Ma a Pietro era stato riconosciuto questo primato?

Jacopo Pesaro, vescovo di Pafo, presentato a san Pietro da papa Alessandro VI,

Tiziano, 1503-1506, 

Koninklijk Museum voor Schone Kunsten di Anversa 

– immagine tratta da commons.wikimedia.org

Non basta neanche dire che Pietro è capo assoluto della Chiesa perché a lui sono state date le chiavi del Regno ed è stato dato il potere di legare e sciogliere.

Cominciamo col dire che il potere di legare e sciogliere non è stato riservato a Pietro. Dice la Costituzione dogmatica sulla Chiesa - Lumen Gentium § 22, del 21.11.1964 - che: “l'ufficio di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro (cfr. Mt 16,19), è stato pure concesso al collegio degli apostoli, congiunto col suo capo (cfr. Mt 18,18; 28,16-20)”. Prosegue in proposito il documento conciliare: “D’altra parte, l’ordine dei vescovi, il quale succede al collegio degli apostoli nel magistero e nel governo pastorale, anzi, nel quale si perpetua il corpo apostolico, è anch’esso insieme col suo capo, il romano Pontefice, e mai senza questo capo, il soggetto di una suprema e piena potestà su tutta la Chiesa sebbene tale potestà non possa essere esercitata se non col consenso del romano Pontefice.”

Risulta dunque da queste righe che il Concilio Vaticano II, al posto della monarchia assoluta del papa riconosciuta col Concilio Vaticano I, sembrerebbe aver optato per una diarchia: il papa può esercitare la potestà suprema sulla Chiesa liberamente, ma da solo; il collegio dei vescovi può, a sua volta, esercitare la suprema potestà sulla Chiesa, ma solo col consenso del pontefice, che quindi ha di fatto in mano un potere di veto.

Siamo di fronte a un ennesimo caso in cui lo Spirito Santo, che doveva ispirare i partecipanti del Concilio, sembrerebbe essere stato piuttosto disattento: dal punto di vista giuridico è una grossolana e colossale fregnaccia definire come ‘suprema’ una potestà il cui esercizio resta subordinato al consenso di una diversa potestà. Potestà suprema significa che, al di sopra di quella, non c’è altra potestà che possa interferire. Se al di sopra esiste ancora un’altra potestà capace di frenare o inibire la prima, questa prima non è potestà suprema, ma subordinata; al di sopra dell’autorità suprema non può esisterne un’altra. Qualsiasi giudice d’appello, se avesse trovato scritto in una sentenza di primo grado quello che ha osato scrivere il Concilio, avrebbe fatto coriandoli di quella sentenza per “evidente e manifesta illogicità della motivazione.”

Siccome siamo di fronte a un obbrobrio giuridico, ed i partecipanti al Concilio non erano sicuramente né ignoranti, né sprovveduti, si deve logicamente pensare che l’evidente tentativo di una parte dei vescovi di ridurre l’assolutismo del papa sia in realtà abortito per l’opposizione di altri vescovi (o forse dello stesso papa di allora): di fronte al gruppo che voleva affermare la potestà suprema collegiale, ha prevalso il gruppo che voleva mantenere intatto il potere assoluto del papa, ma la minoranza è riuscita a far inserire un frase minimale nel testo finale.

Che vi sia stato un forte contrasto è dimostrato palesemente anche dal Dossier del Catechismo olandese [1]. Richiamandosi al Concilio Vaticano I, i teologi mandati da Roma per discutere con i riottosi olandesi che nel loro Catechismo non sembravano aver riconosciuto il primato romano, lamentavano proprio che questi ultimi riconoscevano che il Papa è il maestro che indica il cammino, un primus inter pares (primo fra i pari), ma non gli riconoscevano il primato supremo: infatti, nel Catechismo olandese ormai in circolazione, mancava significativamente la parola ‘giurisdizione,’ che vuol dire il potere di comandare. Gli olandesi avevano replicato che dire che il Papa è al di sopra dei vescovi ed indica qual è la direzione è ancora di più dell’espressione meramente tecnica di giurisdizione. Naturalmente anche questa è una fregnaccia giuridica perché la giurisdizione (cioè il potere di decidere con effetto obbligatorio) è ben diverso e ben di più del potere di indicare il cammino. D’altra parte, se gli olandesi affermavano di aver riconosciuto il più, perché si rifiutavano di riconoscere il meno, visto che il meno resta sempre compreso nel più? Così, giustamente, aveva già osservato nell’immediatezza dei fatti il giornalista ex magistrato Augusto Guerriero. Dunque, si può dedurre che il Catechismo olandese ha messo una prima pietra su cui appoggiarsi un domani per tentare di scalzare la potestà assoluta del papa di Roma. E sono ormai passati più di cinquant’anni.

In conclusione, volenti o nolenti, ancora oggi solo il papa ha l’autorità suprema nella Chiesa, e siamo ancora di fronte a una monarchia assoluta anche se molti cattolici non digeriscono questo principio. Il curioso è che la nomina di un monarca assoluto è fatta nel conclave seguendo un procedimento democratico (con tanto di schede, di maggioranza e minoranza), ma poi questa momentanea democrazia viene estromessa dal resto della vita della Chiesa, ove il Buon pastore governa evidentemente solo un gregge di pecore: e il concetto di gregge fa pensare ad un’abulica rinuncia ad ogni iniziativa che non sia quella del pastore (Zarri A.), chiaramente sempre superiore alle pecore.

Una cosa però, mi sembra, si deve a questo punto far notare: nessun apostolo è stato costituito “pastore.” Non è neanche un caso che, mentre tutti i capi popolo succeduti a Mosè si erano fregiati del ruolo di pastori del proprio gregge, del proprio popolo (2 Sam 7, 7) – titolo cui ancora oggi la Chiesa si richiama per giustificare il primato di Pietro (Lumen gentium 22) -,  nei vangeli l’unico pastore è Gesù. Gesù non ha detto agli apostoli che li avrebbe fatti pastori, ma pescatori di uomini (Mt 4, 19). Chi pesca in mare un pesce, e lo tira fuori dell’acqua, lo fa morire; ma chi tira fuori dell’acqua una persona la salva. Il pastore guida la vita del suo succube gregge, il pescatore dà una nuova vita alla persona che annaspava e stava per affogare (Maggi A.). Insomma, oggi siamo prigionieri della concezione monarchica assoluta, ma sicuramente all’inizio non era questo il sistema organizzativo che oggi ci viene presentato come fosse stato così concepito dallo stesso Gesù Cristo.

Ma c’è ancora di più: quando lo Spirito Santo è disceso il giorno di Pentecoste, non è disceso per primo su Pietro, perché le stesse fiammelle sono discese contemporaneamente su tutti; ogni fiammella era distinta dall’altra, e quella di Pietro non era più grande delle altre. Questo vorrà pur dire qualcosa. Credo che voglia significare che lo Spirito Santo, nella sua pienezza, nella sua intensità di vita, viene comunicato a tutti in ugual misura. E neanche oggi, allora, ce l’ha più il papa e meno i vescovi, meno i preti e meno ancora i laici (Vannucci G.). Questa piramide, secondo cui lo Spirito Santo ce l’ha di più il papa, di meno i vescovi, di meno ancora i preti, di meno ancora i laici, se l’è inventata la Chiesa cattolica.

Che la Chiesa non debba avere una struttura piramidale trova conferma anche nel Concilio Vaticano II (n.26 Lumen Gentium) dove è affermato che si deve intendere la Chiesa fondamentalmente come una comunità di eguali, di credenti, di seguaci di Gesù, nella quale occupare un posto o l’altro perde importanza di fronte a questa comune dignità. Sono le comunità locali a dare consistenza alla Chiesa universale, non il contrario, giacché Cristo è veramente presente in tutte le legittime assemblee locali dei fedeli, le quali, aderendo ai loro pastori, sono anch’esse chiamate Chiese già nel Nuovo Testamento. Come ricordano i protestanti, per confutare il primato papale, anche il potere di intercedere presso Dio è riconosciuto ad ogni gruppo di “due o tre riuniti” nel nome di Gesù (sempre Mt 18, 20), passo che controbilancia e abolisce di fatto ogni posizione privilegiata sia della Chiesa cattolica che di Pietro. La Chiesa cattolica deve allora vivere in circolarità e orizzontalità più che in verticalità piramidale. Tutti ne sono corresponsabili, ognuno a partire dal suo carisma e dal proprio posto, anche i laici e anche le donne (P. Casaldàliga e José M. Vigil).

Se però quest’idea venisse accettata, tutta l’organizzazione della Chiesa cattolica dovrebbe cambiare radicalmente. Evidente che la gerarchia continua ad ignorare il Vangelo dove si parla del Figlio dell’uomo venuto per servire e non per essere servito ( Mt 20, 28 ) (Mc 10, 35-45) (Lc 22, 24-27). Come detto il mese scorso, la Chiesa ha messo al centro la Religione ed ha emarginato il Vangelo, perché gli uomini di Chiesa si sono assai presto affezionati al potere (Castillo J.M.), più che al servizio.

Inoltre, si può ricordare che ai piedi della croce non c’era neanche un apostolo (Gv 19, 25-30). Ed è proprio sul Golgota, ai piedi della croce, che forse è nata la nuova comunità. Gesù indica una continuità fra la madre (simbolo dell’Israele fedele) e il discepolo senza nome [2] che gli è sempre stato vicino: la nuova comunità procede da quella vecchia, ma non sono contemplati in quel momento gli apostoli, che sono tutti scappati, barricandosi poi in casa per paura di essere catturati. La comunità nasce con le persone che sul Golgota sono presenti e si sono dimostrate pronte a fare la stessa fine di Gesù: di Pietro, dunque, neanche l’ombra [3].

In conclusione, han ragione gli ortodossi a dire che siamo noi occidentali gli eretici, quando pretendiamo il primato del nostro papa, perché così starebbe scritto nel vangelo di Matteo. La Chiesa occidentale ha utilizzato a suo favore un’unica frase (per di più dandole una particolare interpretazione: cfr. l’articolo Tu sei Pietro, al n. 479 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-479---18-novembre-2018/tu-sei-pietro), quando tutte le altre le sono contro, tant’è che i vescovi orientali non sono mai stati impressionati dal richiamo a Matteo 16, 18 [4].

Sempre secondo l’insegnamento ufficiale, fra i vescovi ed il papa ancora oggi sussiste lo stesso rapporto che già esisteva fra gli apostoli e Pietro. Dando per scontato che Pietro cercava di primeggiare nel gruppo dei 12, dobbiamo dare però risposta a due domande: 

1) questo primato gli era stato riconosciuto dagli altri apostoli?

2) In caso positivo, Pietro aveva fatto valere questo suo primato? 

La risposta mi sembra decisamente negativa per entrambe le domande. In primo luogo non risulta dai vangeli che Gesù abbia mai detto agli altri apostoli che, in caso di dubbi o contrasti, avrebbero dovuto tutti far riferimento a Pietro, perché lui era il nuovo capo: eppure questa sarebbe stata la via più semplice ed esplicita per chiarire davanti a tutti che Pietro era stato nominato capo supremo di tutta la Chiesa. Anzi, Gesù ha detto proprio il contrario: “ma voi non fate così, e nessuno fra voi si faccia chiamare maestro, padre o capo” (Mt 23, 8). Questo punto è talmente chiaro che non può dar luogo a dubbi, per cui non sembra possibile smentire in proposito i protestanti e gli ortodossi, i quali hanno sempre negato che nella Chiesa vi possa essere un capo supremo terreno, un vescovo dei vescovi (come aveva parimenti negato il concilio di Cartagine e Papa Gregorio Magno).

Inoltre, sicuramente le comunicazioni non erano così facili come oggidì. Se, come sostengono gli indiani, san Tommaso era arrivato fino al sud dell’India (tanto che ancora oggi la maggior parte dei cattolici indiani arriva dallo Stato del Kerala [5], e si professano cristiani da duemila anni, al pari di noi), come avrebbe potuto contattare Pietro? Da una parte, in mancanza di contatti, san Tommaso nemmeno poteva sapere se qualcuno dei suoi insegnamenti si ponesse in contrasto con quello che sostenevano altri apostoli; dall’altra, anche se avesse avuto sentore di qualche contrasto, non avrebbe saputo dove trovare Pietro (che al pari degli altri apostoli era diventato un apostolo itinerante [6]), né avrebbe saputo come contattarlo. Lo stesso dicasi per Bartolomeo e Taddeo che, secondo la tradizione, sarebbero arrivati fino in Armenia, poi diventata il primo Stato al mondo interamente cristiano. Nemmeno risulta, dagli atti pervenutici, che gli apostoli s’incontrassero almeno periodicamente per stabilire regole di condotta comuni. Quindi tutti autonomi.

In ogni caso, san Paolo (che, come abbiamo visto, non era neanche uno dei dodici apostoli, ma che ciononostante è diventato un pilastro della Chiesa) [7] si è sempre bellamente infischiato del primato di Pietro: egli, che si appoggiava alla comunità di Antiochia, vedeva nella chiesa di Gerusalemme tre colonne: Pietro, Giacomo e Giovanni (Gal 2, 9), e non un capo unico. Verso la metà degli anni 50 d.C. Paolo aveva fondato varie comunità in Turchia. Poi erano sopraggiunti altri predicatori da Gerusalemme, forse inviati in missione da Giacomo (non l’apostolo, ma il fratello di Gesù) ormai unico capo di quella Chiesa, che avevano in parte modificato quello che Paolo aveva insegnato, ribadendo la necessità di osservare la Legge mosaica, mentre Paolo ne aveva sostenuto la abrogazione [8]. Di fronte a questa intrusione la reazione di Paolo era stata veemente [9], non accettando che i suoi convertiti si lasciassero sedurre da una propaganda giudaizzante la quale esigeva il rigoroso rispetto della Legge [10]: «Mi meraviglio che passiate così in fretta da Colui che vi ha chiamati alla grazia di Cristo ad un altro Vangelo… Ma non ce n’è un altro, bensì soltanto alcuni che vi sconvolgono e vogliono sovvertire il Vangelo di Cristo. Ma se anche noi o un angelo del cielo vi predicasse un Vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!» (Gal. 1, 6 ss.) Sia cioè scomunicato. Dunque Paolo, con quel caratterino che aveva, spara a zero contro i giudeo-cristiani, troppo legati all’ebraismo, per i quali, se Gesù è il Messia davidico, tutti devono far parte del popolo di Israele, e per questo devono prima farsi circoncidere e obbedire alla Torah. I predicatori giudeo-cristiani erano venuti a completare – secondo il loro punto di vista -  il vangelo di Paolo, visto come incompleto: sostenevano che per un cristiano di origine non israelita non era sufficiente il solo credere in Cristo, ed era indispensabile ricevere anche la figliolanza di Abramo attraverso la circoncisione e l’osservanza della Legge; e questi erano i valori non negoziabili di allora. Avranno probabilmente anche detto ai Galati che Paolo non era neanche apostolo, mentre loro erano di chiara discendenza apostolica (da Pietro e Giacomo), per cui non c’era da credere al suo vangelo non avendo lui neanche mai visto Gesù. Ecco perché Paolo comincia la sua replica chiarendo che lui non è apostolo per mezzo di uomo: non Gesù uomo lo ha chiamato nel gruppo, ma il Signore risorto lo ha fatto apostolo (Gal 1, 1). La sua polemica è mirata contro chi sostiene che la circoncisione è necessaria per l’esistenza cristiana perché la fede cristiana sarebbe solo un completamento della Torah. In questo modo Paolo sta affermando, che il cristianesimo non è una diramazione giudaica. Con Paolo, dunque, la relazione piuttosto sfumata fra il giudaismo e il cristianesimo (presente nella Chiesa madre di Gerusalemme), raggiunge la definitiva separazione. Ecco perché si sente spesso dire che Paolo è il vero fondatore del cristianesimo. Per Paolo, infatti, questo insegnamento dei predicatori sopraggiunti era tornare alla schiavitù della Legge, perché con l’arrivo del Figlio di Dio tutto era cambiato. Ora, dire agli ebrei che chi obbediva alla Legge mosaica era in realtà uno schiavo equivaleva a bestemmiare. Per Paolo, invece, gli ebrei erano come i pagani: sottomettendosi alla Legge erano schiavi degli elementi del mondo (Gal 4, 8).

Nessuno era in grado di osservare tutta la Legge, che conseguentemente inchiodava sempre tutti al peccato e il peccato prendeva appunto forza dalla Legge. Anche gli ebrei, come i pagani, vivevano dunque nell’angoscia perché non era loro permesso vivere serenamente, come figli liberi di Dio. Inoltre, per la Bibbia, Abramo aveva avuto il dono della discendenza con Isacco, sfociata nei giudei. Paolo, invece, fa ricadere i giudei nella linea della schiava Agar (diventata madre di Ismaele con un’operazione che oggi chiameremmo di “utero in affitto”) e solo i cristiani derivano dalla libera Sara. Quindi non c’è possibilità di recupero; c’è ormai una separazione definitiva fra ebrei e cristiani: aut-aut (Gal 4, 23-26), o si è schiavi o si è liberi.

Ma per restare nel tema, è abbastanza ovvio domandarsi come mai questa feroce intolleranza verso coloro che egli considera non allineati, senza aver prima neanche interpellato Pietro, visto che il magistero insiste nel dirci che Pietro era fin dall’inizio il capo supremo di tutti gli apostoli e a lui si doveva obbedienza? In realtà Paolo non si è mai curato della potestà suprema di Pietro e non l’ha mai riconosciuta, essendo assolutamente sicuro che lui solo era il detentore esclusivo del vero messaggio da trasmettere, tanto da auto qualificarsi appunto “apostolo non per mandato di uomini, ma direttamente di Gesù Risorto” (Gal 1, 1), il che significa che doveva rispondere direttamente soltanto a Dio, e non ad altri uomini [11], men che meno a Pietro. A questo proposito Paolo aggiunge senza falsa modestia: “Il vangelo da me annunziato… non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo”. In Gal 1, 16-17, Paolo afferma sempre a chiare lettere di non aver consultato nessun uomo, di non essere andato a Gerusalemme a consultare nessuno degli apostoli (men che meno questo povero Pietro tirato per la giacca dalla Chiesa cattolica), prima di iniziare la predicazione in mezzo ai pagani. Anche papa Benedetto XVI ha riconosciuto che in Galati 1, 11-17 Paolo vuol mettere in risalto l’autonomia del suo incarico apostolico, che non deriva dall’autorità altrui, bensì è conferito dal Signore stesso [12]. Quindi, lo stesso papa emerito indirettamente nega piena validità alla tesi del primato petrino secondo cui tutti, anche Paolo, avrebbero dovuto riconoscere che Pietro era una realtà da consultare e da “vedere” per poter essere nella linea di autenticità dell’insegnamento apostolico [13].

Questa totale autonomia di Paolo, autonominatosi apostolo e ministro di Gesù Cristo (Rm 15, 16), ha anche ulteriori interessanti conseguenze in punto sacerdozio. Che Paolo abbia presieduto all’eucarestia nelle comunità da lui fondate appare scontato: se all’inizio era lui solo a evangelizzare i pagani, non c’erano altri che potessero presiedere allo spezzare del pane. Ma allora la domanda è: chi gli ha dato l’autorità? Da chi ha ricevuto l’autorizzazione? Non certo da Pietro, Giacomo, o Giovanni, per i motivi appena visti. Quindi traballa non poco la tesi che solo il religioso consacrato in base alla successione apostolica (vescovi e preti da loro delegati) [14], è legittimato alla celebrazione eucaristica [15].

Ma tornando ai Galati, si può capire perché Paolo vedesse l’innovazione portata ai Galati dai nuovi predicatori di Gerusalemme che venerano la Torah, come fumo negli occhi. Paolo ha parlato della Legge in maniera spregiudicata, ciò che conta è lo spirito, è la fede, è la libertà. Ma questa esperienza liberatoria proclamata da Paolo rischia di diventare vertigine, per cui si possono capire anche i Galati, i quali riconoscevano che non sarebbe stato poi così male poggiare su una solida e sicura base religiosa come quella offerta dai giudei: avere a disposizione riti puntuali, regole chiare e precise, tradizioni di lungo corso dà sempre una bella sicurezza. E forse non a caso questa è stata una parte dell’insegnamento di Paolo che è stata depotenziata col tempo: anche il cristianesimo ha alla fine preferito leggi, regole, e riti perché la troppa libertà è pericolosa è [16]. I Galati pensavano che aggiungere le basi sicure dei nuovi predicatori fosse un miglioramento dell’insegnamento di Paolo. Invece Paolo riteneva che i Galati stessero rinnegando la Buona Notizia da lui proclamata; per Paolo si stava spacciando la Legge per Vangelo, così che Cristo diventava un mero rincalzo della Legge.

Sempre nella lettera ai Galati (Gal 2, 2) Paolo afferma di essere andato a Gerusalemme quale libero collaboratore, cioè come uno che va a un colloquio di chiarimento coi suoi pari, e non nella veste di subordinato a Pietro. Di più: quando Paolo va a Gerusalemme ad incontrare Giacomo che gli ricorda come lui stia insegnando un cristianesimo diverso (At 21, 20-22), i due si guardano bene dal deferire la soluzione a Pietro. Neanche Giacomo (il fratello di Gesù, e su cosa s’intenda per fratello vedi l’articolo I fratelli di Gesù al n. 432 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199997---dicembre-2017/numero-432---24-dicembre-2017/i-fratelli-di-gesu), allora, riconosceva questa supposta supremazia di Pietro: anzi, diciamo pure che avendolo scalzato dalla dirigenza della comunità locale, Giacomo (presiedendo il concilio di Gerusalemme con funzioni più importanti di Pietro) prenderà da solo la decisione finale al concilio, senza sentirsi subordinato a Pietro. Il tutto era iniziato con Paolo che professava l’abrogazione della Legge mosaica, mentre Pietro, pur fra vari tentennamenti, era invece un giudeo ancora fedele alla Legge. Su questo punto Paolo parla di un vero e proprio scontro avuto in precedenza con Pietro: “quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché evidentemente aveva torto” (Gal 2, 11).

Ma non è stata la Chiesa a insegnarci che chi non si sottomette al papa è già scismatico? Quindi Paolo si è comportato da scismatico nei confronti del papa Pietro! Così, del resto, la pensavano anche i missionari giudei arrivati fra i Galati, evidentemente inorriditi dalla mancata osservanza della Torah. In realtà, nell’occasione dello scontro, Pietro aveva avuto un atteggiamento piuttosto ambiguo: aveva cominciato a mangiare con i gentili, ma giunta sul posto la commissione da Gerusalemme (il Sant’Uffizio di allora), si era prontamente ritirato standosene da parte: evidentemente non voleva aver grane. Quindi Paolo contrappone il comportamento colpevole di coloro che, come Pietro, tornano ad osservare la Legge, al comportamento corretto di coloro che non le si sottomettono, e ripongono la salvezza solo nella fede in Gesù Cristo [17]. Altro che sottomissione all’evidente supremazia di Pietro! Non per niente, anche i cattolici devono riconoscere che la più grande obiezione alla supremazia di Pietro è l’opposizione di Paolo [18] il quale non lo ha visto mai come suo superiore e si è schierato decisamente contro di lui.

In Gal. 2, 7, Paolo rivendica la piena autonomia nell’andare a predicare fra i pagani, mentre a Pietro era al più riservata l’area degli ebrei (Paolo parla di non circoncisi e di circoncisi) [19]. È ovvio che, una volta confermato il rapporto di fratellanza con i gentili, cioè i pagani non ebrei, si pose il problema anche per i cristiani giudei di contravvenire alle regole della Legge: ad esempio vigeva per il giudeo il divieto di sedere a tavola con un impuro infedele: come poteva esserci una comune eucaristia? Scontato, quindi, che Paolo insegnasse un cristianesimo diverso da quello di Gerusalemme di Pietro e Giacomo, riservato ai soli ebrei: fin dall’inizio, dunque, non si è affatto creduto da tutti, dovunque e sempre alle stesse norme di fede. Fin dall’inizio la Chiesa non era quel monolite unico in cui tutte le comunità seguivano lo stesso cristianesimo. Perché stupirsi allora se anche oggi vi sono nella Chiesa tendenze diverse?

E Pietro? Abbiamo già visto nell’articolo Tu sei Pietro (al n. 479 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-479---18-novembre-2018/tu-sei-pietro) come questo apostolo non abbia mai rivendicato per sé una posizione di supremazia. Non resta che richiamarci a quanto detto in quell’articolo.

 

Dario Culot

[1] Il Dossier del Catechismo olandese, ed. Mondadori, Milano, 1968, p.236 ss. 

[2] Si è più volte detto che, quando il personaggio viene raffigurato senza nome, esso sta a indicare tutta la categoria: ognuno di noi, che si trova in quella stessa situazione, può identificarsi con lui o con lei (cfr. l’articolo Simon Pietro al n.478 di questo giornale). 

[3] E, a proposito, richiamo quanto detto nella parte finale dell’articolo Le fonti storiche addotte a favore del primato petrino a Roma sono traballanti dell’ultima domenica di agosto, per ricordare che, nella Chiesa degli inizi, i fedeli avevano il potere di rimuovere i vescovi indegni. Ma allora c’è da chiedersi: fuggendo, tutti gli apostoli non si sono comportati indegnamente come il vescovo Basilide che era stato proprio per questo rimosso? 

[4] Secondo Küng H., Infallibile? Una domanda, ed. Queriniana, Brescia, 1970, 126,  il passo Mt 16, 18 sarebbe stato richiamato per la prima volta da Tertulliano, nel II secolo, e non già per Roma, ma per Pietro in persona. 

[5] Quando alla fine del 1400 i portoghesi, con Vasco de Gama, arrivarono in Kerala, trovarono circa un milione di cristiani. Naturalmente, non avendo avuto nessun contatto con Roma, il loro cristianesimo era in parte diverso da quello elaborato nel corso di oltre un millennio dalla Chiesa d’Occidente. 

[6] Solo Giacomo a Gerusalemme è stato un apostolo con residenza stabile (Schindler P., Petrus, ed. Sat, Vicenza, 1951, 578). Ma venne presto ucciso.

[7] Anzi, secondo autorevoli studiosi egli è stato il continuatore, il vero erede e l’ampliatore del Cristianesimo (Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio, ed. Rizzoli, Milano, 1969, 80). 

[8] Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio, ed. Rizzoli, Milano, 1969, 159 e 133.

[9] Augias C. e M. Pesce, Inchiesta su Gesù, ed. Mondadori, Milano, 2006, 85. Vedasi la stessa dura reazione anche in altre lettere per altre comunità: ad es. Fil 3, 2-3. 

[10] Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio, ed. Rizzoli, Milano, 1969, 159 s.: lo spirito giudeo in quella comunità era così ostinato che stentava ad accettare il pasto comune (= la comunione) con gli ex infedeli, sì che molti fratelli (anche allora esistevano i cristiani tutti di un pezzo) cercavano di celebrare il pasto prima che giungessero i gentili (cioè i non ebrei), con i quali non volevano proprio mischiarsi. Però alla fine del II secolo, i cristiani giudaizzanti furono posti nell’elenco degli eretici, con una completa inversione di posizioni, poiché adesso i cristiani gentili qualificavano come eretici coloro che, in passato, erano stati i loro giudici (Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio, ed. Rizzoli, Milano, 1969, 161). 

[11] Come si è visto  nell’articolo  Il primato petrino non fu contestato all’inizio? di due settimane fa (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-520---1-settembre-2019/chissa-se-il-primato-petrino-fu-contestato-agli-inizi-della-chiesa), anche san Cipriano dirà lo stesso quando afferma che nessun vescovo può giudicare od essere giudicato da altri. 

[12] Ratzinger J-Benedetto XVI, Gesù di Nazareth, ed. Libri Oro Rizzoli, Milano, 2008, 343.

13] Così, invece, Malnati E.,“Simone detto Pietro “nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress  FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 11.

[14] Benedetto XVI, Luce del mondo, ed. Libreria editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2010, 210.

[15] È noto che la questione del ministero è la ragione principale per cui le chiese evangeliche non sono, secondo la visione cattolica, propriamente chiese, ma semplici comunità ecclesiali (vedi quanto detto nell’articolo Il vescovo, al n. 506 di questo giornale, https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-506---26-maggio-2019/il-vescovo).

[16] Si pensi alla fine fatta fare ai montanisti, cui si è fatto cenno nell’articolo  Se le fonti storiche a favore del primato petrino romano sono traballanti, al n. 519 di questo giornale (https://sites.google.com/site/ilgiornaledirodafa500/numero-519---25-agosto-2019/se-le-fonti-storiche-a-favore-del-primato-petrino-romano-sono-traballanti).

[17] Castillo J.M., Simboli di libertà, ed. Cittadella, Assisi, 1983, 306 s.

[18] Kenrick F.P., The primacy of the Apostolic See vindicated,  ed. Murphy J. & Co., Baltimore, 1855, 75.

[19]Anche se questa divisione è più astratta che reale: Pietro, infatti, andrà a predicare anche ai gentili (ad Antiochia e a Roma); Paolo inizia sempre la sua predicazione presso le sinagoghe, anche se la cosa, per lui, spesso finisce male.