Gnosticismo e pelagianesimo secondo papa Francesco: visione classica e lettura “capovolta” - Andrea Grillo

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Gnosticismo e pelagianesimo secondo papa Francesco: visione classica e lettura “capovolta”

di Andrea Grillo

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“Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo”

Francesco, Firenze, 2015

P. Gh. Lafont ha detto che lo stile di Francesco è, musicalmente, un Allegro ma non troppo. Io sono d’accordo con lui, ma vorrei ricordare in questo breve scritto che ci sono, in Francesco, degli splendidi Allegro con brio, degli Andanti con moto, e anche qualche Adagio maestoso. La buona musica, come la buona teologia, ha bisogno, costitutivamente, di staccare tempi diversi. Pochissimi sono, in Francesco, i rubati e gli staccati.

Qui vorrei affrontare la ripresa di due “concetti-chiave” del magistero di Francesco, che compaiono frequentemente come “orizzonti” e come “punti critici” nel discorso papale. Come è facile comprendere, essendo “termini classici” del linguaggio cristiano da almeno “1500 anni” - sia pur presentandosi oggi talora con il prefisso “neo-” che li attualizza - permettono pur sempre diverse “operazioni”. Bisogna capire, tuttavia, che con questi termini Francesco, pur parlando il linguaggio classico, vuole fare una operazione “capovolta” o, meglio, propone autorevolmente una operazione di “capovolgimento” dello sguardo. Egli inverte i termini delle questioni per poterle affrontare correttamente. Voglio dirlo subito: in questo modo Francesco “traduce la tradizione” mediante l’utilizzo di queste nozioni classiche, riempiendole di nuovi contenuti e di nuove priorità, che devono essere colte con lucidità, per non fraintendere tutto il discorso.

Allora per parlarne vorrei procedere in 3 punti. Inizialmente – su una “soglia metodica” - vorrei precisare meglio questa prospettiva di utilizzo (e di comprensione) dei termini classici. Questo è un procedimento tipico di Francesco (§. 1). Poi passerei – in una “lettura dei testi” - ad identificare più accuratamente il discorso esplicito e articolato di Francesco in 3 suoi testi chiave (EG, Firenze 2015, GE), riletti poi in un 4, non suo, ma della Congregazione per la Dottrina della fede, che, come vedremo ne offre una lettura “sterilizzata”) (§.2); infine vorrei proporne una applicazione non solo “generale”, ma “speciale”, ossia su quattro punti specifici della tradizione dottrinale moderna (su traduzione, liturgia, donna e diritto canonico matrimoniale, §.3), dove è chiaro come la oscillazione della interpretazione dei termini permetta operazioni di “coerenza” o di “incoerenza” rispetto alla impostazione generale.

1. Soglia metodica : una “lettura capovolta” per un “ministero di traduzione della tradizione”

Quando dico “ermeneutica capovolta”, mi lascio ispirare da un passo che definirei “originario” nel magistero di Francesco, che attesta proprio questo atteggiamento di “inversione” dello sguardo. Dobbiamo guardare le cose anche da un altro punto di vista. Alludo qui alla famosa “citazione capovolta” di Apocalisse “Sto alla porta e busso” (Ap 3, 20, citata da Jorge Mario Bergoglio il 9 marzo 2013, durante la Congregazione dei Cardinali).

“Quando la Chiesa non esce da se stessa per evangelizzare diviene au­toreferenziale e allora si ammala (si pensi alla donna curva su se stessa del Vangelo). I mali che, nel trascorrere del tempo, affliggono le istitu­zioni ecclesiastiche hanno una radice nell’autoreferenzialità, in una sor­ta di narcisismo teologico. Nell’Apocalisse, Gesù dice che Lui sta sulla soglia e chiama. Evidentemente il testo si riferisce al fatto che Lui sta fuori dalla porta e bussa per en­trare… Però a volte penso che Gesù bussi da dentro, perché lo lasciamo uscire. La Chiesa autoreferenziale pretende di tenere Gesù Cristo dentro di sé e non lo lascia uscire.”

Francesco, riprendendo il testo classico di Apocalisse, intende al rovescio il bussare del Signore non dall’esterno all’interno, ma dall’interno all’esterno. Gesù bussa per uscire, non per entrare. L’effetto retorico e teatrale della inversione ha un effetto benefico: permette di riposizionare il rapporto tra Cristo, la Chiesa e il mondo.  Anche le due nozioni di neo-gnosticismo (=NG) e di neo pelagianesimo (=NP), di cui mi occupo qui, devono essere intese in questo modo: non sono “nemici della santità” da cui la Chiesa deve guardarsi come da un “nemico esterno”, ma sono interruzioni interne alla Chiesa del rapporto con la “luce” che viene da Cristo e dalla esperienza del mondo (GS 44, 46). Se considerati secondo questa prospettiva fondamentale, il riferimento a NG e NP appare come un richiamo alla conversione ecclesiale, rispetto a stili di pensiero e di azione, di verità e di santità, che costituiscono più un ostacolo che una reale opportunità.

2. “Lettura dei testi”: il recupero della “intenzione” nel riferimento dei documenti ai due termini

In ordine cronologico, Gaudete ed Exultate (GE) è solo l’ultimo documento che si riferisce ai due “vizi” della tradizione, che vengono denominati “neognosticismo” e “neopelagianesimo”: tutto inizia con Evangelii Gaudium, prosegue con Firenze 2015 e viene riletto da Placuit Deo (PD). Solo alla fine perviene alla formulazione di GE. Se inseguiamo questa sequenza possiamo osservare diversi fenomeni assai interessanti: lo facciamo senza perdere altro tempo.

2.1. NG e NP in EG: la conversione pastorale e la mondanità spirituale

Il riferimento iniziale ai due termini su cui riflettiamo si trova nel secondo capitolo di EG (Nella crisi dell’impegno comunitario) al II paragrafo, intitolato Tentazioni degli operatori pastorali, e nel 5 sottoparagrafo, intitolato No alla mondanità spirituale, che copre i numeri 93-97. Il contesto, dunque è precisamente “interno”, riguarda addirittura le tentazioni degli “operatori pastorali”. Nel n. 94 si enunciano per la prima volta le due tentazioni:

Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa uni­camente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene pos­sano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti.

L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamen­to unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autorita­rio, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controlla­re.

In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico.

Come è evidente, queste tentazioni, o vizi, non riguardano anzitutto un “contenuto di fede”, che la Chiesa si preoccupa di definire, quanto piuttosto una “forma ecclesiale”, che la Chiesa vive in sé: l’immanentismo, insito in entrambi questi errori, è “forma di vita” prima che contenuto dottrinale. E’ una “indifferenza a Dio e al prossimo” che diventa “sistema autoreferenziale”, capace di minacciare e di minare la verità della Chiesa.

E’ interessante notare che un riferimento ulteriore allo “gnosticismo” emerge anche al n. 233, dove viene enunciato il famoso principio “la realtà è superiore all’idea”, per il quale appare con evidenza come “intimismi e gnosticismi” siano la degenerazione della identità cristiana, che non può mai dare frutto.

2.2. NG e NP a Firenze 2015: la sfida alla Chiesa

Anche nel discorso tenuto due anni dopo, a Firenze, in occasione del V Convegno Nazionale della Chiesa Italiana, dal titolo Il nuovo umanesimo in Cristo Gesù, Francesco è tornato sul tema e lo ha fatto, ancora una volta nell’ottica di una “autocritica interna alla Chiesa”: non si tratta di identificare anzitutto dei “nemici esterni”, quando di riconoscere che “noi siamo i nostri peggiori nemici”. Infatti, all’inizio del passo, pronunciato da Francesco sotto la cupola mirabile si Santa Maria del Fiore, sta quella “rassicurazione” con cui il papa dice alla Assemblea: state tranquilli, vi parlo solo di 2 tentazioni, non delle 15 di cui ho parlato alla Curia romana!

Ed ecco i due passi, in cui pelagianesimo e gnosticismo (qui in ordine inverso) vengono descritti e definiti. Si tratta di due testi di grande intensità anche espressiva, che iniziano con la “negazione” di ciò che il papa aveva appena finito di dire in positivo (evidenzio i passi più forti):

La prima di esse (tentazioni) è quella pelagiana. Essa spinge la Chiesa a non essere umile, disinteressata e beata. E lo fa con l’apparenza di un bene. Il pelagianesimo ci porta ad avere fiducia nelle strutture, nelle organizzazioni, nelle pianificazioni perfette perché astratte. Spesso ci porta pure ad assumere uno stile di controllo, di durezza, di normatività. La norma dà al pelagiano la sicurezza di sentirsi superiore, di avere un orientamento preciso. In questo trova la sua forza, non nella leggerezza del soffio dello Spirito. Davanti ai mali o ai problemi della Chiesa è inutile cercare soluzioni in conservatorismi e fondamentalismi, nella restaurazione di condotte e forme superate che neppure culturalmente hanno capacità di essere significative. La dottrina cristiana non è un sistema chiuso incapace di generare domande, dubbi, interrogativi, ma è viva, sa inquietare, sa animare. Ha volto non rigido, ha corpo che si muove e si sviluppa, ha carne tenera: la dottrina cristiana si chiama Gesù Cristo.

La riforma della Chiesa poi – e la Chiesa è semper reformanda – è aliena dal pelagianesimo. Essa non si esaurisce nell’ennesimo piano per cambiare le strutture. Significa invece innestarsi e radicarsi in Cristo lasciandosi condurre dallo Spirito. Allora tutto sarà possibile con genio e creatività. La Chiesa italiana si lasci portare dal suo soffio potente e per questo, a volte, inquietante. Assuma sempre lo spirito dei suoi grandi esploratori, che sulle navi sono stati appassionati della navigazione in mare aperto e non spaventati dalle frontiere e delle tempeste. Sia una Chiesa libera e aperta alle sfide del presente, mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. Mai in difensiva per timore di perdere qualcosa. E, incontrando la gente lungo le sue strade, assuma il proposito di san Paolo: «Mi sono fatto debole per i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto per tutti, per salvare a ogni costo qualcuno» (1 Cor 9,22).

Un grande testo, che ridefinisce con ancora maggior forza, rispetto ad EG, che la tentazione pelagiana si nasconde anzitutto nel “controllo strutturale e centrale” di contenuti astratti, contro una dottrina che “ha carne tenera”.

Analogamente ciò vale anche per il discorso sulla tentazione “neognostica”, che contiene anche parte del testo già citato in EG:

Una seconda tentazione da sconfiggere è quella dello gnosticismo. Essa porta a confidare nel ragionamento logico e chiaro, il quale però perde la tenerezza della carne del fratello. Il fascino dello gnosticismo è quello di «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti» (Evangelii gaudium, 94). Lo gnosticismo non può trascendere.

La differenza fra la trascendenza cristiana e qualunque forma di spiritualismo gnostico sta nel mistero dell’incarnazione. Non mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.

Il mistero della incarnazione vi appare come “differenza”, ma di esso si offre la versione corporea della dottrina, la sua “forma di vita”, il suo “stile operativo e attivo”. Il riferimento a Gesù Cristo è riferimento alla “carne” come principio di relazione e di “non-indifferenza”. Il superamento della “autoreferenzialità” non sta anzitutto in un contenuto, ma in una forma, che è forma di vita, forma di culto e forma di ascolto.

2.3. NG e NP in GE: un orizzonte nuovo

In GE al tema viene dedicato un intero capitolo, il II, con il titolo Due sottili nemici della santità (GE 35-62) dove di descrivono, con riferimento ad essi, due “falsificazioni della santità”: “In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica” (35). Fondamentale è qui riconoscere che anche in questo caso si parla di “gnosticismo” e di “pelagianesimo” come “apparenze di verità e di ortodossia”. Francesco è preoccupato di smascherare la piega autoreferenziale della dottrina e della disciplina ecclesiale. Così parla di “una mente senza Dio e senza carne”, “una dottrina senza mistero”, e una dottrina che pretende di essere “perfetta” e “chiusa”. Assumere le “domande del popolo” è parte costitutiva della tradizione autentica, che l’approccio gnostico non riesce a valorizzare.

Analogamente si deve parlare anche della tentazione del “pelagianesimo”, dove al centro non vi è una “sproporzione dell’intelletto”, ma un peso eccessivo attribuito alla volontà, ad una “volontà senza umiltà”. Ci sono dei “nuovi pelagiani” che vengono descritti così:

Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale (GE 57)

Oppure, al numero successivo, si presenta un “caso tipico” di neo-pelagianesimo:

Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità, ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati... o corrotti. (GE 58)

È evidente come questo “vizio” si identifichi, sostanzialmente, in un eccesso peso attribuito alla “correttezza formale e normativa”. Dice infatti il testo, al n. 61:

Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte (GE 61)

Come appare chiaro, la sfida è quella di superare lo gnosticismo e il pelagianesimo, come a dire la autoreferenzialità intellettuale e morale, dal corpo della Chiesa, che è tentata di rifugiarsi verso queste vie di fuga, svuotando di senso la propria missione.

2.4. NG e NP in PD: Ma il titolo vero è “Placuit Deo” o “Placuisset Romanae Curiae”?

L’ultimo testo che vorrei considerare è quello con cui la Congregazione per la Dottrina della fede è intervenuta, all’inizio del 2018, un mese prima di GE, sul medesimo tema, ma con altri accenti e altre preoccupazioni. In effetti, a leggere il testo della Lettera, ci si accorge subito che le due “parole” sono declinate non in rapporto alla Chiesa, ma in rapporto al mondo. Come se la Chiesa fosse, immediatamente, libera dalle tentazioni, e suo compito fosse semplicemente di additare al “mondo” le tentazioni a cui è sottoposto. Non vi è alcun bisogno di “uscita”, di “conversione”, di “elaborazione culturale”: la Chiesa non deve “imparare”. Può solo insegnare un “contenuto”, e mettere in guardia dalle difformità rispetto al contenuto. Trovo davvero interessante che il documento della curia trasformi tutta la preoccupazione dei testi papali per la “forma ecclesiae” in un semplce problema di contenuto. Si può leggere in modo trasparente questa preoccupazione nel n.4 del documento

Sia l’individualismo neo-pelagiano che il disprezzo neo-gnostico del corpo sfigurano la confessione di fede in Cristo, Salvatore unico e universale. Come potrebbe Cristo mediare l’Alleanza dell’intera famiglia umana, se l’uomo fosse un individuo isolato, il quale si autorealizza con le sole sue forze, come propone il neopelagianesimo?

E come potrebbe arrivarci la salvezza mediante l’Incarnazione di Gesù, la sua vita, morte e risurrezione nel suo vero corpo, se quel che conta fosse solo liberare l’interiorità dell’uomo dai limiti del corpo e dalla materia, secondo la visione neo-gnostica? Davanti a queste tendenze la presente Lettera vuole ribadire che la salvezza consiste nella nostra unione con Cristo, il quale, con la sua Incarnazione, vita, morte e risurrezione, ha generato un nuovo ordine di relazioni con il Padre e tra gli uomini, e ci ha introdotto in quest’ordine grazie al dono del suo Spirito, affinché possiamo unirci al Padre come figli nel Figlio, e diventare un solo corpo nel «primogenito tra molti fratelli» (Rom 8,29).

Tutto il regime argomentativo di questo documento si muove in direzione assai diversa rispetto ai testi di Francesco, di cui intende porsi al servizio. Il testo identifica due “errori”, due “vizi” e li attribuisce a “correnti” che stanno “di fronte” alla Chiesa, non al suo interno. In gioco non vi è una questione pastorale e una urgente apertura alla trascendenza del linguaggio e della prassi ecclesiale, ma piuttosto una comprensione dottrinale corretta e, di conseguenza, una disciplina valida, garantita dal “contenuto” cristologico ed ecclesiologico. Il documento, in un certo senso, contenutisticamente è certamente e intezionalmente anti-gnostico e anti-pelagiano, ma utilizza schemi formali astratti e generali, in un certo senso lavora con uno stile e con una forma cripto-gnostica e cripto-pelagiana. Alla luce dei documenti sopra considerati, ciò appare tanto più evidente, al punto che verrebbe spontaneo chiedersi: siamo sicuri che il titolo fedele al documento sia “Placuit Deo”? Non sarebbe stato meglio chiamarlo, con maggiore parrhesia, “Placuisset Romanae Curiae”?

3. “Conseguenze inattese”: la resistenza della “immunizzazione dalla tradizione” (detta anche autoreferenzialità)

Diverse sono le forme della “immunizzazione dalla prossimità”, che abbiamo visto assumere il nome di “neo-pelagianesimo” e di “neo-gnosticismo”. Una calibrata astrazione o una programmata azione assumono la autorità di dispensare dall’altro e dal reale. La più usata e abusata negli ultimi decenni è stata una strategia che ha ottenuto, simbolicamente, il massimo dei vantaggi con il minimo degli sforzi: è stato sufficiente affermare che “la Chiesa non aveva l’autorità”, per conservare tutta la autorità come per incanto! I processi dinamici diventano impossibili – e non assumono realetà - se la Chiesa non ha alcun potere sul ministero, nessun potere sulla liturgia, nessun potere sulla donna, nessun potere sulla lingua: lo stereotipo della “rinuncia alla autorità” permette alla Chiesa una buona via di fuga: può apparire addirittura umile e disinteressata, proprio nello stesso momento in cui conserva intatte le sue competenze e i suoi poteri.

Gli esempi che vorrei fare qui sono palesi, quasi sfacciati. Ho pensato di dare loro titoli di un certo effetto, per dare modo di considerare del tutto i rischi che si corrono nel non arginare questa logica immunizzante e indifferente: i titoli sono la traduzione incomprensibile, la liturgia mummificata, la donna dis-ordinata, il nichilismo canonico. Una breve riflessione dedicata ad ognuna di queste gravi forme di immunizzazione dai processi dinamici di discernimento della tradizione dovrebbe farci riflettere sulla urgenza di attivare, su ognuno di questi punti, una accelerazione dinamica, come di fatto sta accadendo, non senza resistenze, negli ultimi 6 anni. Si tratta precisamente quelle forme di “immunizzazione”, a cui provvedono diligentemente quelle “tentazioni” che chiamiamo intellettualismo gnostico e volontarismo pelagiano.

3.1. La traduzione incomprensibile

Abbiamo ascoltato, da 20 anni, parole irresponsabili, grette, infondate, sul senso del tradurre e sulla sua pratica ecclesiale e liturgica. Si è preteso, addirittura , che le lingue moderne, le lingue vernacole, le lingue parlate, le “lingue madri”, per essere degne della liturgia “romana” dovessero imitare persino le figure retoriche del latino! Questo non è un ragionamento di filologia. Questo è un delirio di nostalgia. Questo è, allo stesso tempo, pelagianesimo volontaristico e gnosticismo intellettualistico. Questo vizio era diventato, fino all’altro ieri, parola ufficiale, tronfia di una autorità ridotta all’autoritarismo che pretende vanamente la imposizione dell’assurdo. Una simile distorsione, di fronte alla realtà complessa delle lingue, può far danni per qualche lustro, come è stato in effetti. Anche oggi abbiamo Conferenze Episcopali che presentano, all’esame della Curia romana, traduzioni basate su questi deliri irragionevoli. E che faranno danni gravi ancora per decenni. Fin dall’inizio di questa triste storia, iniziata nel 2001, vi era chi provava a tradurre “secondo ragione”, ma si vedeva puntualmente bocciate le traduzioni da Roma. Vi era invece chi traduceva “secondo le nuove regole”, producendo testi che erano sì fedeli alle volontà di Roma, ma non alla lingua dei popoli cui erano destinate. Oggi, su questo piano, non senza resistenze ai più alti livelli, abbiamo di nuovo - grazie al motu proprio Magnum Principium - la possibilità di riaprire “processi dinamici”, restituire la parola ai soggetti parlanti, confidando su un semplice fatto: il latino, pur con tutta la sua giusta esperienza ecclesiale vecchia di 17 secoli, è una lingua di Babele, come tutte le altre; in Italia sono 700 anni che Dante ha sentenziato: la espressione poetica non passa più per quella lingua. D’altra parte, le lingue parlate, non solo perdono qualcosa di ciò che il latino può dire, ma sanno anche dire cose che il latino non sa esprimere. Ci dobbiamo rassegnare alla libertà con cui lo Spirito può dare il meglio di sé non solo ai nostri nonni, ma addirittura ai nostri pronipoti, nelle lingue che allora potranno e sapranno parlare.

3.2. La liturgia mummificata

Con una mossa a sorpresa, tratta fuori dal cappello a cilindro di 12 anni fa, ci è stato detto che quella forma rituale, che la Riforma liturgica conciliare aveva ufficialmente dichiarato limitata e bisognosa di revisione, e che quindi aveva dovuto essere superata, emendata e cambiata, in realtà restava intatta, intoccabile e inossidabile, come prima e più di prima, affiancandosi accanto alla nuova forma rituale. Mummificare il Vetus Ordo e farlo rinascere vivo – quasi come la creatura del Barone Frankenstein -  tutto d’un tratto, accanto al suo figlio, per assicurare un eterno paternalismo ad oltranza sul Novus Ordo, non è affatto un gesto di stile “tipicamente cattolico”, bensì una grave forma di umiliazione per la tradizione cattolica vera, quella che non ha paura della storia, dei processi irreversibili, e che sa riconoscere il nuovo e l’inatteso. E’ il frutto di un intellettualismo gnostico e di un volontarismo pelagiano talmente forte da passare quasi inosservato. Fare la riforma e insieme fare come se nulla fosse non è cattolico, ma meschino. E come è meschino pretendere di giudicare un soggetto solo sulla base della legge oggettiva, altrettanto lo è dire di difendere la Riforma Liturgica con una mano e liberalizzare con l’altra nello stesso tempo proprio quel rito che era stato oggetto di riforma. Basti dire che in tal modo si è inaugurato un “sistema liturgico” in cui contemporaneamente sono vigenti due calendari liturgici tra loro contraddittori. E vai a capire tu se Cristo Re si celebra a fine ottobre o a fine novembre!

3.3 La donna dis-ordinata

In terzo luogo, la esclusione della donna da ogni grado del ministero ordinato sembra un vero gioiello di immunizzazione, forse uno dei suoi capolavori. Nel ripetere gli argomenti che provengono dalla società chiusa, siamo tutti campioni di fedeltà. Vinciamo il campionato dei luoghi comuni e ci sembra di aver fatto tacere ogni obiezione? La teologia, se vuole essere seria, e non ridursi ad una patina ideologica a copertura dei vecchi pregiudizi sessisti, deve, se ne è capace, non rifugiarsi nel passato, ma proporre argomenti per l’oggi. Dire che nel passato la donna non è mai stata ordinata – cosa che peraltro non è vera – non risponde alla domanda che oggi nasce dalla Chiesa e dal mondo, dalla teologia e dalla cultura. Il punto dolente, di questa richiesta di “processualità”, sta nell’accettare l’inversione dell’onere della prova. Non è chi propone la ordinazione al femminile, almeno sul piano del diaconato, a dover offrire motivazioni degne. Già questa richiesta è fuori dal tempo e capovolge le cose. E’ chi nega questa possibilità a dover fornire argomenti con un minimo di plausibilità. E non finti argomenti, tirati fuori dagli armadi medioevali, pieni di ragnatele e di muffa! O dagli scaffali antimodernisti, sempre pronti a fornire ragioni per restare fermi al passato. Se qualcuno argomenta oggi, sulla base della “incapacità di esercitare il potere da parte della donna”, non fa un servizio alla Chiesa, ma dimostra di essere sfasato all’indietro rispetto al mondo ambiente di almeno 200 anni. E ci sono teologi che continuano ad accreditare queste parole vecchie e senza forza come “argomenti insuperabili”, squalificando la ragione teologica e la dignità del suo sapere. Qui la tentazione gnostica e pelagiana è salita negli anni a livelli di guardia e si confonde con l’eroismo della resistenza al mondo cinico e baro.

3.4. Il nichilsmo canonico

Un ultimo aspetto che merita di essere illustrato, come luogo di un necessario sviluppo processuale, è la “fragilità matrimoniale”: qui mi pare che si debba affermare che i “processi dinamici ecclesiali” di recupero della “realtà coniugale” possono realizzarsi solo attraverso un ridimensionamento drastico e deciso del ruolo del “procedimento giudiziario”. Qui si sono accampate legioni intere di gnosticismo astratto e di pelagianesimo della “norma infallibile”. I canonisti non solo devono farsene una ragione, ma restano largamente inadempienti nel non progettare un sistema nuovo. Se il vincolo coniugale continua ad essere pensato mediante categorie “che non conoscono la storia”, ogni possibilità di recuperare la comunione ecclesiale potrà essere garantita soltanto dalla classica logica degli “impedimenti”, che si è trasformata in “capi di nullità” e che elabora esclusivamente un “rimedio retrotopico”, che guarda solo all’indietro. Se il vincolo può essere solo due cose – fin dall’origine o esistente o non esistente – questo assetto teorico – che i romani hanno inventato per le cose e che noi pretendiamo di applicare con disinvoltura alle persone - nega al vincolo ogni esperienza, ogni sviluppo, ogni storia. Questa forma mentis – fatti salvi i pochi casi di effettiva “invalidità originaria” – dovrà essere radicalmente superata. Essa non corrisponde più né alla esperienza dei coniugi – supposto che si sia disposti a riconoscerla rilevante – né alle esigenze ecclesiali – che non sono più quelle della ottocentesca lotta allo stato liberale usurpatore –  né alla comprensione culturale e sociale – che non è solo abisso modernista di egoismo. Resta vero ciò che P. Sequeri ha affermato, in un giusto articolo durante il Sinodo: “Non è mai come se non fosse accaduto nulla”. Questo resta, almeno per larga parte dei canonisti, l’impensato. Amoris Laetitia è qui solo “inizio di un inizio”: benedetto, necessario, ma insufficiente. Il resto è affidato alla capacità procedurale del magistero ecclesiale e canonico a venire. Purché il desiderio di controllare tutto – che abbiamo riconosciuto nel suo nucleo “neo-pelagiano”- e di risolvere astrattamente questioni concrete – in forma pericolosamente neognostica - non convinca la Chiesa che – dopo tutto - è meglio fingere false irrealtà di comodo piuttosto che esporsi alla realtà scomoda della verità. Su questo è davvero segno prezioso di “santità” resistere a queste due tentazioni. Tale resistenza prende forma nella resa fiduciosa alla “carne tenera” con cui Dio si fa quotidianamente e marginalmente prossimo e con cui il prossimo si rivela fragile e festosa figura Dei.