“Mi sei dentro l’anima”

Il Carso a Duino, in provincia di Trieste - foto tratta da commons.wikimedia.org

La questione dei “viri probati” che si sta ponendo con forza al Sinodo dei Vescovi in corso a Roma ha implicazioni ben più intricate e problematiche del semplice rilievo disciplinare, canonistico od anche del solo profilo ecclesiologico relativo alla legittimità delle possibili soluzioni per ovviare al mancato esercizio del diritto all’Eucarestia (sì, si tratta proprio di questo) da parte di intere comunità.

Nel volume di Hubert Wolf, appena pubblicato da Donzelli Editore, intitolato Contro il celibato. 16 tesi sul matrimonio dei preti, l’autore riferisce di un incontro tra il Papa ed un vescovo dell’Amazzonia, Erwin Kräutler, nel corso del quale quest’ultimo (p. 3) «racconta a Francesco della consacrazione di una cappella di una remota parrocchia nella quale si era recato in passato. All’apertura della porta della piccola chiesa era rimasto stupefatto: mancava l’altare. Il vescovo aveva fatto subito presente che la celebrazione dell’eucaristia costituisce il centro della fede e della vita comunitaria cattolica. Maria, la responsabile della comunità, aveva immediatamente replicato che questo lo sapeva bene anche lei. «Ma siccome celebriamo l’eucaristia solo due o tre volte l’anno […] non abbiamo bisogno dell’altare». Per quelle poche volte sarebbe stato sufficiente un tavolo.»

In qualche modo traspare l’idea, molto consolidata nell’Occidente latino (cui pure le “Indie Occidentali” canonicamente appartengono dal punto di vista rituale, giacché in ogni diocesi amazzonica è pur sempre il Codice di diritto canonico valido per la sola Chiesa latina – come recita il can. 1 - ad applicarsi), secondo cui il presbitero è “sposo” dell’altare e dunque anche “sposo” della Comunità liturgica, senz’altre spose possibili, onde preservare un monismo ritenuto garanzia di verità.

Per quanto paradossale possa sembrare, l’esclusività del celibato quale requisito per l’ordinazione presbiterale è speculare alla rigidità monogamica che impedisce anche il solo poter immaginare legami con altre presenze senza spezzare i vincoli coniugali in essere.

Ed è questo il motivo per cui certa critica di marca occidentale e progressista al celibato lascia perplessi nella misura in cui non si apre ad una critica radicale – “radicale”, già – ai presupposti veritativi di ordine etico della nostra cultura, a quelle gabbie culturali che impongono, anche inconsciamente, l’aut aut, condannando come perversione, e intollerabile deriva emotiva o psichica, qualunque et et affettivo.

È insomma una questione “rituale” in senso lato. Eppure davvero strettamente rituale. “Rituale”, cioè “riproducente uno stile”, una stilizzazione, un modo d’atteggiarsi che è un modo d’essere e non è per nulla indifferenza cerimoniale.

Sono i riti, certo esteriori ma sovente ben interiori, che strutturano la nostra vita.

Prendiamo un esempio. La cultura romantica – ottocentesca, successiva a secoli che invece avevano ben altra visione dei rapporti interpersonali - fa degli amanti una categoria precisa, caratterizzata dalla clandestinità e furtività del loro essere tali, da conservare rigorosamente celato ai coniugi presenti ma ignari (figuriamoci un po’…) dell’esistenza di terzi. Tertium non datur. E quella cultura è ancora la nostra. Quel “rito” è diventato il nostro “rito”.

Il vir probatus, per continuare nell’analogia dell’esempio forse un po’ scandaloso, mette in crisi una sorta di rito amatorio ecclesiale e presenta una figura di prete che è ad un tempo, invece, sia sposo di una donna sia sposo di una Comunità.

Sappiamo bene che la sponsalità non è la caratteristica ecclesiologica corretta per approcciare il tema del ministero presbiterale nel suo rapporto con la comunità celebrante, certo. Il prete non è ecclesiologicamente lo sposo della Comunità, verissimo. E tuttavia i nostri riti interiori si celebrano tutti secondo tale errata comprensione, è innegabile, e solo un et et capace di situarsi sulla scia di questa errata comprensione potrebbe far cambiare idea di ministero nella Comunità.

Gli amanti “ottocenteschi” possono reputarsi alternativi finché si vuole, ma il loro dover rimanere nascosti agli occhi dei legittimi coniugi è stigma che s’accompagna alla loro esperienza quale che sia.

Il rito amazzonico, di cui si discute a Roma, fa – per così dire, continuando a ricorrere ad una analogia solo in parte troppo ardita (speriamo non impertinente) – diventare l’amante sposo, senza togliere nulla né alla verità di un rapporto né all’altro.

La nostra cultura occidentale, logico-razionale, deduttiva molto più che induttiva, fatica moltissimo ad accettare una simile prospettiva. La categoria della “liberazione” ci va bene ma non al prezzo di dover rimettere in discussione le nostre stesse scelte culturalmente condizionate (consapevoli o no che siano).

Sono sempre gli altri a rivelarci la nostra verità, quella che quasi mai accettiamo di vedere.

E così accadde che una donna, madre di famiglia, moglie, si rivolse al compagno di villaggio, di un continente che non nominerò, e gli sussurrò, dolcemente: “Mi sei dentro l’anima”.

Anche quell’uomo era sposato e padre di famiglia. Il racconto non specifica quali fossero i motivi delle parole sussurrate. Ciò che il racconto riporta invece è che, pochi giorni dopo, tutto il villaggio decretò che quell’uomo dovesse diventare il successore del parroco appena mancato ed il vescovo non poté che acconsentire.

Altri riti? Sì, esattamente. Altri riti.

Riti – sia permesso osare anche tale affermazione – del tutto “onnigamici”. Che significa?

Poco fa, nella Basilica di San Pietro, il Papa all’omelia ha pronunciato queste parole (https://c.vatican.va/content/francesco/it/homilies/2019/documents/papa-francesco_20191020_omelia-giornatamissionaria.html): «È l’aggettivo tutti, che prevale nelle Letture: «tutte le genti», diceva Isaia (2,2); «tutti i popoli», abbiamo ripetuto nel Salmo; Dio vuole «che tutti gli uomini siano salvati», scrive Paolo (1 Tm 2,4); «andate e fate discepoli tutti i popoli», chiede Gesù nel Vangelo (Mt 28,19). Il Signore è ostinato nel ripetere questo tutti. Sa che noi siamo testardi nel ripetere “mio” e “nostro”: le mie cose, la nostra gente, la nostra comunità…, e Lui non si stanca di ripetere: “tutti”. Tutti, perché nessuno è escluso dal suo cuore, dalla sua salvezza; tutti, perché il nostro cuore vada oltre le dogane umane, oltre i particolarismi fondati sugli egoismi che non piacciono a Dio. Tutti, perché ciascuno è un tesoro prezioso e il senso della vita è donare agli altri questo tesoro. Ecco la missione: salire sul monte a pregare per tutti e scendere dal monte per farsi dono a tutti.»

Il mio compagno, la mia compagna, è il compagno, la compagna di tutti. E io sono compagna e compagno di tutti. E eros non avrà nulla da obiettare se uscirà dalla sua zona d’oscurità da brivido e sarà premura appassionata per chi è più debole.

Vir probatus, mulier probata. La probatio è l’amore. Ma l’amore non è quello delle facili definizioni, è altro, Altro.

Nel presente numero del nostro giornale riportiamo tutti i link dei video presenti su YouTube, per la regia di Paolo Battigelli, frutto della registrazione delle relazioni al nostro Convegno “Fare memoria: l’amore, la legge”, svoltosi a Trieste da giovedì 10 a sabato 12 ottobre. 

(la playlist è raggiungibile presso

https://www.youtube.com/playlist?list=PLdW52CP1_Yuht6wHl9Q-3hXcCpF11XXvj&fbclid=IwAR0eu9ZcT_764BcdI14ulTkHI7OOyTXc4fsGWnAcAqa1WqPOt03wgOKk3KA).

Il verbo “fare” avrebbe potuto reggere, come altrettanti complementi oggetto, sia l’amore che la legge: fare l’amore, fare la legge. Il fare “memoria” introduce però dinamiche ancor più complesse, perché sia l’amore che la legge ha proprie memorie ed anzi può darsi addirittura che l’amore detti una propria “legge di memoria” che andrebbe scandagliata.

Ma in realtà, se ci pensiamo, può “fare l’amore” e “fare la legge” solo chi, avendo memoria di che cosa ciò possa significare, è anche disposto a tradire tali memorie, in nome di nuovi riti da celebrare. Probabilmente onnigamici, probabilmente amazzonici, sicuramente capaci di ospitare l’altro, l’altra, sin “dentro l’anima”.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro