scribi sono stati soltanto capaci di chiudere in faccia agli uomini la porta del Regno di Dio; loro non sono entrati, ma non lasciano che neanche gli altri entrino (Mt 23, 13) [6]. Tutti sono rimasti fuori. Recentemente Papa Francesco ha pregato perché tutti quelli che si avvicinano alla Chiesa trovino le porte (della Chiesa) aperte, e non chiuse. Questo nuovo papa parla finalmente di una fede che ha fiducia nella vita, che dà la forza di alzarsi quando si cade, che sceglie sempre l’accoglienza. Non vuole, invece, una “dogana pastorale” da parte dei feroci controllori della fede, che non fanno passare chi non è in regola, e anzi spezzano quelle che considerano “canne incrinate”. Papa Francesco ha fatto l’esempio di una ragazza madre che va in parrocchia per battezzare il suo bambino e si sente rispondere che non lo può fare perché non è sposata. “Questa ragazza, che ha avuto il coraggio di portare avanti la sua gravidanza, di non rinviare suo figlio al mittente, cosa trova? Una porta chiusa! Questo non è buon zelo! Allontana dal Signore! E Gesù s’indigna quando vede queste cose”[7].

Ma questo papa, che sta mettendo a disagio tanti pii credenti, non sta dicendo nulla di nuovo. Già san Paolo (Gal 6, 1)affrontando un caso che nelle comunità accadeva di frequente anche in allora (un membro della comunità era stato colto in flagranza di peccato suscitando ovvio scandalo e provocando negli altri il problema di come comportarsi nei suoi confronti), si era dimostrato sorprendentemente tollerante, e non aveva affatto consigliato di sbattere fuori il peccatore e chiudergli definitivamente la porta dietro senza lasciarlo più entrare: “Correggete quel tale con spirito di dolcezza”. In realtà ci è stato spiegato [8], e mi sembra in maniera corretta, che ad essere qui messo alla prova non è colui che ha dato scandalo, ma proprio colui che non ha dato scandalo: se quest’ultimo si comportasse in maniera non spirituale verso colui che è caduto, indignandosi e condannandolo come usano fare gli zelanti custodi dell’ortodossia, anch’egli cadrebbe nell’errore. Non è infatti secondo lo Spirito giudicare il fratello, ma occorre cercare di essergli vicino nella sua difficoltà. Non è ovvio pensare che, quando uno è in difficoltà ha bisogno di incoraggiamento e conforto piuttosto che di gelido dogmatismo?

Cristo ha detto: “Non giudicate!” (Mt 7, 1) e ha detto, invece: “Amate!” (Gv 13, 34). Chi decide di chiudere o aprire la porta con le chiavi, proibendo ad uno di entrare o vietando ad uno di uscire, ha chiaramente già giudicato l’altro.

Che Gesù non sia venuto a rinchiudere nessuno in un nuovo recinto, consegnando le chiavi a Pietro e ai suoi successori, ce lo conferma lui stesso (Gv 10, 9), quando dice che lui è la porta e che ogni pecora è libera di entrare, ma soprattutto di uscire. Gesù non ha messo nessun guardiano davanti alla porta con funzioni di controllore. Invece la Chiesa è convinta, avendo le chiavi, di essere il cerbero doganiere addetto a questa porta, e che solo all’interno della fede insegnata dal suo magistero [9], quindi solo all’interno della sua casa o del suo recinto dove essa è padrona assoluta (avendo avuto carta bianca da Dio), si può pensare di vivere seguendo Gesù; chi esce è perduto; chi è un peccatore non entra. Ma a differenza dell’istituzione religiosa che si sente sicura solo chiudendo la porta del recinto in cui ha fatto entrare le persone dopo aver controllato che soddisfino un determinato standard da lei fissato, Gesù lascia la porta sempre aperta e non la chiude mai dietro di sé: ecco perché Gesù toglie la sicurezza (quando alla sera mi son chiuso dentro in casa mi sento più sicuro), ma porta la libertà. Parlare infatti di libertà per persone chiuse all’interno di una casa o di un recinto, senza possibilità di spaziare, appare piuttosto contraddittorio.

L’identico concetto di pecore che possono entrare e uscire dal recinto lo si ritrova ulteriormente al capitolo 10, 3 di Giovanni, quando Gesù si proclama l’unico vero pastore e fa uscire le pecore dal recinto dell’istituzione religiosa. Ora, siccome nessuna parola nei vangeli è stata messa lì a casaccio, ma ogni parola ha sempre un preciso significato, valevole allora e valevole ancora oggi, queste espressioni indicano che i veri animali sacrificali della religione sono in realtà le persone: sono loro che vengono sacrificate come pecore dall’istituzione religiosa, ben inteso in nome di Dio. Facendo uscire le pecore Gesù libera allora le persone. Se Gesù le fa uscire vuol dire che è finita l’epoca dei sacri recinti da chiudere a chiave, ed è finita pure l’epoca dei templi, è finita l’epoca dell’istituzione che pretende di comandare in nome di Dio agitando dall’alto le sue belle chiavi avute in eredità. Come si può cioè pensare che Dio abbia da un lato eliminato ogni recinto, e al tempo stesso abbia ridato a Pietro carta bianca per ricostituire un nuovo recinto sacro al cui ingresso solo lui potrà decidere chi far entrare o uscire, in base a ciò che gli sembra giusto (come ha detto papa Benedetto XVI)?

Certo, non si può negare che la consegna delle chiavi sia un simbolo di fiducia data a chi le riceve, perché con esse si può aprire e chiudere; ma poiché Gesù non dice che il detentore di quelle chiavi dovrà aprire per far entrare e chiudere per non far più entrare o per impedire di uscire, il simbolismo delle chiavi può avere anche significati diversi: perché, ad esempio, non pensare che, a colui che ha capito che Gesù è Figlio di Dio, viene data con quelle chiavi solo l’autorità di aprire le Scritture e rivelarne il vero significato [10]: un po’ come nell’Apocalisse, con l’apertura dei sigilli del libro?  Quando apro una finestra o una porta lo faccio per far entrare aria e luce. Perché Pietro non dovrebbe aver l’incarico di far entrare aria e luce nuova nella comunità, visto che i farisei e gli scribi erano stati incapaci di farlo? Usando le chiavi esclusivamente per chiudere essi non sono riusciti a dare vita a nessuno, ed hanno impedito a tutti (compresi loro stessi) di respirare aria fresca e nuova. Se il Gesù terreno non ha mai escluso nessuno in vita sua (come si è già visto negli articoli Gesù serve a unire o a dividere?, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-458---24-giugno-2018/gesu-serve-a-unire-o-a-dividere, al n. 458 e Gesù ha fondato una religione?, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-474---14-ottobre-2018/gesu-ha-fondato-una-religione), al n. 474 di questo giornale), perché non pensare che le chiavi servano solo per aprire [11], senza mai chiudere fuori nessuno?

Se le cose stanno in questi termini, si può forse pensare che la funzione del custode delle chiavi (a cominciare da Pietro) sia solo quella di testimoniare che, dando adesione a Gesù (unica porta, unico pastore, unico capo), è possibile finalmente cominciar a costruire una società umana nuova, una casa nuova, una comunità nuova dove tutti possono entrare ed essere accolti. Si può anche pensare che le chiavi che hanno aperto la porta del Regno di Dio concernono la nuova dimensione umana del Regno di Dio: quanti ne fanno parte possiedono ormai una vita di una qualità tale da superare la morte, tant’è che Gesù possiede le chiavi del regno (dimora) dei morti (Ap 1, 18), sì che chiunque si mantiene fedele al suo insegnamento non troverà mai chiusa la porta del Regno. Le chiavi consegnate a Pietro permettono semplicemente all’apostolo, che sembra aver capito chi è Gesù, di comunicare agli altri questo messaggio dell’imminente arrivo del Regno di Dio, che è veramente una Buona Novella.

Invece resta incontestabile il fatto che Gesù non lascia successori in terra perché non ne ha bisogno, in quanto, essendo resuscitato, egli è sempre con noi ed in mezzo a noi (Mt 18, 20; Mc 16, 20): lui resta l’unico pastore, l’unico capo, l’unico padrone della casa. La consegna delle chiavi di una casa padronale a un’altra persona, quando il padrone è ancora vivo e vegeto, non significa che il ricevente eredita la casa di colui che gli consegna le chiavi, diventandone nuovo padrone; può significare solo che questa persona ha un compito preciso: deve aver cura della protezione e della sicurezza di chi sta all’interno della casa; non può dire alle persone che la abitano se e quando possono entrare, se e quando possono uscire, cosa fare quando sono in casa, cosa fare quando sono fuori. Il consegnatario delle chiavi diventa il mero custode della casa, e il custode non è mai il padrone, per cui il custode non è la persona che detta le regole della casa, non essendo quella casa sua.

Analoga costruzione teologica viene espressa da Giovanni, alla fine del suo vangelo, seppur con termini diversi, quando Gesù invita Pietro a pascere, cioè ad aver cura dei suoi agnelli e delle sue pecore (Gv 21, 15-16): anche qui, aderendo al messaggio del Dio vivente, visto che Gesù è venuto per vivificare e non per distruggere o punire, procurar erba significa procurare vita agli agnelli e alle pecore che, Gesù, sottolinea essere ancora suoi («miei agnelli…mie pecore»). Si è detto che Gesù accetta le persone per quello che gli possono dare, e quindi accetta di associare anche Pietro al suo lavoro anche se l’apostolo potrebbe dare di più, ma sempre ricordandogli che gli agnelli sono i suoi: “datti almeno da fare per dare alimento ai più deboli della comunità”. Dunque, consegnando le chiavi, Gesù non sta dando a Pietro il potere di comandare sulle pecore (cioè sugli altri uomini) promuovendolo a nuovo padrone della casa o del gregge, per di più con la promessa di ratificare ogni sua decisione mentre lui è in altre faccende affaccendato, ma lo incarica di essere responsabile della sicurezza degli abitanti della casa o delle pecore, dei deboli, dei microi, dei signori “nessuno”, degli agnelli deboli del gregge. Tant’è vero che, poco dopo aver consegnato le chiavi a Pietro, Gesù conferisce il potere di contattare il vero padrone di casa che si fa presente già dove “due o tre si riuniscono” nel suo nome (sempre Mt 18, 20); al che, probabilmente, di nuovo non sbagliano i protestanti a sostenere che questo conferimento sostanzialmente controbilancia la precedente affermazione e abolisce di fatto ogni posizione privilegiata di Pietro e di tutta la dirigenza della Chiesa cattolica. Ognuno sia l’angelo custode del proprio fratello. Quindi Dio non ha dato a nessuno carta bianca per escludere qualcuno, visto che il Gesù terreno non ha mai escluso nessuno. Ma questo, invece, sembra un dato spesso dimenticato, mentre è fondamentale e costitutivo del Vangelo.

Pertanto mi sembra assolutamente sbagliato equiparare Pietro come colui cui spetta il primo giudizio su chi si presenta davanti alle porte del paradiso, visto che le chiavi sono quelle del Regno di Dio [12], e sappiamo che il Regno di Dio non corrisponde al paradiso. Il paradiso era quel luogo mitico creato nel mondo persiano come un giardino di delizia, e l’idea è piaciuta tanto da entrare sia nell’ebraismo (con la Genesi), sia nel cristianesimo, sia nell’islamismo. Lo stesso Pietro, che come tutti gli ebrei aspettava il Regno di Davide [13], capirà finalmente cosa intendeva Gesù, quando parlava del Regno di Dio, solo molto tempo dopo la resurrezione: «sto rendendomi conto che Dio non fa preferenza di persone, ma accoglie …(ogni persona)… a qualunque nazione appartenga» (At 10, 34-35); e sempre in At 15 si dà atto della difficoltà dell’accoglienza di pagani nella nuova comunità. Attraverso il Regno di Dio Gesù si propone di creare una nuova società su questa terra dove, invece dei tre verbi che conducono l’uomo allo scontro (1°- possedere, cioè accumulare per sé; 2°- salire nella piramide gerarchica, cioè emergere per riuscir alla fine finalmente… 3°- a dominare gli altri), ci sia una scelta a favore: 1.del condividere, 2.dello scendere, avvicinandosi cioè a tutti; e 3.del servire [14]. Sta di fatto che nell’immaginario collettivo, la porta del Regno dei cieli è rimasta quella del paradiso (come si vede sopra nella foto del quadro di Guido da Siena), sì che in tal modo spetta a san Pietro decidere chi far entrare e chi lasciare fuori del paradiso. Il primo giudizio spetterebbe a Pietro, neanche a Gesù, e questa è un’idea così radicata che è veramente dura da morire.

Si legge nel Catechismo che è essenziale confessarsi dal sacerdote perché senza di questo i peccati non sarebbero sottoposti al giudizio della Chiesa, alla potestà delle chiavi [15], che le spetta di diritto stante la consegna a Pietro e la successione apostolica. Questo sempre in base all’idea fissa che le chiavi servono soprattutto per tener qualcuno fuori della casa del Signore. Ma all’inizio neanche la Chiesa la pensava così, tant’è che la confessione non passava sicuramente attraverso le chiavi consegnate a Pietro. Infatti, la confessione fatta al prete, delegato dal detentore delle chiavi, è stata fissata definitivamente appena col concilio di Trento (canone 6 sulla penitenza), che aveva anche previsto la scomunica per chi osava negare che la confessione in segreto al sacerdote fosse stato in uso fin dall’inizio nella Chiesa cattolica. Ovviamente oggi, per sbugiardare quel concilio del ‘500, basta leggere (visto che tutti sanno leggere) la lettera di Giacomo il quale chiarisce che in caso di malattia si chiamavano i presbiteri (gli anziani), ma poi i peccati non si confessano neanche agli anziani, ma a un altro membro della comunità (Gc 5, 16), che quindi poteva essere anche un laico.

Se poi si accetta l’idea che il detentore delle chiavi è solo il custode della casa che deve provvedere al benessere degli altri, l’idea canonica non regge e calza a proposito il paragone con l’ospite o il figlio del padrone di casa. Se essi decidono di andare a letto, di guardare la televisione o di uscire e fare qualcosa d’altro devono essere autorizzati dal custode? Evidentemente no. Il custode potrà anche sconsigliare un ospite della casa di andare in una certa zona della città, perché è pericolosa; ma non gli potrà impedire né di uscire, né di andarci, né di rientrare quando decide lui. Non dimentichiamo infine che se i successori degli apostoli sono figli di Dio (del padrone di casa), lo sono anche gli altri ospiti della casa; quindi sono tutti fratelli, e fra fratelli adulti non c’è gerarchia di autorità.

 

Dario Culot

        

[1] Cavanaugh  J.H., Evidence of our faith, ed. University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 1959, 127.

[2] Il primato di Pietro raccontato dal Papa, udienza generale del 7.6.2006 tenuta da Benedetto XVI, trascritta in “Vita Nuova” del 29.4.2011, n.4557, 31.

[3] Sand A., il Vangelo secondo Matteo, ed. Morcelliana, Brescia, 1992, 477s.

[4] Tertulliano, De Pudicitia XXI, www.documentacatholicaomnia.eu.

[5] Malnati E., “Simone detto Pietro “nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress  FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 56. Ravasi G., Tu sei Pietro, “Famiglia Cristiana”, 34/2011, 125.

[6] Mateos J. e Camacho F., Il vangelo di Matteo, ed. Cittadella, Assisi, 1995, 232.

[7] Omelia di Papa Francesco in Santa Marta, il 25.5.13, riportato parzialmente in  “La Repubblica”, 26.5.13, 21. E a riprova di quanto papa Francesco sia nel giusto va ricordato come, stando alla stessa Bibbia, Dio non usa un criterio meritocratico per legarsi alle famiglie. Dio abita le famiglie imperfette: basta leggere la storia di Adamo, Eva, Caino e Abele; di Abramo e Sara, dei loro figli Giacobbe ed Esaù fino a Giuseppe e i suoi fratelli (Gn): tutto un susseguirsi di inganni, litigi, conflitti. Dunque la Bibbia dimostra come Dio non pretenda affatto che l’uomo raggiunga uno standard minimo di qualità prima di accettare di avere rapporti con  lui; invece asserire – come fa la religione - che Dio rifiuterebbe di accompagnarsi a chi non ha raggiunto un certo livello di comportamento, sembra far di questo Dio il primo fondatore del divorzio (Maggi L., L’amore ai tempi del patriarcato, relazione tenuta al Centro culturale “Schweitzer” di Trieste il 16.5.2014).

[8] Marchetti R., Corso sulla lettera ai Galati, presso Centro Schweitzer di Trieste, 2013.

[9] Benedetto XVI, L’elogio della coscienza, ed. Cantagalli, Siena, 2009, 98.

[10] Così Ippolito di Roma (170-235 d.C.), Commentarium in Danielem, 4.34.1.1.

[11] È interessante notare come, secondo alcuni, in ebraico il termine chiave rimandi solo al verbo aprire, e non anche al verbo chiudere (Di Sante C., Tavola rotonda sulle religioni in dialogo, in AA.VV., E se Dio rifiuta la religione?, ed. Cittadella, Assisi, 2005, 107).

[12] Letteralmente dei cieli in Mt 16, 19; ma come sappiamo Matteo, che scrive soprattutto per gli ebrei, usa la parola “cielo” al posto dell’impronunciabile e inscrivibile parola Dio non volendo toccare la suscettibilità degli ebrei.

[13] Ratzinger J., Introduzione al Cristianesimo, ed. Queriniana, Brescia, 2000, 344.

[14] Maggi A., Versetti pericolosi, ed. Fazi, Roma, 2011, 69.

[15] Miralles A., I sacramenti di guarigione. Il sacramento della penitenza e della riconciliazione, in Catechismo della Chiesa Cattolica, ed. Piemme, Casale Monferrato (AL), 1993, 895.