Apostoli: il futuro gruppo dirigenziale?

San Paolo - Andrej Rublev, 1407 - immagine tratta da commons.wikimedia.org

Ci è stato insegnato che la Chiesa è strutturata in forma piramidale perché già dai vangeli si ricava che Gesù ha dedicato una cura specialissima alla formazione dei dodici, rispetto alla massa degli altri discepoli che pure lo seguivano: dunque, ci sarebbe un’evidente superiorità del gruppo dei Dodici, che vengono individuati come i 12 apostoli, dai quali si farà discendere l’autorità dei vescovi (titolo che non esiste nei vangeli); all’interno di questo piccolo gruppo titolato, poi, ci sarebbe – sempre per volontà di Gesù - un’ulteriore superiorità spettante a Pietro, da cui si farà discendere il primato del papa.

In effetti, in base all’insegnamento ricevuto, la maggior parte di noi è convinta che gli apostoli siano solo i primi dodici selezionati da Gesù Cristo; invece già dagli Atti degli apostoli di Luca, quando gli undici devono scegliere il sostituto di Giuda e individuano le caratteristiche del nuovo apostolo, dicono espressamente che: “Deve essere uno di quelli che ci hanno accompagnato mentre il Signore Gesù è vissuto con noi, da quando Giovanni predicava e battezzava fino a quando Gesù è salito in cielo, potendo così essere testimone della sua resurrezione” (At 1, 21-22). L’unica cosa qui evidente è che, oltre ai dodici noti, altri possedevano le stesse caratteristiche (“deve essere uno di quelli”), avendo vissuto fianco a fianco con i più noti 12 fin dall’inizio. Altra cosa evidente, dalla mera lettura dei vangeli, è che nel gruppo che segue Gesù si formarono presto due tipi di seguaci: quelli provenienti da Israele, cioè gli osservanti della Legge come gli originali dodici, e quelli che erano gli esclusi da Israele e che Gesù aveva invitato ugualmente a seguirlo, come quando aveva chiamato Levi il pubblicano, il collaborazionista degli odiati romani, impossibilitato a salvarsi secondo la religione ebraica; ma si pensi anche alle donne che erano con lui e con i dodici (Lc 8, 2-3): il problema è che all’epoca non esisteva la parola ‘discepola’ essendo assolutamente impensabile che una donna uscisse di casa, lasciasse il proprio clan e seguisse qualcuno. Lo stesso Luca, in mancanza del vocabolo, dice che oltre ai discepoli c’erano alcune donne, fra cui Giovanna moglie del ministro delle finanze di Erode (Lc 8, 3). Era separata? Divorziata? Scappata di casa? Non lo sappiamo.

All’ultima cena sembra che Gesù sia con i soli apostoli, e su questo la Chiesa ha costruito tutta una sua teologia con riguardo al sacerdozio riservato ai maschi.

C’erano anche donne? Quasi di sicuro sì, perché, come osserva l’orientalista Garbini, se le donne accompagnavano Gesù e lo hanno seguito fino al Calvario, è chiaro che anche loro dovevano essere presenti pure la sera prima, all’ultima cena, soprattutto se si trattava di una cena pasquale alla quale usava partecipare tutta la famiglia (Garbini G., Vita e Mito di Gesù, ed. Paideia, Brescia, 2015, 131). Nello stesso senso Pagola J.A., (Gesù, un approccio storico, ed. Borla, Roma, 2009, 257ss.), il quale si chiede: perché le donne avrebbero dovuto essere assenti all’ultima cena, loro che, di solito, mangiavano con Gesù? Sarebbe strano che, contrariamente alla sua abitudine di condividere la sua tavola con ogni tipo di persone, peccatori compresi, Gesù adottasse improvvisamente un atteggiamento selettivo e restrittivo (solo i 12 maschi). E anche dopo la crocifissione, ci viene raccontato che con i 12 c’è una presenza di donne oltre a Maria madre di Gesù (At 1, 14; 2, 1-4), Ma alla fin fine, anche se si dicesse che le donne si limitavano a servire a tavola i 12 maschi, ricordiamo che Gesù ha detto: “Chi è più grande, colui che è a tavola oppure colui che serve?... Io sono in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22, 27). Quindi: chi è più grande? L’apostolo maschio che si faceva servire a tavola o la donna che lo serviva? Allora correttamente la teologa Zarri, al cardinale che ostinatamente negava alle donne ogni incarico sacerdotale visto che lui sapeva con certezza che nessuna donna era presente all’ultima cena, ha replicato: “che non ci fossero donne all’ultima cena è tutto da vedere, ma che non ci fossero polacchi è sicuro" (all’epoca papa era il polacco Wojtyla).

Si pensi poi alla donna anonima, non facente parte del gruppo di 12. In quell’episodio (Mc 14, 3) si afferma che questa donna è entrata nella casa di Simone (v. l’articolo La Resurrezione, n. 502 di questo giornale;

https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-502---28-aprile-2019/resurrezione), il che sottintende che non apparteneva al gruppo dei discepoli più stretti che già erano con Gesù in quella casa e che si stavano indignando per lo spreco (come l’apostolo Giuda, in Gv 12, 4-5); questa donna anonima sta seguendo Gesù, e non si identifica affatto con la comunità dei dodici apostoli. Quindi Marco ci sta dicendo che questa donna sta rappresentando un gruppetto di discepoli, il quale ha capito quello che Gesù sta per fare (sta per morire) ed è pronto a condividere la sua stessa sorte perché in quel gruppo sono ormai in grado di vivere il messaggio radicale che Gesù ha trasmesso con la sua vita, cosa che Pietro e gli altri apostoli non hanno invece ancora introitato (Maggi A.): un altro duro colpo al preteso primato di Pietro.

Cominciamo allora col dire che il termine greco apostolo non indica affatto un titolo, una carica, ma è un’attività. La parola greca ‘apostolo’ si traduce in italiano con ‘inviato’. Tutti i discepoli possono essere qualificati come apostoli quando vengono mandati (come ad es. Paolo e Barnaba – At 13, 4). Pertanto, quando i 12 vanno sono gli apostoli, quando ritornano non sono più apostoli, sono discepoli che hanno terminato la loro missione. Anche Maria Maddalena viene inviata: «va’ e di’ ai miei fratelli che sono risorto» (Gv 20, 17), e per questo incarico San Tommaso d’Aquino (in  Super Evangelium Johannis) riconobbe a Maria Maddalena il titolo di apostola degli apostoli (apostolorum apostola). Papa Giovanni Paolo II (Lettera 15.8.1988, Mulieris dignitatem, 16) ha ripreso l’appellativo di “apostola degli apostoli”: “Maria di Magdala fu la testimone oculare del Cristo risorto prima degli apostoli e, per tale ragione, fu anche la prima a rendergli testimonianza davanti agli apostoli”. Anche papa Benedetto XVI (Le donne al servizio del Vangelo, udienza generale 14.2.2007) è ritornato sul titolo di “apostola degli apostoli”.

E che dire di Paolo? Paolo non era sicuramente uno dei dodici, eppure egli stesso si è auto attribuito la qualifica di apostolo sostenendo di essere stato chiamato e inviato direttamente da Dio (Rm 1, 1; 1Cor 1, 1; 2Cor 1, 1; Gal 1, 1), e anche in questo caso la Chiesa non gli contesta simile qualifica riconoscendo che è un inviato, come Barnaba, dalla Chiesa di Antiochia. Paolo ha predicato per ben 16-17 anni (Gal 1, 18; 2, 1: 3 anni+14 anni) un vangelo tutto suo prima del celebre accordo di Gerusalemme, in piena autonomia rispetto alla Chiesa madre di Gerusalemme retta dalle colonne Giacomo, Pietro e Giovanni (Gal 2, 9), senza consigliarsi con nessuno (Gal 1, 16). Evidente che Paolo non riteneva nessuno di queste tre ‘colonne’ superiore a sé, neanche con Pietro! Secondo Paolo, è apostolo colui al quale è apparso il Signore risorto (1Cor 15, 5ss.), e che perciò poteva rendere una testimonianza diretta dell’avvenuta risurrezione; pertanto egli ha il diritto di qualificarsi pienamente come “apostolo,” visto che si inserisce nella lista di 1 Corinzi 15 come l'ultimo testimone del Risorto. Su queste premesse paoline, questo titolo spettava allora anche a Giacomo, il fratello di Gesù (Gal 1, 19) (e per quel che riguarda i fratelli di Gesù rinvio al n.432 di questo giornale), perché anche a lui, secondo l'elenco dei testimoni della risurrezione stilato in 1 Corinzi 15, 5 ss., era apparso il Risorto. Va ricordato però che Giacomo, rimasto solo a Gerusalemme a reggere quella chiesa, se ha nominato un suo successore, visto che Pietro era rientrato a Gerusalemme non nella chiesa principale, ma in quella secondaria di Maria (cfr. l’articolo Chiesa-istituzione o Chiesa-popolo al n. 462 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numerigiugnoluglio2018/numero-462---22-luglio-2018/chiesa-istituzione-o-chiesa-popolo), al pari di Paolo non rientrava nella cd. successione apostolica dei 12.  Poi Gesù era apparso anche a “tutti gli apostoli nominati nella lista subito dopo Giacomo” (Cor 15, 7), che rappresentano con tutta evidenza un gruppo completamente diverso e assai più vasto di quello dei dodici che già conosciamo e ai quali Gesù era già apparso (1Cor 15, 5). Paolo stesso, ad esempio, chiama espressamente “apostoli” Giunia e Andronico (Rm 16, 7; e poi stila l'elenco di “apostoli, profeti e dottori” in 1Cor 12, 28 e in Ef 4, 11). E poi va anche notato che, secondo Gv 20, 19, Gesù risorto compare nel cenacolo dove si erano barricati i discepoli, e non i soli 12. Dunque non solo i 12, ma anche altri (almeno stando a Paolo) sono definibili come apostoli, e possono essere sia giudei che pagani.

Poi c’è ancora un’altra annotazione da fare e su cui si dovrebbe meditare: oggi il vangelo è monopolio del magistero della Chiesa, succeduto agli apostoli, perché così – dice sempre la Chiesa – avrebbe voluto proprio Gesù Cristo. Invece il Vangelo di Marco ci dice qualcosa di molto diverso, visto che il primo divulgatore della Buona Novella non è un apostolo, non è un sacerdote, ma un lebbroso (Mc. 1, 45), cioè un peccatore anonimo che è stato purificato perché ha semplicemente accolto il messaggio di Gesù. Un laico peccatore comincia a predicare questo messaggio evangelico per tutte le parti. E qual è questo messaggio? Appunto che non è vero che Dio discrimina le persone e allontana da sé gli impuri e i peccatori, ma l'amore di Dio è rivolto a tutti.

E come dimenticare, poi, la samaritana del pozzo che dopo aver parlato con Gesù torna al villaggio e grazie a lei molti samaritani si avvicinarono a Gesù e credettero (Gv 4, 39-42)? Anche lei, dunque, è un’apostola. Anche se alla fine Gesù manda i dodici apostoli (Gv 20, 21), molti altri erano già stati mandati ben prima di loro, per cui essi non sono sicuramente gli unici, mentre solo la loro effettiva unicità potrebbe giustificare la ro pretesa posizione di superiorità e, in seguito, dei loro diretti successori. Forse che i diretti successori di Paolo, di Mattia di Giacomo fratello del Signore non sono vescovi perché non entrano nella famosa successione apostolica? Questo non lo sostiene neanche il magistero.

Se poi ci si focalizza sul verbo “mandare” Gesù, come si è visto, non invia solo i 12 che conosciamo, ma invia (Lc 10, 1) anche i 72, esattamente come ha inviato i dodici (Lc 9, 2: si usa sempre lo stesso verbo aposteilein); e di questi 72 non si dice né che sono apostoli, né che sono discepoli; si dice semplicemente che sono stati nominati (Lc 10, 1). Nominati che cosa? Il testo greco non lo dice, e la traduzione italiana si affretta a dire che sono discepoli designati, non apostoli. Ma ha senso “nominare” uno discepolo? Inoltre, pur avendo avuto i 12 il potere di scacciare gli spiriti maligni e guarire le malattie  (Mt 10, 1; Lc 9, 1), non riescono a scacciare i demoni, mentre i 72 sì. Come mai quasi nessuno di noi ha mai sentito parlare di questi 72, che pur riescono dove i 12 apostoli hanno fallito (Lc 9, 1.6.10 - 10, 17)? E dove falliscono i 12 ci riesce benissimo anche uno che lo fa in nome di Gesù senza neanche essere un vero discepolo (Mc 9, 38-40). Non è che selezionare solo i 12 è allora più congeniale allo schema dottrinale che la Chiesa ha voluto imporre?

Anche perché si deve sottolineare che i numeri nell’Antico e Nuovo Testamento non hanno valore matematico, ma normalmente solo valore figurato (Da Spinetoli O.; Mateos J. e Camacho F.). Ad esempio, 70 erano i popoli conosciuti della terra, perché in Gn 10, 1-32, si racconta come sono nate tutte le nazioni del mondo, e si arriva a 70 (o 72 nella versione tradotta dei LXX) (Mateos J. e Camacho F., Vangelo: figure e simboli) il che sta per tutto il mondo, cioè universalità. Non è perciò sicuro nemmeno che siano storicamente solo dodici gli individui che Gesù ha scelto, come non sono proprio settantadue gli altri inviati. Il numero dodici serve a ricordare semplicemente il mitico numero delle tribù d’Israele (Gn 49, 28): il gruppo dei dodici (l’unico su cui ha messo l’accento la dottrina ufficiale), sta a indicare semplicemente che questi discepoli provengono dalla tradizione ebraica. Secondo la Bibbia, i dodici figli di Giacobbe (o Israele) divennero gli antenati delle dodici tribù di Israele (Gn 49, 28: «Sono queste le dodici tribù d’Israele»; Nm 1, 20ss.), e il numero dodici è stato poi preservato perché ormai simboleggiava l’unità e la totalità del popolo che si riteneva eletto (Mateos J. E Camacho F.). Ma va anche chiarito che la ramificazione di Abramo-Isacco-Giacobbe e dei 12 figli è una giustificazione data quando addirittura tutto questo già non esisteva più, perché sappiamo che la Genesi è un testo scritto dopo il ritorno da Babilonia (nel IV secolo a.C.), dunque è una ricostruzione a posteriori. Ormai delle 12 tribù restavano solo i nomi, perché era cambiata anche la realtà politica e sociale. Come allora i 72 indicano l’universalità pagana, i 12 apostoli che accompagnano Gesù, in ricordo delle 12 tribù israelitiche ormai scomparse, rappresentano semplicemente il nuovo Israele, tant’è che Giovanni nemmeno si cura di darci tutti i nomi, e oltre agli ormai arcinoti Pietro, Giovanni e Giacomo, parla solo di Tommaso (Gv 20, 24) e ovviamente di Giuda Iscariota (Gv 6, 71). Il numero dodici, allora, non rappresenta necessariamente dodici uomini ben individuati ed individuabili che Gesù ha appositamente selezionato con cura per poi farne i suoi successori, ma rappresenta gli appartenenti al popolo d’Israele che, abbandonando la vecchia alleanza, hanno scelto di andare dietro a Gesù. Se in effetti guardiamo con una certa attenzione questa lista dei dodici nei vangeli sinottici, essa ci viene normalmente rappresentata cosi: ci sono tre che sono i più tenacemente ambiziosi e testardi, che vogliono essere i leader del popolo e sono: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono quelli che Gesù prende spesso in disparte con sé nelle sue iniziative, perché, se riesce a convincere questi, il resto seguirà. Poi, l’ultimo è sempre Giuda, il traditore. Gli altri formano la massa degli otto, praticamente anonima; anche se hanno un nome, salvo qualche marginale eccezione, non compiono nessuna attività degna di nota. Non sappiamo neanche cosa hanno predicato dopo la morte di Gesù.

Ma, cosa ancora più strana, gli evangelisti non concordano con precisione neanche sui loro nomi, il che appare inconcepibile visto lo specialissimo rilievo che si vuole poi dare a quelli che sono indicati come gli unici fondatori della Chiesa; qui sembra che il numero simbolico conti più dei nomi: Marco e Matteo indicano fra i 12 Taddeo e Simone il cananeo (Mc 3, 16-19; Mt 10, 3), mentre Luca non indica Taddeo ma indica un secondo Giuda figlio di Giacomo (come anche At 1, 13), e al posto di Simone il cananeo c’è Simone lo zelota (Lc 6, 13-16). Mentre si può sostenere che vi è identità fra Simone il cananeo e Simone lo zelota,[1] più difficile è affermare, come invece fa san Girolamo (ne La perenne verginità di Maria: contro Elvidio), che Giuda di Giacomo, in un altro vangelo chiamato Taddeo, siano la stessa persona perché la stessa persona può essere chiamata con più nomi: è strano, infatti, che nessun evangelista, sempre così oculato nell’uso delle parole, dica che Giuda era detto Taddeo o viceversa, quando si specifica che Simone era detto Pietro (Mc 3, 16; Mt 10, 2; Lc 6, 14), che Giacomo e Giovanni erano soprannominati Boanèrghes (Mc 3, 17), che Simone era soprannominato zelota (Lc 6, 15), che Tommaso era detto Didimo (Gv 11, 16), che Giuseppe venne soprannominato Barnaba dagli stessi apostoli (At 4, 36). Attraverso questo schema sembra che gli evangelisti vogliano semplicemente dire che l’Israele, che ha seguito Gesù, era composto da un piccolo gruppo di seguaci condizionati soprattutto dalla loro ideologia: cioè tutti, da buoni israeliti, pensavano di seguire il Messia trionfatore, tant’è che litigano in continuazione su chi di essi sarebbe stato il più grande.

Oltre al gruppo dei dodici che provengono dalla tradizione ebraica, ci sono – come si è visto,- altri gruppi che fanno parte di altre culture: la folla a volte attratta a volte no, il gruppo dei 70 (o 72) che fa parte del mondo pagano. Sia i 12 che i 70 sono convocati e vengono presentati su uno stesso piano: i 12 non sono più importanti né degli altri inviati, né della folla anonima che pure segue Gesù; tant’è vero che Gesù si rivolge a tutti in maniera individuale, perché quando parla all’intera folla non usa il plurale: «Se qualcuno di voi vorrà (Mc 8, 34), rinneghi sé stesso, sollevi la sua croce e mi segua», dovendo ogni suo discepolo rispondere alle condizioni che Lui sta ponendo. Qui ognuno fa una scelta personale, senza che nelle parole di Gesù ci sia una qualche costrizione, o una qualche predilezione; c’è solo una possibilità paritaria aperta a tutti, ieri come oggi: “Se qualcuno vuol venire dietro a me”. Anche quando si dice che Gesù resta solo, perché la massa se ne va, non rimangono con lui solo i 12 apostoli: perché si dice che “quelli che stavano attorno a lui lo interrogavano, con i Dodici, sulle parabole” (Mc 4, 10).

Che la sequela di Gesù non sia un’esclusiva o un privilegio dei soli 12, come se tutti gli altri fossero personaggi secondari, trova conferma in una serie continua di episodi. Solo per metterne in evidenza qualcuno (oltre al fallimento già visto nel cercar di cacciare i demoni):

(a) i 12 stanno litigando, come sempre, su chi di essi è il più importante. Una volta a casa Gesù, che li precedeva, chiede loro di cosa stavano parlando lungo la strada. È interessante analizzare questo versetto: Gesù, il quale già si trova in casa, li deve chiamare. Si chiama chi non sta accanto (Mc 9, 33-35). Vuol dire che questi apostoli sono (mentalmente) lontani, non stanno vicino a Gesù: se stessero vicino, non avrebbero avuto bisogno di essere chiamati. Vuol dire che li deve distogliere da quella strada che stanno percorrendo da soli, per riportarli nella sua. Il piccolo, che invece Gesù mette al centro, già si trova nella casa: Gesù non lo deve chiamare, né deve andare a prenderlo (Maggi A.). La vicinanza simboleggia la sua adesione incondizionata a Gesù: dunque Gesù indica come modello un piccolo che non solo è l’ultimo di tutti per l’età, ma soprattutto per la sua giovane età è anche servitore di tutti, posto che la parola greca usata (paidìon) significa sia bambinello, sia garzone, sia piccolo servo (Mateos J. e Camacho F.). Va sottolineato che Gesù non prende un bambino inteso nel nostro senso sentimentale, affettivo, romantico, mentre così erroneamente spesso pensano in tanti leggendo il vangelo. Come ha spiegato più volte anche il papa emerito, il termine «i piccoli» nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Dunque Gesù prende uno che nella società dell’epoca era considerato all’ultimo posto: una persona senza diritti, una persona senza importanza, una persona che veniva schiacciata da tutti quanti, e fa vedere che questa è la persona più importante e più vicina a lui (Maggi A.). Molto più degli apostoli.

(b) Gesù sale verso Gerusalemme per scontrarsi con l’istituzione (Mc 10, 32): l’evangelista dice che gli apostoli sono stupiti; ma gli altri che gli andavano dietro hanno paura. Che significa? Qui sta tutta la differenza tra accompagnare e seguire. Accompagnare significa andar dietro fisicamente a Gesù: è quello che stanno facendo i 12. Ma gli apostoli non sono i soli, perché altri stanno seguendo Gesù, e seguire significa avere accettato non solo la figura di Gesù, ma anche il suo messaggio. La reazione di coloro che lo seguivano è di paura, perché hanno già capito tutto. I 12 – nonostante la loro specialissima formazione su cui insiste tanto il magistero - non hanno capito ancora niente, anche se Gesù ha detto ripetutamente che va a morire. Strano, vero? Gli altri che lo seguono e che restano anonimi, hanno accettato il messaggio di Gesù, per cui hanno paura perché sanno che, se Gesù finisce ammazzato, anche loro corrono lo stesso rischio. I 12, ancora sordi e ciechi, si chiedono perplessi come avverrà lo scontro, come Gesù riuscirà a prendere il potere; non hanno le idee ben chiare per cui sono solo sconcertati. Ancora una volta Gesù separa i due gruppi. Questa volta prende con sé tutti i dodici  (Mc 10, 32), e non solo i soliti tre, e comincia a ripetere quello che sta per accadere: e quando Gesù prende qualcuno in disparte, la chiave di lettura è sempre negativa. Più volte si dice nei vangeli che i 12 proprio non capivano (Mc 7, 14-18; Mc 9, 32; Lc 18, 34; Gv 20, 9). Più volte Gesù aveva denunciato che i 12, come tanti altri, hanno orecchi, ma non intendono, hanno occhi ma non vedono. Si è già detto che quando nel vangelo troviamo sordi o ciechi, non sono handicap fisici, ma blocchi interiori. I sordi, in questo caso, sono Pietro, sono Giacomo e Giovanni che lo ascoltano ma non capiscono, essendo tutti presi dal demone del loro Messia davidico, che avrebbe dovuto innalzarli ai massimi livelli di potere. Il gruppo anonimo che segue veramente Gesù non ha bisogno di questa informazione, per cui non viene preso in disparte.

(c) Nel Vangelo di Giovanni appare più volte la figura del discepolo amato (vedasi quanto già detto alla nota 1 dell’articolo Simon Pietro al n.478 di questo giornale). Ci è stato insegnato che questo discepolo si identifica con l’evangelista Giovanni (ancora di recente in tal senso il cardinal Tettamanzi; Schindler P.) e questa identificazione è antica risalendo fino a Ireneo di Lione (Adversus haereses III, 1, 1,). Si giustifica logicamente l’abbinamento sostenendo che i discepoli prediletti erano Pietro, Giacomo e Giovanni che venivano spesso presi in disparte, ma abbiamo ormai visto che essere presi in disparte non è affatto una connotazione positiva. Pietro non può essere il discepolo amato perché nominato nel vangelo assieme a questo discepolo (Gv 20, 2); Giacomo non può esserlo perché martirizzato ben prima della stesura dello stesso vangelo; resta Giovanni, che evidentemente avrebbe mantenuto il silenzio sul suo nome per modestia. Al contrario, come è stato fatto notare dal matematico ateo Odifreddi, si dovrebbe sostenere che Giovanni doveva essere gravemente ammalato di protagonismo e narcisismo cristico se oltre a presentarsi nel proprio vangelo come il discepolo prediletto di Gesù, pretende anche di essere stato il primo ad aver accolto la sua chiamata, il primo a essere arrivato al suo sepolcro vuoto ed aver capito tutto, eccetera, eccetera.

Finalmente, soprattutto dopo il concilio Vaticano II, si è cominciato seriamente a dubitare che il quarto evangelista sia una sola persona, e che il quarto evangelista possa essere il discepolo prediletto, e oggi buona parte della dottrina ritiene che il discepolo prediletto corrisponda semplicemente al prototipo dei discepoli, nel quale ogni lettore può riconoscersi[2].

Il punto essenziale è che non solo non si dice mai che questo discepolo è apostolo, ma soprattutto non ha nome, per cui non è lecito identificarlo, così come non si deve identificare nessun personaggio anonimo (si pensi alla prostituta perdonata, ai fedeli seguaci anonimi, o al lebbroso primo divulgatore della Buona Novella di cui si è parlato sopra). Ogni qualvolta manca il nome, l’evangelista vuole figurare un personaggio rappresentativo ideale, nel quale ogni lettore, ogni ascoltatore si può identificare. Allora è chiaro da una parte che identificando il discepolo prediletto con Giovanni si svilisce l’importanza di questo personaggio; dall’altra, quando si dice che questo discepolo è amato da Gesù, non significa che egli è il prediletto, il cocco di Gesù. A differenza dell’islam, dove Maometto è l’amato di Dio, non ci sono discepoli “privilegiati”, visto che l’amore è la normale relazione che Gesù ha con tutti i suoi discepoli. Ad esempio, ancorché l’espressione “amato da Gesù” sia stata riferita nel Vangelo di Giovanni a Lazzaro (Gv 11, 3), nessuno si è sognato di identificare il discepolo amato con Lazzaro. L’evangelista ci vuol solo dire che quello è il modello di discepolato: colui che accoglie pienamente Gesù, gli è intimo nel seguirlo e nel donarsi come lui. Ma allora cosa si deve dedurre? Che non sono i 12 apostoli, seppur identificati con il loro nome, il massimo della sequela, sì che non necessariamente da quei dodici deve derivare la classe dirigenziale della nuova Chiesa.

È sconfortante anzi notare come i 12, che ci vengono presentati nell’insegnamento come i più intimi e veri seguaci di Gesù tanto poi da elevarli a unici veri rappresentanti di Cristo, sorvolando su tutti gli altri discepoli, nei vangeli collezionino di continuo figure meschine: i dodici non capiscono proprio il messaggio di Gesù perché sono ancora immersi nella loro religione. Al contrario, il gruppo che proviene dal mondo pagano, al di fuori della legge mosaica, ha capito per primo. Nuova dimostrazione del perché si è detto che i vangeli ci stanno dicendo che più uno è immerso in una atmosfera religiosa e più gli è difficile comprendere il messaggio di Gesù e seguirlo. Più uno è lontano dalla religione e più e facile capire e seguire Gesù (Maggi A.). E siccome i vangeli sono sempre attuali, questo vale ancora per oggi. Trarre allora la conclusione che dai 12 si avrà il massimo della sequela, e perciò dai 12 apostoli deriverà la classe che deve dirigere la nuova Chiesa, dovrebbe suscitare più di qualche dubbio.   

(d) Quando il Risorto si presenta nel cenacolo dove si sono rintanati gli apostoli e tutti i discepoli per paura di fare la stessa fine di Gesù, lo Spirito santo viene dato soffiando su tutti, quindi su tutti i discepoli e non sui soli 12 apostoli (Gv 20, 19-22). Gesù soffia su tutta la comunità esattamente come il Creatore soffiò sul primo uomo che divenne così “essere vivente” (Gn 2, 7): non c’è alcun privilegio particolare per i 12, non c’è alcuna gerarchia piramidale che mette i 12 più in alto.

Quando, nel giorno di Pentecoste, lo Spirito santo scende dal cielo e si posa sotto forma di lingue di fuoco su tutti, non è che Pietro riceve una fiammella più grande, in modo da poter essere individuato visivamente  come capo del gruppo (At 2, 2-4).

(e) Nell’ultimo capitolo di Giovanni c’è questo gruppetto di sette (fra apostoli e discepoli) – di nuovo rappresentativo della prima comunità che segue Cristo, - che prima cerca di pescare da solo, su iniziativa di Pietro, e non pesca nulla; poi fa una pesca ricca dopo essere stato rimandato in acqua dal Risorto. Dopo la pesca Gesù, che ha già preparato il fuoco, invita tutti con un: “Venite a mangiare”. L’evangelista ci sta dando un’indicazione dell’eucaristia diversa da quella degli altri evangelisti, ma prendere il pane e distribuirlo indistintamente a tutti richiama l’eucaristia perché vengono usate le stesse parole adoperate dagli altri evangelisti per l’ultima cena. Di più: mentre nella traduzione italiana della CEI si mantiene il passato remoto per mantenere la giusta consecutio temporum (Gv 21, 9-13 “Allora Simon Pietro salì sulla barca e trasse a terra la rete… Gesù disse loro: “Venite a mangiare”…Gesù prese il pane e lo diede loro”), ma così dà l’impressione di una fatto storico ormai passato, il testo greco passa inopinatamente dal passato remoto al tempo presente (“Salì dunque Simon Pietro e trascinò la rete… Gesù dice loro…prende il pane e lo ”). Di nuovo, non si tratta di un grossolano errore grammaticale da parte di uno scrittore poco istruito: non ci sono errori di questo tipo nei vangeli. L’evangelista fa presente che ogni volta che Gesù si incontra con la sua comunità rinnova gli stessi gesti; ogni volta, quindi ieri come oggi, in ogni tempo, in ogni comunità, quando Gesù si manifesta si fa pane e si comunica come alimento di vita. Questo è il significato dell’eucaristia: un amore ricevuto da Dio, che viene accolto e si trasforma in amore comunicato per gli altri, perché quanti lo accolgono e lo assimilano, siano poi capaci di farsi a loro volta pane, alimento di vita per gli altri, diventando tutti figli dello stesso Dio  (Maggi A.).

Anche in questa prima comunità viene rimarcata la stessa distanza dal centro del cerchio (Gesù) fra apostoli e discepoli; non c’è una gerarchia piramidale: più in alto gli apostoli, sotto gli altri discepoli, ancora più in basso la gente comune. Non c’è nessun primato, neanche per Pietro che è lì presente.

(f) Sostiene ancora la dottrina ufficiale che la Chiesa cattolica ha sempre e dovunque interpretato frasi del tipo «chi ascolta voi ascolta me, e chi disprezza voi disprezza me» (Lc 10, 16; analogo Mt 10, 40; analogo Gv 13, 20 di cui ho parlato nell’articolo Schiava del duemila, al n.500 di questo giornale) come applicabili solo ai successori di Pietro (papi) e ai successori degli apostoli (vescovi riuniti in un concilio ecumenico). Dunque, anche da questa frase si ricaverebbe che Gesù ha dato solo al magistero della Chiesa l’autorità di insegnare a nome suo (Ottaviano P.; Biffi G.). Ora, leggendo le frasi inserite nel contesto, si nota innanzitutto come il passo di Matteo sia riferito a tutti gli apostoli senza mettere in particolare rilievo Pietro, visto che il cap. 11, 1 prosegue con: «Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni ai suoi dodici discepoli», e non con “Quando Gesù ebbe terminato di dare queste istruzioni a Pietro e agli altri”. Il testo di Luca, invece, non fa riferimento affatto agli apostoli, bensì ai 72, visto che il capitolo 10 inizia proprio con l’invio dei 72, e il capitolo 11 inizia con il loro ritorno: «I settantadue tornarono pieni di gioia». Perché gioiscono? Perché erano riusciti a cacciare i demoni, cosa che invece non era riuscita ai dodici. Quindi, l’interpretazione della Chiesa cattolica che assicura il monopolio ai successori dei dodici apostoli sarà anche infallibile, ma viene anche qui messa in dubbio dal testo lucano.

Né si può sostenere che questa è comunque una norma di fede perché creduta sempre da tutti. È solo il magistero a dire che porta avanti idee credute da tutti, visto che, fra questi tutti, pochi sono stati interpellati. E i protestanti, e gli ortodossi, che non hanno mai creduto all’infallibilità del papa, non fanno parte di questi tutti? Da dove, allora, si ricava che tutti i cristiani hanno sempre creduto a questa affermazione di autorità esclusiva e infallibile nell’insegnare? Al più si potrebbe dire che diventa norma di fede ciò che è stato creduto e affermato dall’istituzione gerarchica vaticana, ricordando però che l’istituzione ha cercato poi di imporre con la forza questo suo credo, come tutte le sue altre norme di fede, dimenticando che la fiducia della gente si conquista, non si estorce. Nel processo a Galileo Galilei, il cardinal Bellarmino sentenziò che affermare che la terra gira intorno al sole è un errore come affermare che Gesù non è nato da una vergine. Questa era una sua solida convinzione. A quel punto, neanche Galileo Galilei osò più contraddire l’istituzione, per non finire bruciato come Giordano Bruno, che invece aveva mantenuto la sua posizione. Immaginarsi come altri di minor peso del Galilei avrebbero osato contestare una qualsiasi norma di fede in cui “tutti credevano”. In realtà s’imponeva dovunque, sempre e a tutti la regola che doveva essere creduta! E se oggi sappiamo per certo che a sbagliare sul sole è stato Bellarmino, perché non possiamo avere quanto meno il dubbio che lui abbia errato anche sulla verginità di Maria? (Cfr. l’articolo La verginità della Madonna, al n. 433 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199997---dicembre-2017/numero-433---31-dicembre-2017/la-verginita-della-madonna), e su tante altre cose, imponendo che tutti credessero?

Aver fede è inteso da tanti come accogliere la verità di una dottrina, il che però non cambia il mondo, né nel bene, né nel male. Allora forse aver fede dovrebbe essere più correttamente inteso come dedicarsi con il cuore a una persona o cosa considerata preziosa, pronti a impegnarsi per essa, eventualmente a fare sacrifici, nei casi estremi anche quello della vita, come ha fatto Gesù. È questo, infatti, il tipo di fede che si professa quando si dice “credo in Dio…in Gesù”, ma i più non ne sono consapevoli (Lenaers R.) (cfr. quanto detto nell’articolo Cosa è la fede? al n. 498 di questo giornale, https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-498---31-marzo-2019/cosa-e-la-fede).

In conclusione, innalzare i 12 apostoli ad unici e veri discepoli di Gesù, unici legittimati quindi a proseguire in suo nome il cammino di fede, è una convinzione che per Bellarmino sarebbe stata sicuramente solida, ma che oggi fa sorgere più di qualche dubbio non essendo così inconfutabilmente evidente come ci han voluto far credere.

Teniamo presente che ogni autorità preferisce che nessuno si ponga dei dubbi, perché solo chi ha dubbi si pone delle domande, e solo chi si pone delle domande può scoprire che quanto detto dall’autorità non è sempre coerente e convincente.

 

Dario Culot

[1]Marco parla di Simone il Cananeo. Il suo Vangelo è scritto in greco, ma questa – “zelota” - non è una parola greca. Marco non dà alcuna spiegazione al riguardo, mentre spiega che boaneges (altra parola non greca) significa figli di tuono. La parola “cananeo”, in aramaico, significa “zelota”. Questa viene ritenuta un’altra prova che Marco scrive per i romani, ed era poco saggio coinvolgere Gesù con gli zeloti. Ciò suggerisce anche che questo vangelo fu scritto in un periodo in cui il termine zelota era ben conosciuto e assai poco apprezzato a Roma, cioè dopo la guerra giudaica (Connoly P., The Jesws in the time of Jesus, ed. Oxford University Press, Oxford e al. (GB), 1994, 94). Furono infatti gli zeloti a dar inizio alla guerra giudaica, raccontata da Giuseppe Flavio, assalendo la Fortezza Antonia e trucidando la guarnigione romana.

[2] Schnackenburg R., Il Vangelo di Giovanni, ed. Paideia, Brescia, 1977, P.I, 121 ss.; Brown R.E., Introduzione al Vangelo di Giovanni, ed. Queriniana, Brescia, 2007, 208 ss., dove si riconosce che questo discepolo deve essere stato mosso in modo particolare dallo Spirito Santo, e l’autore del IV Vangelo non è una sola persona, ma una scuola particolarmente imbevuta dello spirito del discepolo amato. Fabris R., Giovanni, ed. Borla, Roma, 1992, 73; Mateos J. e Camacho F., Vangelo: figure e simboli, ed. Cittadella, Assisi, 1997, 109 s.; Wengst K., Il Vangelo di Giovanni, ed. Queriniana, Brescia, 2008, 776; Maggi A., Il mandante, ed. Cittadella, Assisi, 2009,  37s. Ravasi G., Il discepolo amato figura del vero credente in Cristo, “Famiglia Cristiana”, n.46/2013, 116. Bortuzzo A., Giovanni e la sua opera, relazione tenuta a Trieste il 13.3.2012.