Se chi dice di amarti non ti dice mai “ti amo”: amoris diaconia

Filippo diacono, icona 

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Esiste una concezione professionalizzante del ministero ordinato cristiano – non solo cattolico - che viene ritenuta legittima e che, tuttavia, si rivela alla fine di natura piuttosto impiegatizia o funzionariale (qualcuno, qualcuna, ricorderà Funzionari di Dio di Eugen Drewermann). In tale concezione la natura delle “prestazioni ministeriali” rese dall’ecclesiastico, o dall’ecclesiastica, sono riconducibili ad una specie di “sacro negozio”, una dimensione, o forse anche uno spazio, dove si chiede e si riceve qualcosa al cospetto di Dio. Ed in effetti, allora, tale configurazione del ruolo del “sacerdote”, inteso in senso lato, non è più nemmeno solo prerogativa della religione cristiana (“religione”, non “fede”) ma diventa caratteristica costante di ogni apparato, di ogni strutturazione ed istituzione di natura religiosa.

Chi si rivolgeva a Gesù di Nazaret, tuttavia, non entrava in un’ottica, diciamo, di mercato. Non si ritrovava in una dinamica contrattuale. Anche le esperienze di guarigione che avvenivano in presenza del rabbi di Nazaret, e che lo accreditavano come terapeuta, non avevano contropartite prestazionali di alcun tipo, né seguivano a negoziazione alcuna. Quell’uomo immensamente buono faceva cose straordinarie per coloro che non erano considerati e considerate da nessuno o che erano considerati pessimi e pessime da tutti, si trattasse di disgrazia fisica o morale.

Quel tale Gesù pronunciava parole che nessuno aveva mai sentito pronunciate verso di sé. Possiamo dire che sussurrasse un “ti amo” mai udito? Sì. Effettivamente è così. E la differenza evangelica, radicale sotto questo riguardo, è l’annuncio di un Dio così, che si perde in un bacio, in un sussurro amoroso.

La retorica però è in agguato: tutti, tutte sappiamo cosa l’amore sia, lo desideriamo, lo inseguiamo, ne abbiamo memoria, lo viviamo, lo celebriamo, lo – senza turbamento o inammissibile violazione di pudore – facciamo. Eppure.

Ci si può innamorare di personalità molto diverse. Anche di un cinico, per dire. O di un – ricorrendo a opportuni eufemismi – gran risparmiatore d’amore. Che, ad esempio, stenta molto a pronunciare un “ti amo”, ma è adorato dalla sua innamorata o dal suo innamorato.

L’amore non detto a parole non basta, si droga di silenzio. Il gesto dell’uomo di Nazaret si accompagna sempre ad una parola.

E se il ministero nella comunità cristiana ha il compito di rappresentare, di simbolizzare e rendere viva, la memoria di quell’uomo, la sua professionalizzazione non è del tutto opportuna qualora il prezzo debba essere la perdita delle parole d’amore.

“Prendete, mangiate, bevete”, sono parole quasi scandalose. È infatti un “prendete, mangiate di me”, “di me” così come sono, con toni di intensità erotica da far arrossire qualche migliaia di affollate cattedrali.

Ciò che a volta abbiamo provato a definire “onnigamia” – “prendete, mangiatemi tutto”, o “tutta” – ha l’aspetto esattamente contrario alla teorizzazione di un Tutto che pervada ogni ambito dell’esperienza umana e che richieda assoluta dedizione.

L’onnigamia è coniugio di quel poco che è il mio tutto e che è il tuo tutto. Quel “poco di verità” di cui ha parlato anche ieri sera a Trieste Pier Aldo Rovatti.

Dal tutto al molto al poco. Non come discesa in un residuo di cui accontentarsi, ma come innamoramento – questa volta sì – di quel frammento in cui tutto accade.

Eppure la totalità di condivisione di questa onnigamia cozza anche piuttosto violentemente contro la ritrosia a non dire l’amore oppure, in modo speculare, a non coltivare nessuna critica interna alle proprie dinamiche amorose, ritrovandomi, io che amo, soggiogato da chi dice di amarmi ma non mi dice mai “ti amo”.

Il ministero ordinato ha il compito istituzionale di dire “ti amo”. Se l’affermazione sembra esagerata, subentrando una sensazione di scandalo o anche di più, si potrebbe riflettere sull’importanza davvero fondamentale, tuttavia, che quelle parole siano almeno una volta sentite, avvertite, udite, ascoltate come rivolte a sé senza finzione. Ed il fatto che un ministro nella comunità ordinata possa essere chiamato a pronunciarle ci sembra sconveniente solo perché appunto non riusciamo ad uscire da una logica comunque strettamente professionale – vogliamo dire clericale? - del ministero.

Il “ti amo” non detto è una totalità non concessa. E questa mancata concessione è il contrario della sinassi eucaristica. Una totalità senza dubbio povera, piccola, fragile, ma senza la quale non si riesce a vivere.

E coloro che non hanno mai incontrato nessuno che abbia pronunciato per loro quelle due parole? Che devono fare, sperare, dove devono andare? A chi devono guardare?

In effetti c’è un prossimo primo che proprio l’uomo di Nazaret invita ad assumere come termine di paragone della verità dell’amore: se stessi.

Spesso l’attesa spasmodica che chi dice di amarci dica quel “ti amo”, che invece non arriva, si trasfonde in una sensazione di solitudine che aliena da sé, che impedisce, blocca del tutto (“del tutto”, già) il mio stesso essere al mondo. Invece l’amore per il proprio sé è l’unica strada perché quel “ti amo” venga udito ma soprattutto perché ad un certo punto venga effettivamente pronunciato.

Il ministero ordinato deve essere al servizio di questa liberazione, cioè della riconciliazione profonda con se stessi. Una diaconia radicale di amore altrettanto radicale.

La diaconia come categoria non più ontologica, metafisica, capace di creare distanza più che prossimità, bensì come dimensione relazionale, quasi reticolare, pluriforme, puntiforme, che fa sentire la verità di un gesto tutt’uno con la parola, l’autenticità di un abbraccio che sa farsi anche bacio, senza cinismi da preservare o ego ipertrofici da venerare.

La gamia non è amore sessuale e basta e non è amore non sessuale e basta. La gamia è una matrimonializzazione della vita che sa vedere il tutto nel poco – nel mio e nel tuo poco -, il mio volto nel tuo ed il tuo nel mio ed il mio nel mio.

Forse l’amore ha parole mai dette finalmente da dire. Parole da servire. Non da servire nell’ombra, con mille strategie di contenimento e cautela per evitare chissà quali confronti o scoperte che mettano a nudo, ma da servire nella luce dolce di un’alba o di un tramonto, quando le parole possono essere pronunciate senza strepiti. E possono anche essere pregate.

Buona domenica.

Stefano Sodaro