La resurrezione è un fatto storico?

Appurato che circa duemila anni fa è vissuto in questo mondo un uomo chiamato Gesù (cfr. l’articolo, Ma Gesù è veramente esistito? al n. 490 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-490---3-febbraio-2019/ma-gesu-e-veramente-esistito), sappiamo che la particolarità che distingue questo Gesù dal resto degli uomini, almeno stando all’insegnamento religioso, è che lui - primo e unico fra tutti gli uomini (At 26, 23),- è risorto. Credere nella resurrezione è elemento determinante per potersi dire cristiani, ma siffatta affermazione continua a rappresentare ancora oggi un’enorme difficoltà perché nessuno di noi ha fatto l’esperienza di veder risorgere una persona morta. La resurrezione è qualcosa di inedito.

Nel cristianesimo primitivo creava più scandalo la crocifissione (come si è visto nel primo articolo di questo mese, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-499---7-aprile-2019-1/numero-499---7-aprile-2019), mentre si credeva abbastanza facilmente che Dio, nella sua onnipotenza, potesse risvegliare dal sonno essendo la morte vista come un sonno (cfr. Gv 11, 11; tant’è che ancora oggi nelle chiese orientali si parla della “dormizione”, non della morte, di Maria).

Oggi, invece, il fatto che Gesù sia stato ammazzato perché secondo l’autorità religiosa di allora predicava eresie non crea alcun problema: sì è visto concretamente che nel corso dei secoli anche la Chiesa ha seguito questa strada violenta per eliminare gli eretici.

Ciò che oggi crea problema è che Gesù sia risorto, perché sappiamo dalla fisiologia che dalla morte non ci si risveglia, ed è impossibile riportare in vita un morto i cui tanti organi hanno iniziato a decomporsi.

Oggi sappiamo anche che un corpo materiale muovendosi nello spazio e nel tempo non può viaggiare a una velocità superiore a quella della luce (Einstein A., Hawking S.).

È vero che le culture sono effimere, per cui è ben possibile che un domani le nostre conoscenze scientifiche cambino di nuovo, e che cambiando torni ad essere credibile un messaggio di fede già creduto in passato ma oggi inaccettabile perché continua ad essere spiegato in modo contrario alle attuali conoscenze scientifiche. Per questo motivo il dogma dell’assunzione di Maria in cielo, per come inteso dalla maggior parte dei credenti, oggi è inaccettabile essendo cambiata la cosmologia del passato. Duemila anni fa col modello tolemaico si riteneva che la Terra fosse al centro dell’universo circondata da altre sfere che trasportavano la luna, il sole, i pianeti e le stelle, e che il paradiso fosse semplicemente al terzo cielo sopra di noi. Oggi dovremmo dire che il corpo di Maria, in viaggio da soli duemila anni alla velocità della luce, si troverebbe ancora nella nostra galassia che misura circa centomila anni luce. Quella più vicina (Andromeda) dista ben 2,5 milioni di anni luce da noi, e l’universo, per come oggi concepito, ha una dimensione di circa 13 miliardi di anni luce senza che al suo interno ci sia traccia del terzo cielo con il suo paradiso, a meno di non volerlo collocare in un buco nero, nel quale nessun scienziato sa dire cosa succede. Ma il primo buco nero che incontreremmo è comunque ben più lontano di duemila anni luce. Allora, non si può insistere nel dire - come fa il papa emerito,- che Gesù risorto è pienamente corporeo, senza però essere legato alle leggi fisiche: se siamo davanti a un corpo materiale non è credibile che possa sottrarsi alle leggi di spazio e tempo. Se un domani, come si vede nei film di fantascienza, si potrà viaggiare superando il limite della velocità della luce, se ne potrà riparlare; ma oggi come oggi neanche il papa può utilizzare la fantascienza per imporci di credere ai dogmi della Chiesa.

Già nel II secolo d.C., il pagano Celso, sanamente scettico e razionale, aveva sollevato un’obiezione logica che prescinde dalle culture che si susseguono nel tempo; aveva infatti scritto (nel suo Contro i cristiani) che la resurrezione di Gesù era una favola, perché quando l’hanno messo in croce l’hanno visto tutti; se fosse veramente risorto avrebbe dovuto essere visto da quelli che l’avevano condannato; invece è apparso solo a una donna indemoniata (Maria di Magdala) e a pochi altri della sua setta. Questa è indubbiamente un’argomentazione logica di peso. Va però osservato che gli apostoli sono stati quasi tutti martirizzati. Ora, proprio a rigor di logica, è impossibile giocare la propria vita su un inganno ideato in mala fede, che poi non avrebbe portato agli apostoli neanche uno di quei vantaggi di onore personale cui aspiravano quando avevano seguito Gesù vivo; durante le loro vite non sono diventati ricchi, non sono diventati famosi, non sono diventati potenti: al contrario, il messaggio di amore servizievole, che non avevano accolto quando Gesù era in vita, l’hanno accolto dopo che era morto. Ora, è ben vero che un fanatico è disposto anche a morire per le sue idee (si pensi agli odierni kamikaze che si fanno esplodere in giro per il mondo), e per noi il suo sacro zelo non è affatto prova della veridicità delle sue convinzioni. Ma è un dato di fatto che è più facile morire da giovani che da vecchi, tant’è che in guerra vanno sempre a morire i giovani; anche i kamikaze che si proclamano musulmani sono, guarda caso, tutti giovani: convincere un giovane a immolarsi per un ideale è facile; un vecchio risponderebbe col gesto dell’ombrello. Eppure gli apostoli hanno accettato di morire anche da vecchi. Non è allora così illogico pensare che in perfetta buona fede, la resurrezione da essi percepita sia stata intesa come la garanzia che Gesù era il vero portatore della parola di Dio. Certamente non si può pensare agli apostoli come a dei fanatici sfegatati visto che al momento dell’arresto del loro maestro erano scappati tutti a gambe levate, nessuno di essi aveva osato seguirlo sotto la croce, e tutti impauriti e con la coda fra le gambe erano rimasti rintanati nel cenacolo per più giorni. Evidente che con la morte del loro maestro erano convinti che tutto fosse finito e che non ci fosse più alcuna speranza. Però, poco dopo, sono improvvisamente tornati in pubblico disposti a dare la propria vita: per forza deve essere successo qualcosa di veramente eccezionale che ha fatto loro cambiare idea. Il teologo francese Joseph Moingt, (in Dio che viene all'uomo, 1. Dal lutto allo svelamento di Dio, ed. Queriniana, Brescia, 2005, pp. 335ss)., così spiega la resurrezione: è accaduto qualcosa che ha convinto i discepoli che Gesù riprendeva contatto con essi, e quest’esperienza ha sconvolto le loro vite perché hanno improvvisamente ritrovato la parola, si sono sentiti tornare alla vita, come lui. Se il risorto fosse stato visibile con gli occhi, se avesse mangiato con i vivi, sarebbe stato necessariamente limitato dalle leggi dello spazio, vale a dire non si potrebbe parlare di risurrezione, che non è un ritorno dal mondo dei morti. Dobbiamo quindi ritenere che i discepoli non toccarono Gesù con le loro mani, perché questo era impossibile stando Gesù al di fuori della portata dei loro sensi (Torres Queiruga A., La risurrezione senza miracoli, ed. La Meridiana, Molfetta (BA), 2006, 42 e 46).

Cosa è veramente successo? Non lo sappiamo, ma anche se non è dimostrabile che la resurrezione sia stata un evento tangibile materialmente, ha indubbiamente agito sulla realtà degli apostoli, facendo nascere in essi una nuova energia e una netta convinzione, convertendosi di nuovo al Gesù che avevano codardamente abbandonato (Lohfink G.): quindi per essi la resurrezione è stata sicuramente reale, come lo è stata in seguito per coloro che hanno creduto agli apostoli. Le cd. apparizioni non possono essere state mere illusioni ottiche, perché è difficile immaginare che gli apostoli siano stati in grado di destare nei propri ascoltatori (che di persona non conoscevano Gesù, non sapevano e non avevano visto niente) la stessa illusione che essi avrebbero vissuto in prima persona. E questo si è ripetuto non solo con quella prima generazione di ascoltatori, ma anche in seguito nel corso dei secoli. Allora, a chi obietta che le apparizioni sono state solo come le allucinazioni dell’assetato nel deserto, si può replicare che le illusioni non creano realtà e non migliorano il mondo (Leaners R.). San Francesco vissuto più di un millennio dopo gli apostoli, madre Teresa di Calcutta vissuta un billennio dopo gli apostoli, sono esempi di persone che – credendo - hanno migliorato il mondo. L’assetato nel deserto, nonostante le sue allucinazioni ottiche, muore di sete, e basta.

Chi ha vissuto l’esperienza dell’apparizione ha vissuto allora un’esperienza reale, intima, della presenza di Gesù dopo la sua morte, ma non sappiamo in che cosa sia esattamente consistita, tant’è che le descrizioni in proposito sono tutte diverse fra di loro. Per Luca (Lc 24, 1-43) Gesù da resuscitato sembra tornare alla vita di questo mondo. Matteo vede piuttosto un Signore glorificato del cielo e della terra che è rivestito dell’autorità celeste e che arriva come camminando sulle nubi del cielo: Dio lo ha innalzato all’interno della presenza divina rendendolo parte di ciò che è Dio (Mt 28, 16-20). Paolo, dopo aver avvertito che sta trasmettendo una conoscenza che gli è stata tramandata (1Cor 11, 23 e 15, 3), parla dell’apparizione di Gesù risorto ai 12 (1Cor 15, 5) per cui non aveva neanche sentito parlare del tradimento di Giuda, entrato evidentemente più tardi nella tradizione cristiana (Spong J.S.). Paolo dice anche che Gesù è apparso a molti dopo la morte (1Cor 15, 5-8), cioè si è fatto vedere; se molti l’hanno visto con i loro occhi, è provato che è risorto. Per Paolo un risorto è un corpo animato, visibile e udibile. Ma ci è stato insegnato dal magistero, seguendo la cultura greca, che l’anima diventa l’elemento immortale destinato alla salvezza mentre il resto può impunemente naufragare, tant’è che si dice che con la morte l’anima si libera finalmente dalla prigione del corpo. Pertanto si sarebbe dovuto vedere l’anima (eventualmente glorificata), ma non il corpo di Gesù. È però probabile che Paolo parlasse seguendo la sua cultura farisaica. Nella cultura ebraica non esisteva il dualismo greco, ma un unico corpo animato dal soffio divino della vita, per cui era logico pensare e sostenere che anche il corpo risorgesse. La Chiesa ha finito per fare un pot-pourri delle due concezioni, accettando l’idea dell’anima separata dal corpo propria della cultura greca, ma poi nel Credo (simbolo degli apostoli) seguendo la cultura ebraica dice: “credo nella risurrezione della carne,” cioè parla anche della resurrezione dei corpi nel giudizio finale. È evidente, allora, che se il corpo di Gesù fosse stato cremato (come si usa in India) il concetto di resurrezione, in questi termini, avrebbe perso di stabilità e la cremazione avrebbe minato dall’inizio la fede della resurrezione (Lenaers R.), intesa come la intendeva Paolo. Per questo la Chiesa ha vietato a lungo la cremazione. Vedete come ogni cultura finisce con l’influire poi sulle interpretazioni.

A questo punto, però, è logico farsi qualche ulteriore domanda: come fanno a rapportarsi due entità di natura ontologica radicalmente diversa (l'anima immortale, intangibile e il corpo materiale, palpabile)? E poi, se è l’anima a finire in contemplazione di Dio, che bisogno c’è ancora del corpo che prima la teneva prigioniera? Il fatto è che per comunicare un'esperienza completamente nuova, per la quale non si trovano termini adeguati, si devono utilizzare termini già noti, ma relativi a situazioni non completamente identiche a quella che si vuol descrivere. Solo così l'uomo riesce a comunicare ad altri la sua esperienza quando non è in grado di determinare in che cosa consiste esattamente la realtà: è il cd. ricorso all’analogia (Molari C., La funzione dell’analogia nel linguaggio teologico, “Rassegna di teologia” 1994, n.4, 405). Quando poi c’è gente che non crede neanche ai fatti storici documentati (pensiamo a chi nega perfino la Shoah, o gli eccidi delle foibe), immaginarsi se crederà a testimoni che cercano di raccontare con parole proprie l’esperienza da essi vissuta.

Giusto per chiarire: Marco non riporta alcun caso di apparizioni; per Matteo, Gesù risorto apparve ai discepoli in Galilea (Mt 28, 10). Uno si chiede: “Ma perché avrebbero dovuto fare 150 chilometri a piedi per vederlo? Gesù è risorto a Gerusalemme e anche i discepoli sono a Gerusalemme: non era più ovvio che fosse Gesù ad andare da loro?” E in effetti così avviene nel Vangelo di Giovanni dove Gesù appare nel cenacolo dell'ultima cena in Gerusalemme, passando oltre i muri (Gv 20, 19). Secondo Luca (Lc 24, 4-5) le donne che si recano al sepolcro non trovano il morto, ma due “uomini” che annunciano loro l’avvenuta resurrezione; diversa ancora è l’apparizione ai discepoli di Emmaus (Lc 24, 13ss.). Il riconoscimento del presunto giardiniere da parte di Maria Maddalena non è neanche visivo (solo vedendolo non lo riconosce) ma piuttosto uditivo: Gesù la chiama per nome: “Maria” ed essa risponde “Rabbuini” (Gv 20,16), come il dire “pronto” quando si alza il telefono: il contatto, interrotto con la morte, è ristabilito nonostante la morte. La morte non ha distrutto la comunicazione vitale e anche dopo la sua morte Gesù continua a offrire comunione di vita ai suoi. In questa comunione i credenti sperimentano Gesù vivo, la sua resurrezione.

Ma “Rabbuni” è il titolo che Maria dava a Gesù durante la sua vita terrena: evidentemente essa pensava di riprendere il rapporto di prima. “Non mi trattenere” le risponde invece Gesù, indicando che il rapporto sarà diverso. Ecco perché Leonardo Boff (in Vita oltre la morte, ed. Cittadella, Assisi, 1993, p. 15) dice che la resurrezione non può essere interpretata come un ritorno alla vita normale da parte di chi era ormai cadavere, ma come la totale ed esauriente realizzazione delle possibilità latenti nell’uomo, possibilità di unione intima con Dio, di comunione con tutte le cose.

Come osserva poi correttamente un noto vescovo olandese, i racconti delle apparizioni di Gesù non sono neanche esposizioni apologetiche, da accettare ciecamente come prova della resurrezione, tant'è che il Credo tace sulle apparizioni di Gesù; piuttosto mirano a legittimare e incoraggiare la missione apostolica  (Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 372).

La fede di chi crede continua a basarsi sull’esperienza di “vedere Gesù vivo,” nel senso che Gesù continua ad alimentare un vedere interiore, un’esperienza di pienezza di vita alla quale si può prendere tutti parte. Di più: se i racconti sulle apparizioni ritraggono Gesù così com’era conosciuto in vita, significa che malgrado la crocifissione il suo messaggio non solo ha messo radici, ma ha messo radici così forti che ne scaturiscono messaggi sempre nuovi nel corso dei secoli. Vuol dire che tutte queste esperienze, pur diverse fra di loro, sono capaci di dare un orientamento definitivo alla vita di chi le ha provate, e sono state riconosciute anche come esperienze reali da chi, avendo ascoltato questi primi testimoni, li ha ritenuti degni di fede.

Però, siccome nessuno di noi ha vissuto l’esperienza dei discepoli, l’idea di resurrezione resta ancora oggi qualcosa di difficile da accettare perché non corrisponde al nostro vissuto normale, alle nostre esperienze quotidiane. Insomma saremmo davanti a un avvenimento che crea più dubbi di quelli che pensa di risolvere. Nella sua vita terrena Gesù aveva detto che, avendo fede, avremmo fatto cose anche più grandi di lui (Gv 14, 12), quando di lui si dice che ha perfino resuscitato i morti (Mt 11, 5 e Gv 14, 12). Duemila anni di cristianesimo, e trovatemi un solo morto risuscitato da un uomo; non ce n’è uno in tutta la storia della Chiesa! Tutti senza fede, compresi tutti i papi e gli innumerevoli santi? O forse col termine resuscitare già Gesù intendeva qualcosa di diverso dal far rivivere un corpo senza vita portato al cimitero, come invece ci hanno a lungo fatto intendere?

Perché, se per resurrezione intendiamo che il cadavere torna alla vita terrena di prima, mangiando e digerendo come prima, andando al bagno come tutti i mortali, sorge subito una domanda fondamentale: dato per certo che Gesù è storicamente esistito, anche questo insolito smettere di essere morto facendosi rivedere nel mondo di prima, questa sua asserita resurrezione, è un fatto storico?

Il papa emerito scrive che dipende esclusivamente dalla risurrezione se Gesù è soltanto esistito nel passato o invece esiste anche nel presente, e siccome sostiene che è risorto, sostiene pure che Gesù è presente nella storia: la resurrezione ha fondamento storico (Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 11) senza però dare ulteriori spiegazioni che invece sarebbero urgentemente dovute. Altri (ad es. Yannaras C.) aggiungono che la resurrezione deve essere un fatto storico perché altrimenti il cristianesimo sarebbe un semplice fantasioso bisogno religioso innato dell'uomo. In altre parole, se la risurrezione non rinvia a un evento storico accertabile che ci coinvolge tutti sarebbe priva di contenuto, e quindi si tratterebbe solo di chiacchiere, proprio come pensava Celso. In questa direzione va anche il Catechismo della Chiesa cattolica (n.643), ove si dice espressamente che «è impossibile interpretare la risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico». Il che equivale a ribadire che il vangelo ci sta annunciando qualcosa che non coincide con la nostra esperienza, poiché nessuno di noi ha mai visto un cadavere tornare da solo a casa, tre giorni dopo essere stato sepolto in cimitero.

Ora, se per “storico” intendiamo un evento che si è manifestato nello spazio e nel tempo vissuti dall’uomo sulla terra, un fatto che è veramente accaduto in un dato momento e in un certo luogo, mi dispiace per il papa emerito, per il catechismo, e per tutti coloro che ci credono, ma l’unica risposta logica riguardo al fondamento storico della resurrezione non può che essere negativa (così Pagola J.A., Castillo J.M., Ocáriz F.), e per convincersi basta semplicemente partire da un'altra domanda: quando è finita la storia di Giulio Cesare o di Napoleone? Qui la risposta è ovvia: con la loro morte. E quando finirà la storia mia e la storia vostra? Ovviamente quando moriremo. Ne consegue che per nessun essere umano ciò che succede o non succede dopo la morte può essere considerato un fatto storico (Castillo J.M.). È cioè evidente che fatto storico è solo quel fatto che accade dentro l'arco della vita terrena, mentre quello che succede dopo la morte è oltre la storia, non è più dentro la storia. Papa Ratzinger, nel suo Gesù di Nazareth, dice che il risorto pur non appartenendo più al nostro mondo (e quindi alla storia che prende tutte le persone viventi) era presente in modo reale, nella sua piena identità, in questo mondo (e quindi nella storia). Potrà magari essere anche reale, ma sarà comunque un fatto meta-storico, trascendente e non più immanente (cfr. l’articolo Trascendente e immanente del mese scorso, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-494---3-marzo-2019/immanente-e-trascendente). Perciò si deve concludere del tutto logicamente che, essendo la risurrezione di Gesù avvenuta pacificamente dopo la sua morte fisica, non siamo in presenza di un fatto storico, non siamo dentro «l’ordine fisico».

Di più: neanche possiamo pensare di aggirare il problema sostenendo che essendo Dio onnipotente, a Lui ‘nulla è impossibile’ (Gn 18, 14; Lc 1, 37), sì che il problema della resurrezione di Gesù si può chiudere bellamente affermando che si tratta di un miracolo divino. La risurrezione non può essere vista come un miracolo perché anche il miracolo è sempre un «fatto storico», che accade nello spazio e nel tempo dentro l'arco della vita terrena, mentre la risurrezione è un avvenimento «meta-storico», che si pone al di fuori dello spazio e del tempo, e, pertanto, non può localizzarsi nella storia.

È stato allora correttamente affermato che non si può pretendere di fornire prove fisiche per una realtà che è trascendente (Torres Queiruga A., Visibile o invisibile? Dialogo sulla realtà di Cristo risorto, in www.30giorni.it, n.1/2008). Non possiamo dunque cogliere la resurrezione nella sua storicità, ma siamo davanti a una interpretazione di un’esperienza (Penna R, Gesù di Nazaret nelle culture del suo tempo, ed. EDB, Bologna, 2012, 153.) vissuta personalmente da chi è rimasto sulla terra. La risurrezione di Cristo è una testimonianza di fede della prima comunità cristiana, non una testimonianza di un fatto storico (Daniélou J., La risurrezione, ed. Borla, Torino, 1970, 9). E allora, è impossibile portare prove storiche o scientifiche in favore della resurrezione. Come diceva Kant, non si può utilizzare la scienza come fosse la fede.

La Chiesa ha utilizzato la tomba vuota come prova storica della resurrezione, ponendola alla base del culto del Santo Sepolcro e contribuendo a far credere che Gesù morto, tornando in vita nel corpo che era stato sepolto si è riunito all’anima, per poi andarsene dal sepolcro sulle proprie gambe. Ma la fede nella resurrezione di Gesù non può basarsi sulla visione di un sepolcro vuoto: anche le guardie hanno visto un sepolcro vuoto, eppure non hanno creduto che Gesù fosse resuscitato. Anche Pietro lo ha visto, e neanche lui ci ha creduto (Gv 20, 6-10). L’argomento del sepolcro vuoto è per di più tardivo, perché Paolo non ne parla mai. Il primo a parlarne è Marco (Mc 16, 1-8), ma se si vuol insistere su questo fatto come fosse storico, si dovrebbe prima rispondere anche ad altre domande: perché le donne vogliono ungere il cadavere di uno che è morto ormai da tre giorni? Non faceva parte della tradizione e non ha senso. E poi, le donne sanno di non essere in grado di spostare la pietra della tomba; perché vanno allora al levar del sole, mentre forse in pieno giorno avrebbero potuto trovare qualcuno al cimitero che le aiutasse a spostar la pietra? Chi ha spostato la pietra? Marco lascia intuire che sia stato il giovane vestito di bianco che si trova all’interno del sepolcro. Matteo parla espressamente di angelo. Ma come ormai si è detto negli articoli Il Dio del teismo è morto e L’angelo custode (nn.461 e 465 di questo giornale) gli angeli che vivono in un mondo parallelo e intervengono nel nostro fanno parte di una cultura ormai superata ed etichettata oggi come antistorica, perché mischia storia e mitologia. Oggi il sepolcro vuoto può solo significare che la morte non ha trattenuto Gesù (Lenaers R.).

L’unica prova logica della resurrezione di Gesù, negli Atti degli Apostoli, è indiretta, perché si legge: “Con grande forza gli apostoli rendevano testimonianza della resurrezione del Signore Gesù … Nessuno infatti tra loro era bisognoso” (At 4, 33-34). Se si ottiene un simile risultato, si sta affermando che il messaggio di Gesù è rimasto operativo anche dopo la sua morte, e che in quella comunità si vede all’opera la mano di Dio.

A questo punto, quei cristiani ossequienti all’insegnamento del magistero e che non accettano nessun dubbio, cominceranno già a innervosirsi al sentir dire che la resurrezione non è un fatto storico, e mi replicheranno che i vangeli ci raccontano di vari testimoni che videro e parlarono col Gesù risorto:questi testimoni erano vivi e quindi siamo in presenza di un fatto storico. È vero, ma non è così, perché siamo di fronte a un fatto diverso in quanto le apparizioni sono esperienze strettamente personali che i discepoli hanno fatto; ogni apparizione è diversa dall’altra, ciascuna in grado di cambiare la vita di chi le ha fatte, ma storiche sono le esperienze di questi testimoni sfociate nelle loro testimonianze (Ocáriz F. e al., The Mstery of Jesus Christ), non la resurrezione di Cristo. Anche l’esperienza di ‘vedere’ Gesù risuscitato non vuol necessariamente dire che si vede con gli occhi: il verbo ‘vedere’ significa una profonda esperienza interiore, e anche noi adoperiamo ancora oggi lo stesso verbo col significato di capire, quando diciamo a una persona: “non vedi che…, non capisci?” (Maggi A.). Nei racconti giudaici di conversione, la conversione di un pagano alla legge giudaica viene spesso chiamata illuminazione e descritta secondo il modello classico della “visione di conversione”: all’improvviso si è investiti da una luce violenta e si sente una voce (At 9, 3; 22, 6; 26, 13: la visione di Paolo sulla via di Damasco è chiaramente composta secondo questo schema, mentre coloro che seguivano Paolo non hanno visto nulla – At 9, 7). Nel giudaismo “non vedere” o accecamento diventa immagine di una chiusura colpevole alla rivelazione di Dio; all'inverso, vedere è l’immagine dell’accesso dell’uomo alla salvezza offerta da Dio (Dt 29, 2-4; Is 6, 9; 59, 10; Ger 5, 21). Il simbolo della luce, e quindi della vista, venne ripreso dal cristianesimo nel senso di conversione (Rm 13, 12; Ef 5, 8; 1Pt 2, 9)  (così Schillebeecks E Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia, 1976, 402).

Ma se Gesù, a partire dalla sua risurrezione si situa nell’ambito della trascendenza, come si spiegano questi insistenti racconti sul vedere e anche sul mangiare, cioè cose che appartengono all’ambito dell’immanenza? È logico pensare che i riferimenti a Gesù, il quale insieme ai discepoli sembra continuare a svolgere attività quotidiane come faceva in vita, siano storie aggiustate per sottolineare l’identità del Crocifisso col Resuscitato. L’insistenza nel riaffermare che colui che era stato Crocifisso è anche il Risorto (Mc 16, 14; Mt 28, 5-7; Lc 24, 36-49; Gv 20, 24-29; 1Cor 15, 3-5), rappresenta in tutta evidenza un argomento a favore del Crocifisso: quell’ebreo fallito e finito sulla croce non solo viene riabilitato, ma pure innalzato ed esaltato dal Padre del Cielo che lo ha elevato alla condizione di Figlio di Dio, Messia e Signore nostro (Rm 1, 4).

In secondo luogo, viene evidenziata l’importanza fondamentale che la convivialità ha nella Chiesa primitiva per incontrare il Trascendente. I pranzi del Resuscitato con i suoi discepoli affermano inequivocabilmente questo: se Gesù, a partire dalla sua resurrezione si situa nell’ambito della trascendenza, ci viene messo sotto gli occhi il dato fondamentale secondo il quale il Trascendente lo si trova ancora e solo nell’esperienza umana immanente. Non c’è altra forma né possibilità di trovarlo e di stabilire con lui una debita relazione, visto che non abbiamo accesso alla trascendenza. Come umani possiamo gestire solo la nostra umanità. Il divino non è alla nostra portata. La Chiesa nascente è lì a ribadire che la relazione umana col divino non si attua, ad esempio, nell’adorazione dell’ostia in un luogo sacro, ma nell’esperienza della convivialità. Il Dio che si è fatto conoscere in Gesù si è umanizzato fino al punto che, anche da resuscitato, è un Dio che mangia insieme ai suoi. Vale a dire, il Dio di Gesù condivide la convivialità con gli umani; cioè nell’immanente convivialità umana è dove il Dio di Gesù si fa presente (Castillo J.M.). Quindi sedendo insieme a tavola e mangiando insieme, cioè nella convivialità, è dove i discepoli hanno avuto sentore di trovarsi con Gesù ancora vicino, mentre non è detto che abbiano mangiato e bevuto veramente con lui.

Il ritorno alla vita di Gesù si è imposto malgrado l’incredulità dei discepoli come un'esperienza di cui alla fine non potevano più dubitare. Ma poiché Gesù non ha fatto mai altro che apparire, rendersi presente per poi scomparire, senza che nessuno potesse trattenerlo (Lc 24, 31; Gv 20, 17), questo significa per gli stessi evangelisti che non si è trattato di un ritorno alla vita di prima, non facendo Gesù più parte dei viventi di questo mondo.

Tutto questo comporta conseguenze non dappoco. Ad esempio, alla domanda se Gesù abbia istituito il battesimo, lo stesso teologo Moingt ha così risposto: «Non abbiamo ancora trovato, da parte di Gesù, alcun atto fondativo né alcuna intenzione di fondare un battesimo analogo a quello di Giovanni e suscettibile di fargli concorrenza. Perché Gesù non ha mai parlato del battesimo ricevuto da Giovanni: sono gli evangelisti che ne parlano molto tempo dopo … Gesù non manifesta l’intenzione di fondare una setta sul modello di Giovanni». Ha dato lui agli apostoli l’ordine di battezzare dopo la sua morte? Se lo ha fatto, questo sarebbe avvenuto dopo la sua resurrezione secondo l’insolita formulazione trinitaria che si legge in Matteo (Mt 27, 19), ma non negli altri evangelisti, per cui «quelle parole dette dopo la resurrezione non possono essere raccolte come prova storica». L’autore sta dicendo che chi ha superato la soglia della morte non è più sul palcoscenico della storia. Quindi l’unica cosa che si può fare è richiamarsi a ciò che ha detto e fatto prima di morire, perché dopo la morte Gesù si sottrae completamente alla nostra comprensione (Lenaers R.), essendo entrato nel trascendente. Tutto quanto si attribuisce al Gesù risorto, ormai parte del trascendente, è semplice frutto di elaborazioni umane, anche se ripensate alla luce della propria esperienza sulla resurrezione di Gesù.

In conclusione, se ci chiediamo in cosa consiste veramente la resurrezione, una volta che la si nega come fatto storico, onestamente dobbiamo rispondere non solo che non lo sappiamo, ma soprattutto che non lo possiamo sapere: la resurrezione non è descrivibile perché non conosciamo la forma futura dei viventi (Molari C., La pietra rotolata: ripensare la risurrezione, "Rocca" n.21/2015, 48), che appartiene alla trascendenza e non all’immanenza. Per lo stesso motivo non possiamo sapere chi è questo Dio Trascendente. Colui che afferma il contrario sta dicendo che conosce il Trascendente. Ma chi afferma di conoscerlo parla di una rappresentazione di Dio e di una resurrezione che lui stesso si è costruita nella sua testa.

Di sicuro non è che il morto va a riprendersi le molecole che aveva da vivo e così ricostituito va in giro. Non è che Gesù da morto ha riattivato le sue cellule ormai spente, è tornato alla vita di prima in questo mondo per poi salire in cielo davanti ai discepoli (At 1, 9), come fosse un razzo partito da Cape Canaveral (come fa pensare il racconto di Luca preso alla lettera). Questo fa parte di una cultura ormai superata, esattamente come quando si parla dell’Assunzione di Maria.

Per gli antichi era tutto molto più semplice, perché dicevano che c’era un luogo specifico dove i morti andavano e poi restavano. Quindi si trattava di “salire” al cielo, come prima si scendeva agli inferi (o Ade o Sheol per gli ebrei)[1]. Oggi, anche se nel linguaggio comune queste immagini sono rimaste, non ha più senso parlare di salita al cielo, né da parte di Gesù, né da parte di Maria. Abbiamo una visione radicalmente diversa della realtà, per cui parliamo di dimensioni umane nuove, o di dimensioni della vita diverse. Però non sappiamo in cosa consistono. La morte è la soglia oltre la quale nessuno sa cosa accade, perché nessuno è tornato indietro dopo averla superata. Il massimo che si può intuire è che la resurrezione è una dimensione nuova di esistenza. Ma non potendo parlare di quello che non sappiamo, è meglio rinunciare a voler descrivere in cosa consiste la resurrezione e lo stato del risorto, perché non abbiamo gli elementi per farlo. E come se il feto nell’utero materno volesse immaginare com’è la vita all’aria aperta, una volta nato. Non ha gli elementi per immaginarlo, non ha le categorie per pensarlo (Molari C., La pietra rotolata: ripensare la risurrezione, "Rocca" n.21/2015, 49). Come potrebbe immaginare che un giorno volerà su un aereo, o che incontrerà un partner con cui andare a vivere assieme, completamente indipendente da sua madre?

Che altro possiamo dire della resurrezione? Possiamo dire solo che la resurrezione fa appello alla nostra fede, perché credere alla resurrezione vuol dir credere alla possibilità di Dio di darci una nuova vita vincendo anche la morte; la resurrezione di Gesù è garanzia di resurrezione per tutti; crediamo alla potenza di Dio che vince ogni limite: anche la morte. Ecco perché Paolo dice che se Gesù non è veramente risorto, tutta la nostra fede è vana (1Cor 15, 14). Se cioè Cristo non è resuscitato, il cristianesimo non può annunciare la vittoria sulla morte, e quindi la salvezza, per tutti. Spremendo al massimo il succo di queste esperienze, cosa resta? La certezza di fede nella fedeltà di Dio verso l’umanità; Dio vuol dire vita, quindi tutto è stato creato in vista del meglio (Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, ed. Massari, Bolsena (VT), 2009, 223 e 236): Gesù ci ha fatto capire che, quando sentiamo bussare alla nostra porta e temiamo che aprendo ci si trovi davanti la morte, in realtà aprendo ci si troverà davanti al Dio della vita. Il succo del Vangelo consta in fin dei conti in questo: nel cuore della realtà l’armonia piena si chiama comunione con Dio, e ci viene assicurato che il male e la morte non possono spezzare questa comunione (Mancini R.).

“Pura utopia! Pura illusione! Puro imbroglio!” griderà qualcuno. È possibile, ma nessuno può dimostrare che non esista una vita trascendente, come nessuno può dimostrare che esista una vita trascendente.

“Riconosco che questo che mi racconti è rasserenante!” aveva detto anche quel giovane dubbioso al prete. “Ma se per ipotesi Dio non esistesse e tu avessi comunque seguito questa Buona Novella, la tua vita di prete che significato avrebbe, che esistenza ‘a vuoto’ risulterebbe essere stata la tua?”

“Anche se fosse come dici tu,” ha risposto quel prete, “non si vive in ogni caso meglio credendo in Lui, nella sua amicizia, nel suo amore e condividere questi sentimenti con altri?” 

O in altri termini, non è forse vero che per ogni persona normale, la vita dà il meglio di sé quando si sceglie la via dell’amore, dell’armonia, della speranza, e che quando s’immette nella propria vita questo senso ci si sente meglio? Non si vive meglio pensando che dopo la morte ci aspetta ancora una grande avventura? (Vatta M.).  

 

Dario Culot 

 

[1] All’inizio il giudaismo pensava che con la morte tutto finisse, l’apocalittica inserì il tema della resurrezione, ma questa nuova speranza restò a lungo controversa (Placher W.C., A history of christian theology, ed. Westminster John Knox Press, Louisville-London, 1983, 26). Secondo il libro della Sapienza l’ingiusto e il peccatore muore perché la sua morte è “alla morte” (Sap 1, 12; 5, 9-14), mentre la morte del giusto è “alla vita” (Sap 1, 15; 5, 15). Buona parte degli ebrei aveva cominciato a credere che esiste una resurrezione: in particolare i morti uccisi per fede dovevano essere richiamati in vita, perché a torto essa era stata loro tolta per la loro obbedienza alla Torah. Dio non poteva permettere simile ingiustizia. Ma l’idea ebraica iniziale era che la resurrezione avrebbe comportato una seconda vita su questa terra.

Solo in seguito era subentrata l’idea ellenistica dell’anima immortale, ed ecco che con Daniele la resurrezione non è un evento salvifico, quanto il mezzo per rendere i morti (buoni o cattivi) soggetti vivi nel giudizio finale dove si avrà punizione o premiazione (Schillebeeckx E., Gesù, la storia di un vivente, ed. Queriniana, Brescia,1976, 549s.). Quest’idea passò nel cristianesimo: essendo Gesù scomparso da questo mondo, la Chiesa l’ha ricollocato nell’altro mondo alla destra di Dio. E la stessa cosa succedeva poi per coloro che morivano; era rimasto anche l’ingrediente ebraico del giudizio finale: al momento della fine del mondo anima e corpo si sarebbero riuniti, per buoni e cattivi, e seguendo Daniele (Dn 12, 2): “Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno: gli uni alla vita eterna e gli altri alla vergogna e per l’infamia eterna”. Col tempo vennero poi aggiunti il Purgatorio ed il Limbo, sulla falsariga dello Sheol-Ade  (Lenaers R., Il sogno di Nabucodonosor, ed. Massari, Bolsena (VT), 2009,  222s.).