L’amore e la legge

La coppia - disegno di Rodafà Sosteno

Dentro di noi scava a fondo il fiume carsico dell’Alterità.

Noi siamo Altro, ma non vogliamo ammetterlo. La ricerca di identità, di “chiarezza” – come spesso si esige anche nei rapporti interpersonali -, vorrebbe azzerare l’irriducibilità del nostro essere a noi stessi, al nostro proprio perimetro individuale.

Perché, ben prima di vederci specchiati negli Altri – i tanti Altri -, noi siamo Altro. E questa alterità, che ci attraversa, molto ci inquieta. Fino a soffrirne, a starci male.

Forse l’invito (per alcuni “comandamento”) evangelico ad amare gli altri come noi stessi è anche esortazione a farci carico della nostra Alterità senza sconti o fughe. Eppure il tema potrebbe diventare scivolosamente intellettuale mentre le sue dimensioni sono concretissime e verificabilissime.

Al largo di Lampedusa, anzi proprio nel suo porto, si è compiuta l’apparizione dell’Alterità nostra a rischio di naufragio. Non accettiamo di immedesimarci con quegli Altri, ci è insopportabile il solo pensiero. I volti consunti da una vita affidata alle onde non offrono alcuna chiarezza, piuttosto complicano tutto. Riferisco di vicenda tutta mia, ma effettivamente la mente comincia subito a vagolare per mettere assieme quattro calcoli e ad esigere coordinate precise per me: mi trovo in Italia, ho un lavoro, ho una famiglia, una casa, un’automobile, sono bianco, religioso, conscio dei miei diritti ed obblighi, la privacy tutela anche le mie eventuali zone d’ombra, è tutto a posto. Non sono un fuggiasco in arrivo per mare dall’Africa senza nessuna certezza su nulla. Posso tranquillizzarmi.

Ma è proprio così?

Qualche dubbio viene se proviamo a sostituire il termine “alterità” con la parola “amore”. Perché allora, per quanti tentativi possa fare, mi accorgo che, mentre auspico di mancare ogni incontro con la mia alterità così inquietante, mi auguro invece di incappare ad ogni piè sospinto nell’amore così bramato. Che però è indubbiamente Altro da me. Io da amare non mi basto. L’amor Dei intellectualis è infatti geniale ossimoro di Spinoza: la mia capacità intellettiva al cospetto del Totalmente Altro e non tanto “totalmente altro” nel senso di completamente diverso, quanto piuttosto perché – per così dire – supremo contenitore di ogni Alterità, anche la più impensabile ed inimmaginabile. L’Alterità di Dio si radica nella mia stessa Alterità. Sfuggendo ad essa, sfuggo a Dio.

Rifletteremo in ottobre sul tema del rapporto tra legge e amore, nel corso della nostra tregiorni che vogliamo organizzare dal 10 al 12 ottobre qui a Trieste.

C’è infatti una dialettica quasi dirompente, almeno in apparenza, tra logiche legislative e logiche, del tutto illogiche, amorose.

E tuttavia torna la domanda: è proprio così?

Finché riteniamo che la legge sia una e una sola – una specie insomma di monoteismo normativo -, la scelta si imporrà inesorabile: o dalla parte sua, della legge, dell’ordine, del contingentamento esistenziale, o dalla parte dell’amore e del suo disordine anarchico.

Se però ammettiamo che vi siano molte leggi e non una sola, molti ordinamenti, molti Paesi legiferanti, molte legislazioni anche confliggenti, molte applicazioni diverse di quella presunta unica legge, allora l’amore sembra non cozzare più in maniera così violenta con gli assetti disciplinari, perché essi non hanno l’ultima e definitiva parola sulla nostra vita. C’è appunto Altro.

Lo stato più prossimo alla debolezza che proviamo quando cerchiamo amore è quello della malattia. L’amore guarisce, sana, solleva, dà speranza, ma rende anche fragili, insicuri, celebratori dell’istante e non del passato o del futuro. L’amore è tutto qui, adesso, da farsi. Urgente. Come un intervento chirurgico. Come una terapia che non si può rinviare.

La Capitana Carola infrange la legge, dicono. Ma perché lo fa? In nome di che cosa? In nome di un’altra legge superiore a quella violata o in nome di qualcos’Altro?

Spesso ci capita di pensare che la politica non abbia nulla a che fare con l’amore, che fascismo e antifascismo, ad esempio, siano tiritera di pochi schifiltosi incapaci di affrontare la rozzezza ed il cinismo dei giorni comuni. Quel “così è” che magari il turpiloquio vorrebbe interpretare assai meglio, con ogni adeguatezza e opportunità, per farci ben capire, naturalmente, quanto dura e ingrata sia la vita. La “liturgia del quotidiano” avrebbe dunque le parvenze di una stanca trafila di riti frusti di senso, raggrinziti, compulsivi senza consapevolezza.

Ed invece la “liturgia del quotidiano” è politica poiché ad un tempo – forse anche presuntuosamente – vorrebbe sfidare e la legge e l’amore. La legge, perché accetti di parzializzarsi, di parcellizzarsi, di rendersi multiforme, di non poter certo prevedere tutto, di doversi accontentare di limiti e interpretazioni. L’amore, perché accetti la propria debolezza, perché ammetta di essere evocazione di Altro, perché sappia sanare proprio mentre ferisce, non in un momento, o in un contesto temporale, successivo.

Carola ha forse agito in nome di Dio? Inutile girarci attorno, è domanda da far tremare e la risposta esita perché interpreti della volontà di Dio preferiremmo non conoscerli e non doverli intrattenere.

Però – se è lecito dirlo – c’è Dio e Dio. Il Dio pubblico trionfatore e legislatore etico ed il Dio delle coscienze, del silenzio, delle liturgie povere e nascoste. Il Dio dei rosari sbandierati e il Dio che sta accovacciato in disperazione con i Suoi simili negli spazi della Sea Watch 3.

Quindici numeri ci separano, iniziando da oggi, da quell’appuntamento ottobrino cui abbiamo fatto riferimento. Come uno spazio, né troppo concentrato né troppo esteso, dentro il quale riconciliarci con quell’Alterità che è l’unica a darci speranza.

E che non lasceremo morire annegata.

Buona domenica.

 

Stefano Sodaro