Incontro con una schiava del 2000 - Dario Culot

Armenian woman put up for auction

(Richard G. Hovannisian: Remembrance and denial. Wayne State University Press, Detroit 1998)

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Incontro con una schiava del 2000

di Dario Culot

*

Il giornalista Pearce Fred, che si è a lungo occupato di distruzioni ambientali e ingiustizie nel mondo, aveva scritto già una decina di anni fa (in Peccati verdi, “Espresso,” n. 37/2009, p. 157) che ogni casalinga occidentale possiede una tale varietà di cibo, vestiti, mezzi di trasporto, apparecchiature ed elettrodomestici vari che al tempo dei romani, per riprodurre lo stesso tenore di vita, sarebbero stati necessari seimila schiavi. Oggi questi schiavi sono sparsi per il mondo a coltivare per noi, a cucire i nostri vestiti e a costruire tutti gli oggetti che poi noi compriamo a basso prezzo. La nostra impronta è gigantesca, ma quei tanti altri che lavorano per noi sono invisibili ai nostri occhi e non ci accorgiamo che esistono.

Sostanzialmente l’articolo era un atto d’accusa perché è come se tutti noi occidentali fossimo proprietari di schiavi senza saperlo. Il fatto è che non ci crediamo. Fatto un rapido esame di coscienza ci autoassolviamo pensando che, in fin dei conti, non abbiamo costretto nessuno con la forza a lavorare per noi. Se la maglietta di cotone costa poco, se i pomodori e le arance hanno un prezzo abbordabile, pensiamo di fare un affare, perché non siamo mica noi che facciamo lavorare per un tozzo di pane chi raccoglie quel cotone o quei frutti. Abbiamo forse anche sentito parlare di caporalato, ma mica siamo coinvolti direttamente! Noi non c’entriamo. Perciò, anche se al momento restiamo colpiti da questo tipo di notizie, poi nessuno si sente neanche un filino in colpa per il tenore di vita che conduce; anzi, nessuno di noi pensa di cambiare di una virgola il proprio stile di vita; di più: tutti ci lamentiamo perché di anno in anno vediamo un peggioramento, e tutti abbiamo paura che globalizzazione e immigrazioni riducano il nostro benessere. Abbiamo cioè paura di perdere un mucchio di cose cui siamo abituati temendo di non poterle avere più alle condizioni di prima. Ovviamente non ci tocca il fatto che, gran parte dell’umanità, queste cose non le ha mai avute, mentre i nostri giovani se le sono perfino trovate in mano gratis, senza neanche dover faticare come le generazioni precedenti

Anche i giovani si preoccupano, convinti che le loro ansie siano più gravi e più giustificate di quelle delle generazioni precedenti, e probabilmente hanno ragione. Le previsioni sull’incremento demografico dicono che l’Africa raddoppierà il numero di abitanti entro il 2050, e aumenterà al quadrato entro la fine del secolo. Se succedesse questo, la sola Nigeria avrebbe una popolazione pari a quella dell’Europa e del Nord America messe insieme. La Nigeria è ricca di materie prime (innanzitutto di petrolio), eppure la maggior parte della gente vive lì in povertà. Se anche lo sviluppo economico non andrà in quello Stato di pari passo con l’aumento della popolazione, tutti quei nigeriani – i quali sanno di essere svantaggiati rispetto all’Occidente perché hanno ormai accesso all’informazione, - saranno di sicuro insoddisfatti e soprattutto arrabbiati. Come pensiamo di fermali se vorranno emigrare e venire da noi? Non basterà informarli che i nostri porti sono chiusi per loro. Tanto più che loro saranno giovani nel pieno vigore della loro forza, mentre noi occidentali saremmo molto più vecchi e malandati, sia mentalmente che fisicamente.

Anch’io facevo parte di questa maggioranza che si chiamava fuori, o semplicemente non pensava a questi problemi. Poi, come spesso succede, sono i fatti che illuminano le parole, ti costringono a pensare e ti fanno capire il significato di quello che avevi letto cento volte senza averlo realmente mai capito.

Nel mio caso si è trattato di un bellissimo viaggio fatto tempo fa in Sud America, sulle Ande, insieme a mia moglie: storia, folklore, cultura, contatti con varie comunità locali. Un viaggio vero, di quelli che oggi si inquadrano nel cd. turismo responsabile (che è entrare in punta dei piedi nelle altrui culture), e che ti arricchiscono. L’ultima settimana abbiamo scelto di passarla in una missione sperduta fra i monti per annusare l’atmosfera, per vedere di persona, per conoscere veramente stando a contatto con a gente locale.

Sarò anche bravo a fare il turista responsabile, ma lì ho fatto una pessima figura come “uomo” (non c’entra se credente o non credente, di destra o di sinistra). In teoria avevo anche letto che la solidarietà richiede di farsi carico di quelli che l’intreccio del caso (qualcuno lo chiama Dio) mette sulla nostra strada, ed in un viaggio di turismo responsabile ero anche pronto a dare una mano in questo senso; ma nessuno mi aveva avvisato che, spesso, il tuo prossimo attraversa la tua strada con tale velocità che, o fai subito quello che devi fare, o perdi per sempre l’attimo fuggente, e poi è troppo tardi.

------

Avevano suonato alla porta della missione, e sono andato ad aprire perché mi trovavo per caso vicino alla porta. Era una bambina con quel tipico cappello che indossano tutte le donne andine. Mi ha detto una sola parola: “Pan.” Sinceramente sono abituato a gente che chiede denaro, ma mai nessuno mi aveva chiesto un pezzo di pane. Preso così alla sprovvista ho detto: “Entra!” (¡Pasa!), ma lei è rimasta immobile sulla porta, guardandomi con quegli occhi da donna adulta perché lì tutti i bambini hanno già lo sguardo da adulto, anche quando sono bambini.

Ero appena arrivato alla missione, e sentendomi ospite sono andato a chiedere lumi in cucina. Là, una volontaria laica mi ha detto che il pane non lo davano a nessuno; che già così arrivavano almeno dieci bambini al giorno, e che se avessero dato il pane ad uno solo, avrebbero poi avuto una fila interminabile alla porta per tutto il giorno.

Sono tornato dalla bambina in attesa alla porta e le ho detto che non c’era pane, anche se in cucina ce n’era una cesta piena, e lei si è allontanata abbassando lo sguardo, senza dire una parola. Mi sono sentito subito un verme. Il giorno dopo, però, quando ho visto che i bambini italiani, figli dei volontari, questo pane anche lo sprecavano, mangiucchiandolo fuori dei pasti, e poi lasciandolo in giro mezzo masticato, mi sono arrabbiato per lo spreco e mi sono vergognato per aver rifiutato di dare un pezzo di pane a una bambina che era sicuramente ben più affamata dei bambini dei nostri volontari; mi sono anche dato dello stupido perché in stanza mia avevo ancora dei cracker, che alla fine della settimana ho lasciato nella cucina della missione prima di partire; e mi sono dato ulteriormente dello stupido perché non avevo neanche chiesto alla bambina come si chiamava, e non sapendo come si chiamava non ho più potuto ritrovarla e rimediare.

------

Ma poi è successo anche di peggio.

Era ormai il momento di tornare a casa. Per scendere alla capitale (dove c’era l’aeroporto) occorrevano circa otto ore di fuoristrada, su un percorso sterrato, spesso una pista appena tracciata, e poi altre otto ore di corriera di linea. Siamo partiti dalla missione su una gip attrezzata ad ambulanza, che riportava al suo villaggio anche una giovane puerpera con la sua secondogenita appena nata nell’ospedaletto della missione. Dopo circa quattro ore di sobbalzi, durante i quali la neo-mamma dava chiari segni di sofferenza fisica, perché, pur non aprendo bocca, si vedeva che ogni scossone le faceva male, siamo arrivati nei pressi del suo villaggio, e ci siamo fermati in un’altra piccolissima missione per una sosta tecnica; siamo scesi per rifocillarci con un caffè ed un minuscolo pezzo di formaggio: era tutto quello che potevamo offrirci. A quel punto, le due volontarie laiche di questa piccolissima missione ci hanno raccontato che questa bella e giovane mammina di 22 anni aveva alle spalle una storia tristissima: di fatto era schiava (esclava) di un 55enne, già sposato, che la usava come “carne fresca”; le aveva impedito di sposarsi, e in più non le passava un soldo per vivere, sì che lei era costretta a mendicare cibo per sé e per la bambina che già aveva; solo a volte riusciva a fare qualche piccolo lavoretto, dove capitava. Purtroppo, dicevano, in casa sua manca una figura maschile e sua madre, da sola, non era mai stata in grado di opporsi e di proteggerla. Ma neanche la legge la tutelava, perché fin quassù la legge non arrivava.

“Ma perché non la prendete qui stabilmente, e non la proteggete voi, se lei non riesce da sola ad uscire da questa situazione?” fu l’ovvia domanda che facemmo.

“Non si può: non siamo in grado di darle un lavoro fisso e non abbiamo spazio per tenerla. Riusciamo a fatica ad ospitare le ragazze della nostra piccola scuola professionale, che vengono anche da villaggi lontani, e fanno ore ed ore di cammino a piedi, da sole, per arrivare fin qui. E poi, questo non è un caso unico: qui ci sono tanti casi uguali al suo, ed è impossibile intervenire su tutti o almeno su vasta scala.”

Torniamo alla gip, e la neo-mamma è ancora lì seduta: a nessuno era venuto in mente, quando siamo scesi, che lei era rimasta digiuna sull’auto, in compagnia di qualche altro occasionale viandante che grazie all’autostop aveva ottenuto un passaggio sulla vettura. La sua casa, nel villaggio, è ormai a pochi minuti d’auto da qui. Ci rimettiamo in moto, e che le parole delle volontarie siano vere lo conferma col suo comportamento la stessa ragazza, perché come ci avviciniamo alla sua casa si mette a piangere. Ma non è quel pianto scomposto, ostentato, capace di irritare un osservatore estraneo, come si vede fare spesso nella nostra area mediterranea. È un singhiozzare sommesso, schivo, e te ne accorgi solo se la guardi. Capisci tutta la sua disperazione solo quando, vicini ormai alla sua casa, incrociamo la sua prima figlia (una bella bimbetta di 3 anni che già esce di casa da sola, come qui fan tutti alla sua età): la voce con cui la chiama esce strozzata ed è rotta dall’angoscia. A pensarci in seguito, è la voce di chi si trova in pericolo e chiede aiuto.

Solo qualche minuto ancora e siamo arrivati. Lei scende, e mentre le lacrime bagnano quel bel volto, ci abbraccia tutti, ad uno ad uno, compresi noi che non l’avevamo mai vista prima e che non avevamo fatto assolutamente nulla per lei. Ed io sto lì come un salame, non sapendo cosa fare, e riesco solo a poggiarle una mano sulla spalla. Oggettivamente non è un grande aiuto, ma non mi viene in mente niente di meglio.

Mia moglie sbotta: “Portiamola via con noi. Giù in fondovalle c’è un’altra piccola missione…non possiamo permettere che quel vecchio le salti addosso questa sera.. non vedi in che condizioni si trova… ha appena partorito.” L’autista suona il clacson, siano in ritardo, e la strada è ancora impervia e lunga.

“E chi ti dice che giù l’accettino?” rispondo io. “Mica possiamo portarcela dietro in Italia. Ma non possiamo neanche restare qui, perché il nostro aereo domani non ci aspetta. Dai! dobbiamo andare, l’autista ci chiama spazientito.” E la lasciamo lì, con le sue due bambine, sapendo un po’ la sua storia, ma senza sapere neanche qual è il suo nome.

Sicuramente ho parlato da persona razionale perché dopo altre ore di viaggio arriviamo giù in fondovalle, e lì ci confermano che neanche loro avrebbero potuto accoglierla, visto che in quella piccola missione accolgono solo bambini, e sono già al completo. Anzi, ce ne sono tantissimi altri che vorrebbero venire, e sono in lista di attesa senza poter al momento essere accolti. Non mi sento però affatto orgoglioso della mia immediata decisione razionale, e mi monta dentro una gran rabbia: innanzitutto contro me stesso, per aver sottovalutato il termine esclava, per non aver voluto fermarmi sul posto e prendere in mano la situazione. Mia moglie ha avuto per lo meno l’impulso giusto: il suo cuore era pronto all’accoglienza. Io, che mi sono sempre reputato capace di prendere decisioni rapide soprattutto quando gli altri non riescono a decidere, non sono stato capace di pensare a niente, e tanto meno di fare qualcosa di utile. Ma questo vuol dire che, nel mio intimo, ero chiuso nel mio angusto “io”, e l’aver tutto sotto controllo in quel perimetro mi dava sicurezza; non ero pronto ad accettare l’incertezza che ovviamente sussiste quando ci si apre all’accoglienza.

------

Una volta in Italia ho provato a scrivere alla missione, proponendo un’adozione a distanza per quella madre e i suoi due bimbi. Dopo un bel po’ di tempo ho ricevuto una risposta gelidamente asciutta. Più o meno il succo era questo: “Facile per te in Europa cavartela mandando un po’ di soldi. Se vuoi veramente fare qualcosa di utile, vieni qui, rimboccati le maniche e datti da fare in prima persona perché qui c’è tanto lavoro da fare. Inviare un po’ di soldi non ti costa grande fatica, vuol dire che quei soldi li hai e ti avanzano; impiegare il tuo tempo qui, mettendoci la faccia e pagando anche di persona (perché qui non tutti gradiscono il lavoro che stiamo facendo a favore degli altri), è molto più difficile e spesso anche più rischioso.”

------

Erano secoli che non mi confessavo, perché per me la confessione non aveva gran senso, o almeno non lo capivo: da quando sono adulto non credo di avere mai fatto volontariamente e gratuitamente del male a nessuno, per cui non capivo di cosa dovessi chiedere perdono a Dio. Solo dopo quell’esperienza credo di aver cominciato a capire qualcosa in più: dovrò confessarmi perché non so darmi pace; dovrò confessarmi perché so che un giorno mi verrà chiesto cosa ho fatto, lassù fra le montagne, per aiutare quelle persone in difficoltà che hanno incrociato la mia strada, in un viaggio che qui da noi abbiamo enfaticamente qualificato come “viaggio responsabile”.

Ci è stato sempre insegnato che il passo di Giovanni (Gv 13, 20: «Chi accoglie colui che io manderò accoglie me, ma chi accoglie me, accoglie colui che mi ha mandato»), va interpretato come obbligo di accettare e obbedire all’insegnamento del magistero: Dio ha mandato Gesù, Gesù ha mandato gli apostoli e quindi i loro successori, e noi dobbiamo obbedire a questi successori. È cioè dottrina di fede che i vescovi siano successori degli apostoli e secondo questo insegnamento, obbedendo ai legittimi pastori della Chiesa s’incontra Dio. Anch’io avevo sempre creduto che questa fosse l’interpretazione corretta, senza per il resto darvi gran peso.

Queste esperienze andine, invece, mi hanno fatto pensare alla parabola del buon samaritano e mi hanno fatto capire qualcosa di completamente diverso, mai pensato in precedenza. Dio ci interpella mandandoci ogni giorno incontro altre persone. Dalla parabola del buon samaritano si ricava il principio che si può essere credenti seguendo Gesù anche al di fuori dell’istituzione Chiesa: il samaritano era considerato non credente anche dall’istituzione ecclesiastica di allora. Già allora, il magistero insegnava che l’essenziale, per evitare il castigo divino, era partecipare alle feste comandate e soprattutto obbedire ai sacerdoti. Il samaritano invece non andava al Tempio, né obbediva ai sacerdoti. Ma quell’episodio accaduto 2000 anni fa, su quel sentiero stretto in buona parte ancora oggi percorribile che da Gerusalemme scende fra le gole del deserto fino a Gerico, continua a ripetersi continuamente anche nelle nostre vite: in ogni istante Dio ci chiama e sta a noi udire, avere gli occhi aperti, non addormentarci nel nostro guscio ovattato di benessere. Sono sicuro che Dio non ci manda incontro degli angeli svolazzanti per entrare in contatto con noi, non ci sussurra di notte nei sogni, non ci manda incontro neanche i legittimi pastori della Chiesa, ma ci manda ogni giorno altre persone, che di solito sono quelle escluse dalla buona società, perché fanno parte dei “piccoli” di cui parlano i vangeli. E noi dobbiamo fare qualcosa per queste persone. Certo, nessuno può farsi carico di tutti! Ma se è per questo, neanche Gesù si è fatto carico di tutti. Ognuno deve semplicemente farsi carico degli altri. “Con tutto quello che hai ricevuto nella tua vita, cosa hai dato?” E gli altri sono quelli che l’intreccio del caso ci mette ogni giorno di traverso sulla nostra strada. Quando avviene l’incontro, e come se Dio ce li avesse messi là. E come se Dio ci dicesse: “ti aspettavo!” Ecco l’incontro con Dio. Così facendo, accogliendo questi “piccoli” che Lui ci manda incontro, accogliamo Gesù, e accogliendo Gesù accogliamo Dio. Con Gesù, Dio è accessibile a tutti: ma lo si incontra per strada, non in chiesa; il culto a Dio lo si rende in strada, condividendo, occupandoci dei problemi degli altri che vediamo, non separandoci dagli altri e rincantucciandoci in chiesa per adorare un Dio lontano che non vediamo. Dunque non si tratta di accogliere gli apostoli e i loro successori (il papa, i vescovi, i preti), ma di attivarsi nel servizio essendo disposti ad accogliere il prossimo. Non si tratta di accettare l’insegnamento di chi sta in alto sulla piramide, ma piuttosto di rimboccarsi le maniche, chinarsi e attivarsi per chi sta più in basso, sotto il nostro gradino, per i tanti signori ‘nessuno’ che non contano niente e non hanno la forza di far valere i loro diritti. E occupandoci degli altri noi stessi ci sentiamo meglio, perché – come diceva Gandhi, - nessun uomo è inutile se allevia la sofferenza di qualcun altro.

Certo che se questo è l’unico modo per essere seguaci di Gesù, e quindi veri cristiani, abbiamo davanti a noi la scalata dell’Everest: quanto più facile è andare a messa la domenica, ascoltare l’omelia, fare la comunione, e usciti di chiesa riprendere il nostro tran tran quotidiano per il resto della settimana. Inseriti nel nostro ambiente, come cozze aggrappate allo scoglio che dà sicurezza, ogni giorno evitiamo con cura di fermarci a parlare con lo straniero che vuol venderci qualcosa o col barbone che ci rivolge una parola o forse solo uno sguardo per strada (e se non lo cogliamo, non cogliamo il suo bisogno nascosto), perché abbiamo mille altre cose da fare e perché questi signori ‘nessuno’ ci fanno paura, ci mettono a disagio per cui sentiamo un senso di istintivo rifiuto. Ma se sarà su queste mancanze che verremo chiamati a rispondere al momento opportuno, e non se abbiamo saltato qualche messa in un giorno di precetto o se abbiamo fatto la comunione per Pasqua (come invece c’insegna il Catechismo di Pio X), come ce la caveremo?

Pensavo che nella mia vita avrei anche potuto commettere tutti i peccati previsti dai dieci comandamenti, e questo non mi dava grande preoccupazione; mai avrei invece creduto – se me lo avessero anticipato - di essere capace di negare un pezzo di pane ad una bambina affamata, e di non muovere un dito vedendo scaricare a terra una schiava, ben sapendo che sarebbe finita come un agnello in mezzo ai lupi. Gli sguardi, di queste due donne, mi sono rimasti conficcati negli occhi e nel cuore. E questo continua ad angustiarmi.

Solo dopo questi traumatici incontri ho anche capito cosa intendeva Marthin Luther King, quando diceva che non si devono temere i pochi figli delle tenebre, ma ci si deve preoccupare dell’ignavia dei tanti figli della luce, che vedono, ma preferiscono fare finta di non aver visto; e se hanno visto non fanno niente, salvo andare a messa e chiedere a Dio di risolvere i problemi che avrebbero dovuto risolvere loro stessi.