Amor di diacone, senza censura

Lettera datata 07.03.1941, scritta da un soldato italiano alla propria famiglia, censurata -

foto tratta da commons.wikimedia.org

Mentre Salvini a Milano si affida al Cuore Immacolato di Maria e cita i papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e mentre qualcuno ha da ridire sulle iniziative di studio dei ragazzi di Palermo la cui professoressa è stata sospesa per due settimane, le sollecitazioni sul tema del diaconato femminile che provengono da un articolo del liturgista Andrea Grillo e dal relativo commento del canonista Pierluigi Consorti inducono a coltivare spazi di silenzio meditativo in cui non collassi lo sdegno etico-politico, ma, tutto al contrario, la passione partecipativa si coniughi al rigore dell’approfondimento e pure all’affetto per la casa in cui si abita, quella cattolica nel caso di specie.

L’articolo di Andrea Grillo è reperibile al link:  

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/donna-e-ministero-da-impedimento-a-risorsa-una-soluzione-inattesa-dal-concilio-di-trento/

Il commento di Pierluigi Consorti al seguente link:

http://www.cittadellaeditrice.com/munera/ordinazione-femminile-sacramento-e-atto-giuridico-parla-il-canonista-p-consorti

Proprio sul diaconato alle donne – forse meglio, “sulle diacone” -, gli studiosi reagiscono davanti ad eventuali tentativi di considerare la questione definita e da archiviare, nel rispetto delle sollecitazioni del Papa che non chiudono affatto la discussione bensì invitano a proseguirla, a sviscerarla nei suoi diversi risvolti, a sbriciolarla nella quotidianità della vita facendola uscire dai volumi riuniti negli scaffali delle biblioteche.

Prendendo le cose con un giro ampio, potremmo proprio iniziare dalle evocazioni paraliturgiche di Salvini che nomina devozioni mariane e ossequi ai papi. Sono costruzioni verbali che rinviano ad atti formali, di cui la religiosità – ma forse pure la religione in sé – si nutre. Gli atti religiosi, cultuali, pure liturgici (benché esista differenza profonda tra culto e liturgia, ma qui doverosamente mi rimetto alla competenza scientifica di Andrea), hanno una prossimità concettuale indubitabile con gli atti giuridici. Anzi, nel diritto canonico, tutti i sacramenti – come perfettamente rileva il Prof. Consorti – sono anche atti giuridici, la cui nozione è rinvenibile al can. 124 del Codice di diritto canonico che testualmente recita: “Can. 124 - §1. Per la validità dell’atto giuridico, si richiede che sia posto da una persona abile, e che in esso ci sia ciò che costituisce essenzialmente l’atto stesso, come pure le formalità e i requisiti imposti dal diritto per la validità dell’atto. §2. L’atto giuridico posto nel debito modo riguardo ai suoi elementi esterni si presume valido.”

L’amico Pierluigi commenta, con riguardo all’ipotesi della ordinazione sacramentale delle donne che il diritto sembra proibire: «Muovere dalle eccezioni giuridiche anziché dalla base concettuale, è come guardare una partita di calcio concentrandoci sull’arbitro. Perciò, se vogliamo riprendere il discorso sull’ordine, dovremmo ripartire dal servizio e non dal sacramento. Siccome il servizio al popolo di Dio non si esaurisce nelle funzioni proprie dei ministri sacri, può essere utile partire dal diritto canonico per aiutarci a rendere più esplicite le funzioni di servizio che caratterizzano gli ordinati rispetto a quelle assegnate a ciascun battezzato.»

La sacertà del ministro ordinato è tutta conseguente all’atto (canonico, giuridico, formale) che è stato posto e che ha costituito un soggetto, obbligatoriamente di sesso maschile, “in sacris”.

Ragionando con un parallelismo concettuale che non sembra poi così peregrino, anche i coniugi – marito e moglie – diventano tali quando l’atto di celebrazione del matrimonio è stato compiuto con le sue formalità previste e richieste, non potendo darsi status di marito e di moglie a prescindere da quell’atto giuridico. Il – più che celebre, per i canonisti – “matrimonio-atto”, davanti al quale nessun rilievo, si riteneva, potesse mai assumere il cosiddetto matrimonio-fatto, cioè la storia concreta di un dopo, ma anche di un prima, l’esistenza cioè di una narrazione di vita matrimoniale, sponsale, declinabile secondo prospettive non solo e non esclusivamente giuridiche. Un tanto almeno sino ad Amoris laetitia che, compiendo qualcosa di inaudito nella storia recente della Chiesa, ha ricollocato le narrazioni di amore al centro della considerazione teologica.

Ma il servizio – di cui il diaconato sacramentale è epiclesi – si sostanzia in atti o in fatti? Perché mentre possono esistere atti invalidi, da accertare come tali, non esistono fatti invalidi. La validità non è categoria propria dei fatti ma degli atti che di fatti consistono.

Viene in gioco la “potestas ordinis”, con i suoi sacri poteri - per appunto - da esercitare, o piuttosto, e dialetticamente, la “potestas charitatis”, dove il potere cede spazio e dinamismo alla potenza terapeutica della relazione, al “potere del medico” che è capacità di assistere, di curare, di comprendere, di ascoltare e, se ve ne sono le condizioni, anche di curare e guarire. Che cosa determina la missione salvifica della Chiesa?

Gli atti formali hanno un substrato, proprio anche giuridico, di natura privatistica. Il contratto, sommo atto di disciplina dei rapporti tra privati, costituisce il paradigma epistemologico di molta parte del diritto canonico codificato, pur senza riconoscere quasi mai tale centralità, anzi rinviando al diritto civile per la sua specifica disciplina. Il can. 1290 è preciso: “Le norme di diritto civile vigenti nel territorio sui contratti sia in genere sia in specie, e sui pagamenti, siano parimenti osservate per diritto canonico in materia soggetta alla potestà di governo della Chiesa e con gli stessi effetti, a meno che non siano contrarie al diritto divino o per diritto canonico si preveda altro (…).”

E tuttavia il servizio – diciamo pure la “charitas” od anche “l’ordo amoris” - sfugge a qualunque incasellamento contrattualistico e privatistico. Si potrebbe forse dire che mentre la religione si compone di atti, giuridici o religiosi, formali o tutti interiori, la fede non può prescindere dai fatti.

La fraternità dunque che cos’è? Un atto o un fatto? La sua concretizzazione sacramentale – il suo divenire, per così dire, “res” – si manifesta dove e come?

Se ritenessimo di assegnare un riconoscimento unico alla materia sacramentale del tutto avulsa dalla storia dei battezzati e delle battezzate, dalle narrazioni delle loro vite, il pericolo di idolatria sarebbe immediato.

La mente corre – impropriamente ma non mi viene di trattenerla – al passaggio di 1 Cor 9, 5. Paolo si domanda: “Non abbiamo il diritto di portare con noi una donna credente, come fanno anche gli altri apostoli e i fratelli del Signore e Cefa?”

Che significa mai una tale domanda? Che ruolo avrebbe questa “donna credente” che resta pure senza nome e che sembra non sottratta ad un rischio di oggettivizzazione?

Le traduzioni sono abbastanza concordi nell’assegnare alla parola “donna” (“ghynè”, in greco) il significato di “moglie” e dunque a sancire un diritto apostolico al matrimonio che tuttavia Paolo decide di non esercitare. E tuttavia se quella “donna credente” designasse invece un tutt’altro ruolo? Un ruolo tale che Paolo non riesce a trovarne codice esplicativo chiaro e definito e senza del quale tuttavia non riesce a concepire alcun ruolo ministeriale neppure per se stesso?

Insomma, fuor di perifrasi: e se quella “donna credente” fosse esattamente una “diacona”? Certo, un diaconato non definibile per atti, né da compiersi per la sua istituzione né da attribuirsi ad esso come competenza propria ed esclusiva, bensì ravvisabile in fatti, in storia, in concretezza d’amore, in gesti?

È appena uscito lo studio di Cettina Militello, intitolato Ripensare il ministero. Necessità e sfida per la Chiesa (Edizioni Nerbini, Firenze 2019), il cui primo capitolo è dedicato all’amicizia tra il vescovo Giovanni Crisostomo e la sua diacona Olimpia. Un amore privato, descrivibile per una serie di atti? No, un amore pubblico, celebrato negli spazi di una ministerialità ecclesiale tutta racchiusa in gesto e narrazione e per questo, solo per questo, rilevante nella liturgia, che diversamente, appunto, sarebbe idolatria.

Per Cittadella Editrice è uscito, in questo mese di maggio 2019, pure lo studio di Pietro Maranesi e Marco Guida su Ideali e forme di governo in Francesco e Chiara d’Assisi, intitolato L’autorità del servo e della madre. Un passo della Regola di Santa Chiara del 1253 (riportato a pag. 190 del volume) relativo ai requisiti canonici della badessa dispone che “Privatis amoribus careat, ne dum in parte plus diligit, in totum scandalum generet. Consoletur afflictas, sit etiam refugium tribulatis, ne si apud eam remedia defuerint sanitatum desperationis morbus praevaleat in infirmis.” La traduzione è abbastanza semplice, la rendiamo più letterale ma anche il più comprensibile possibile: “Sia priva la badessa di amori privati affinché mentre si dedica a qualche sorella parzialmente non si generi uno scandalo di abbandono per tutte. Consoli le afflitte, sia rifugio alle angosciate, perché trionfi vinca la malattia mancando presso di lei la medicina che cura la disperazione”. Tutta una serie di gesti dunque, pur compiuti da chi - una badessa -, è stata posta nel suo ufficio dal solenne atto formale della sua elezione e della sua benedizione liturgica.

Alla fine, che cosa fa la differenza tra pubblico e privato anche nella dimensione ecclesiale, anche a casa nostra? La volontà di non censurare il nostro desiderio di amore, che non può essere amputato, cancellato, letto a metà, né nel senso di ignorare l’attesa che qualcuno si prenda cura di noi, anche della nostra debolezza sino all’infermità, né nella prospettiva di non vedere accolto nella gioia lo struggimento di amore che cerca abbracci e carezze, senza lasciare zone d’ombra, senza sottrarre alla totalità di condivisione, che proprio l’amore postula, anche, ad esempio, le sue concretizzazioni politiche, sociali, di appartenenza.

C’è una fraternità da costruire, ci sono gesti da compiere, ci sono fatti da raccontare e da vivere e, finalmente, ci sono atti da celebrare e codificare, perché la parola del simbolo sia parola di esistenza reale e non di vuoto esistenziale.

Le diacone sono già presenti nelle nostre giornate, ne conosciamo nomi e cognomi, forse si tratta di essere ora in grado di riconoscerle esplicitamente e sì anche giuridicamente. E di ringraziarle.

Il diaconato anonimo di tante nostre sorelle possa essere sacramento, cioè rivelazione. Sarà una benedizione che il diritto potrà solo sancire.

Grazie ad Andrea, grazie a Pierluigi. Continuiamo a cercare.

Buona domenica,

Stefano Sodaro