La resurrezione

Risurrezione dalla morte - Cattedrale di Saint-Jean-Baptiste di Bazas (Francia) - Dettaglio del timpano del portale centrale

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La resurrezione, sperata da molti ma conosciuta da nessuno (come ha scritto Fraijo M), resta il grande problema della fede cristiana. Oggi più che mai vorremmo chiarezza di concetti e non ci piacciono quando sono fumosi, per cui è indubbio che le risposte  approssimative date sulla resurrezione ci lasciano perplessi senza riuscir a convincerci in maniera definitiva. Qui di seguito cercherò di dare qualche ulteriore spunto di riflessione su questo tema così ostico e complesso, senza ovviamente aver la pretesa di poter spiegare tutto.

Si è visto che i Vangeli insistono nel rimarcare l’identità fra il Crocifisso e il Risorto, che continuava a vivere nonostante l’evidenza della sua morte. Però salta immediatamente all’occhio che l’uomo Gesù di Nazareth e il Cristo oggetto della fede della Chiesa non coincidono, perché la risurrezione s’inserisce subito come un cuneo che separa con un taglio netto Gesù uomo dal Cristo glorificato e divinizzato. Se c’è identità vuol dire che l’uomo Gesù non è scomparso, ma non è chiaro cosa sia successo all’uomo che era stato tale fino a quel momento. L’uomo Gesù è forseuscito radicalmente modificato dalla sua risurrezione? L’uomo Gesù, persona umana come noi, ha smesso di essere un uomo ed è stato elevato alla condizione divina? Teniamo presente che nell’antichità era inconcepibile pensare che gli dèi fossero fatti di carne, di sarx [1].

Il magistero c’insegna che il risorto è tornato a collegarsi al suo essere divino preesistente. La resurrezione di Gesù ci è stata spesso spiegata nel senso che Dio, il quale attraverso il Figlio che già preesisteva ha assunto natura umana, dopo la morte riassume la sua natura divina e immortale. Si sostiene che con la resurrezione di Gesù si è avuta semplicemente la conferma di una sua posizione preesistente, che gli avversari non gli avevano riconosciuto in terra (Lohfink G., Gesù di Nazaret).

Altri teologi, però, sostengono che, prima della resurrezione, Gesù non era ancora il Messia, il Figlio di Dio, il Signore, e tale sarebbe diventato solo con la resurrezione (Rm 1, 4); infatti il verbo horízô, che Paolo utilizza nella Lettera ai Romani, significa non meramente «dichiarare», ma «costituire» (Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 2004). Quindi sembra errata la dottrina ufficiale quando dice che horízô va preso non nel senso che Gesù sarebbe divenuto Figlio dopo la resurrezione, ma solo che è stato pubblicamente manifestato come tale: è divenuto visibile quello che prima era nascosto. Se Gesù diventa Figlio di Dio solo con la resurrezione, la signoria per Gesù non è una dignità non riconosciuta e in seguito recuperata, ma costituirebbe una nuova dignità acquistata per la prima volta proprio con la resurrezione (Ortensio da Spinetoli, Bibbia e Catechismo).

Evidentemente siamo davanti a due interpretazioni inconciliabili fra di loro. E a me non sembra ragionevole sostenere che la risurrezione fu per Gesù il passo mediante il quale recuperò la condizione persa con l’incarnazione. Non è possibile dire che passando attraverso la resurrezione, Gesù raggiunse un cambio ontologico del suo essere, in quanto il suo «essere umano» si convertì a quel punto in un «essere divino», rimasto prima annichilito dall’incarnazione. In altre parole, la resurrezione non fu il ritorno alla gloria che Gesù condivideva col Padre prima di scendere in questo mondo. Neanche si può dire che la resurrezione fu il premio che il Padre concesse al Figlio da esibire come suo trionfo sui nemici. Come spiegato ormai più volte, siffatto tipo di affermazioni non sono alla nostra portata perché cercano di entrare e comprendere l’ambito trascendente, che oltrepassa e supera completamente la nostra capacità di conoscenza e di comprensione (Castillo J.M.). Stiamo cioè parlando di qualcosa che non possiamo sapere. E in ogni caso oggi, a noi, il riacquisto della condizione divina non direbbe più niente. Se Dio era Dio, e torna ad essere Dio, ben per Lui, ma a noi non dice nulla.

Tommaso, nell’immediatezza dei fatti, è stato il primo a dire: «Poche storie, fatemi vedere, datemi le prove. Avete detto di averlo visto vivo? Bene, fino a quando io non lo vedo con i miei occhi e non lo tocco con le mie mani non vi credo». È chiaro che, in quel momento, Tommaso stava pensando a Gesù solo come a un uomo. Di sicuro la comunità giovannea conosceva tante persone come Tommaso, per cui Giovanni inserì quegli scettici nella sua storia usando Tommaso come loro simbolo (Spong J.S.). Probabilmente non siamo lontani dal vero se diciamo che, al giorno d’oggi, siamo in tanti a identificarci con Tommaso. Però qui mi sembra interessante richiamare l’attenzione sul fatto che il vangelo non chiarisce se Tommaso ha poi messo le sue dita nel costato di Gesù (Gv 20, 26-29). Questo silenzio (voluto?) è forse un invito a dissociare il vero dal tangibile e indica che la fede non dipende da ciò che possiamo accertare con i nostri sensi (Gounelle A.).

Ma se, seguendo la dottrina ufficiale, la divinità di Cristo, prima rimasta annichilita sotto la sua umanità, torna dopo la morte a riemergere come natura prioritaria, con Gesù che si ricongiunge al Padre nella piena divinità trinitaria, non sarebbe già questa la sua resurrezione? Resurrezione come opposto di incarnazione? No, perché non ci potrebbe essere identificazione fra il Crocifisso (uomo) e il Risorto (Dio). No, soprattutto perché la dottrina ufficiale spiega che Dio, ridottosi a uomo con l’incarnazione, torna ad essere Dio senza smettere di essere uomo. Ne consegue che la resurrezione può riguardare soltanto l’uomo, perché Dio non può essere ovviamente mai morto. In proposito papa Benedetto XVI (in Gesù di Nazareth) conferma che Gesù aveva un’anima umana. Anche secondo l’art. 83 del Catechismo maggiore di S. Pio X, il Figlio di Dio si è fatto uomo prendendo un corpo e un’anima, come abbiamo noi, e l’anima vive in eterno (art. 52), anche dopo la morte. Ciò significa che Dio ha potuto far risorgere solo il corpo carnale di Gesù uomo, perché la sua anima comunque sarebbe vissuta in eterno come quella di tutti gli altri uomini. Ma questo presuppone l’accettazione che viene dalla filosofia greca secondo cui l’uomo è fatto di anima e corpo. Se leggiamo Paolo (che parte dall’unità dell’uomo, e non dal dualismo greco) già si ha una spiegazione diversa (1Cor 15, 42ss.).

Comunque, a questo punto, sorge tutta una serie di domande: una volta che Gesù, Dio preesistente, torna ad essere Dio, non sarebbe più logico affermare che smette di essere uomo per tornare nella divinità? Non sarebbe più logico affermare che l’uomo Gesù viene assorbito nella divinità, e la sua umanità diluita nell’oceano della divinità acquista tutte le caratteristiche della divinità? A che pro dovrebbe restare ancora uomo? Se cioè continua ad essere ancora uomo, quale sarebbe per lui il beneficio del ritorno dell’anima umana nel suo corpo umano? L’essere umano che si fonde in Dio può trarre personale vantaggio, ma se Gesù è già Dio? Se con la resurrezione vive non solo Gesù Dio, ma anche l’uomo fatto di corpo anima, non vi sembra strano che quell’anima dell’uomo Gesù debba amare, possedere (art. 248 Catechismo Pio X), glorificare Dio, cioè sé stesso? Ma, in realtà, fin dall’inizio l’anima umana non gli serviva visto che già preesisteva come Dio, e se si afferma che aveva un’anima è solo per cercar di dimostrare che era uomo come gli altri. Quando però si insegna che Gesù è solo persona divina e non umana (due nature, ma una sola persona divina, dice il concilio di Calcedonia), come può considerarsi uomo perfetto, con corpo e anima, chi non è persona umana e non è nemmeno nato da padre umano? Non è, allora, che Gesù non è mai stato un uomo come gli altri, sì che colui che sembrava un uomo era soltanto una specie di travestimento di Dio camuffato da uomo?

Insomma, quando parliamo di Gesù, stiamo parlando di un Dio che si fece uomo, di un uomo che si fece Dio o più probabilmente non sappiamo di cosa stiamo parlando?

È pacifico che i discepoli, come molti nella folla che avevano ascoltato Gesù, avevano visto in lui solo un uomo. Ma, al tempo stesso, quando meno se lo aspettavano, c’erano momenti in cui si rendevano conto che stavano davanti a qualcuno che dava l’impressione di essere indicibilmente di più di un uomo. Per questo la domanda: ‘Chi è mai costui?’ (Mt 8, 27). Gesù, fra i suoi discepoli e coloro che vissero con lui, provocò quella che è definibile come l’esperienza della divinità: attrazione ma a volte anche timore (Rudolf Otto, Il sacro). I sacerdoti del Tempio no, non avevano mai visto in Gesù la presenza di Dio; era solo un uomo e per questo erano convinti che stesse bestemmiando quando aveva rimesso i peccati al paralitico, sul presupposto che solo Dio può rimettere i peccati (Mc 2, 7).

È altrettanto pacifico che, a partire dalla risurrezione, Gesù cominciò invece ad essere inteso «di natura o condizione divina», sì che la divinità si è sovrapposta all’umanità in maniera tale che i credenti in Cristo oggi pensano facilmente a lui come si pensa a Dio, più difficilmente come si pensa a un uomo. Questo significa che in Gesù Dio ha occultato l’uomo (Castillo J.M.). Per la maggioranza dei cristiani attuali Gesù-Dio continua a prevalere sul Gesù-uomo, sì che, magari senza rendersene conto, nella maggior parte dei cristiani di oggi prevale ancora l’idea monofisita eretica (cfr. l’articolo Gesù e Calcedonia, al n. 449 di questo giornale, https://sites.google.com/site/numeriarchiviati2/numeri-dal-26-al-68/1999992---aprile-2018/numero-449---22-aprile-2018/gesu-e-calcedonia).

Ma c’è da chiedersi: come mai la Chiesa si sente inquieta quando si mette in discussione la divinità di Gesù, mentre è stata essa stessa - affermando che Gesù è solo persona divina ed è privo di padre umano - a insinuare in qualche modo il dubbio che Gesù sia stato veramente un uomo uguale agli altri?

E non basta, perché come rileva argutamente il prof. Castillo, quando si sostiene che la seconda persona della Trinità è scesa in questo mondo facendosi uomo, e una volta adempiuta la sua missione è tornata alla sua condizione divina di sempre, in realtà si sta dicendo che è stato sempre Dio a rivelarci come è Dio. Se Gesù preesistente è disceso dall’alto dei cieli, dalla condizione divina propria ed esclusiva di Dio, la conseguenza che deriva per coerenza logica, è che fu Dio, incarnato in un uomo, colui che ci rivelò Dio, il che è una tautologia, perché l’irraggiungibile Trascendente non lo possiamo conoscere, e allora che senso ha dire che il Cristo preesistente in Dio (il Logos), lui stesso Dio, è colui che ci fa conoscere Dio?

Ma tornando a noi, ci accontenteremmo di comprendere in cosa consiste questa resurrezione. Per i discepoli l’idea è venuta sicuramente da un’esperienza vissuta dopo la morte di Gesù, per cui dapprima nessuno voleva crederci, poi hanno cominciato a credere che l’amore che il loro Maestro aveva vissuto e diffuso sulla terra non era stato annullato dalla sua morte. Siamo in presenza di un’interpretazione che i discepoli hanno dato alla loro esperienza collegandosi a quanto avevano vissuto seguendo il Gesù terreno. Visto che, parlando di resurrezione, ci riferiamo al Cristo che ormai ci trascende senza stare alla nostra portata, per ciò stesso il concetto di Risorto che siamo in grado di concepire dipende inevitabilmente dall’interpretazione che noi stessi diamo alle nostre esperienze di fede.

In Mc 14, 9 (l’unzione di Gesù da parte di una discepola anonima nella casa del lebbroso Simone, con gran quantità di costosissimo nardo) si legge: «In verità io vi dico, dovunque sarà proclamato il vangelo per il mondo intero in ricordo di lei si dirà anche quello che ha fatto». C’è un solo gesto in tutto il vangelo che Gesù chiede che venga ricordato a beneficio di tutti i posteri. L’unico gesto che Gesù vuole che venga ricordato è questo di una donna anonima. Perché? Perché questo gesto è prova della sua resurrezione. Come sarebbe a dire? La resurrezione non è una questione da risolvere a livello storico, non si dimostra come un problema di matematica, ma è qualcosa che si può vedere solo attraverso la fede della comunità: come può la comunità rendere presente Gesù nella storia? Come se fosse un profumo che si espande nella casa e che tutti possono percepire, e questo avverrà solo quando la comunità sarà pronta a spendere la vita per gli altri, in piena imitazione di Gesù (Maggi A.). Pietro e gli altri apostoli faranno propria quest’idea molto tardi, convincendosi ben dopo la morte di Gesù che quest’uomo, immagine e rivelazione di Dio nella sua condizione di essere umano, continua a vivere, sì che Gesù è il Vivente per sempre (Castillo J.M.). Di Gesù, cioè, non resta un mero ricordo destinato a sbiadirsi col passare del tempo, perché il profumo rimane sempre intenso. Oltre al ricordo del passato, i discepoli cominciano a credere fermamente (attraverso la fede) di sentire vicino ad essi la sua presenza, la sua vita che trascende la storia. Nel susseguirsi delle generazioni, la vita di Gesù è rimasta permanentemente valida (l’ha detto non ricordo quale teologo). Gesù non si è affievolito nei ricordi (come avviene con la storia dei greci e dei troiani), ma tutta la sua vita continua ad essere significativamente attuale, continua ad essere presente per gli uomini, non storicamente ma nella convinzione che nasce dalla fede.

Sta bene. Ma noi, che già abbiamo poca fede e non abbiamo vissuto le stesse esperienze degli apostoli, che neanche sappiamo esattamente in cosa sono consistite, come facciamo a convincerci che Gesù è resuscitato e quindi è permanentemente il Vivente vicino a noi? È certo che il permanere del profumo non sempre lo si è sentito nella nostra Chiesa, la quale ha da subito tradito il messaggio di Gesù [2]. Dobbiamo credere perché ce lo insegnano? Ma ci stanno dicendo qualcosa che non corrisponde alla nostra conoscenza del mondo, e non si può credere ad una esperienza così importante per la nostra vita soltanto perché ci viene insegnata o per l'autorità di chi ce lo insegna. Se noi crediamo che Gesù è risorto solo perché ce l’hanno detto i preti, buona notte! con tutto quello che ci hanno raccontato…! Probabilmente ha ragione il teologo Bouttier quando scrive che non si tratta di credere a posteriori alla resurrezione scrutando le origini e tentando di dissotterrare le radici, ma di credere a priori guardando ai frutti, e lasciandosi trasportare dal dinamismo creatore della nuova vita. Dobbiamo riuscir ad annusare questo profumo, non stantio, ma sempre fresco.

Sulla risurrezione ritengo allora si possano dire ancora un paio di cose.

1) Si è affermato nell’articolo sull’Inferno, al n. 467 di questo giornale (https://sites.google.com/site/agostosettembre2018rodafa/numero-467---26-agosto-2018/inferno), e si è ripetuto la settimana scorsa, che la resurrezione non può essere la rianimazione di un cadavere. Aveva ragione il cardinal Joseph Ratzinger quando scriveva nel suo libro Gesù di Nazareth che, se la resurrezione consistesse soltanto nel miracolo di un cadavere rianimato, la cosa oggi non sarebbe di alcun interesse per noi. Non sarebbe infatti molto diversa dalla rianimazione di persone clinicamente morte, grazie all'abilità dei medici.

Dunque non è lo stesso rivivere e resuscitare. Rivivere è un tornare nella storia e, pertanto, alla condizione peritura dei mortali, con tutte le limitazioni proprie dell’umano. Rivivere è tornare a questa vita che già si viveva prima di morire: si va in giro, si mangia, si dorme; tutte cose che il redivivo già poteva fare prima di morire. Ma nei vangeli si dice qualcosa di diverso sul risorto: che può passare attraverso i muri (Gv 20, 19), diventare invisibile a piacimento (Lc 24, 31), e altre cose che certamente non poteva fare prima di morire. Quindi è evidente che il risorto non è un ex cadavere che torna alla sua storia di prima. Resuscitare è perciò un’altra cosa, è trascendere questa vita. Le possibilità date al morto che in vita non aveva (e che nessun vivente ha), implicano necessariamente una forma di vita ed esistenza non più inserita nella storia. La risurrezione deve essere per forza l’inizio di una situazione nuova, radicalmente nuova (Castillo J.M.).

Il concetto di risurrezione che può avere un qualche significato per noi oggi sta nel pensare che, dopo la morte, esiste una nuova possibilità di essere uomo, e quindi una possibilità che interessa tutti e apre un nuovo genere di futuro per tutti gli uomini. Proprio per come ci è stata descritta già nei vangeli, la risurrezione significa potenziamento di vita (non sapendo come descriverla, l’han descritta con la possibilità di passare attraverso i muri), di amore, come la totale ed esauriente realizzazione delle possibilità latenti nell’uomo, possibilità di unione intima con Dio, di comunione con tutte le cose (Boff L.). All’uomo non basta sopravvivere, ha bisogno di dare un senso alla sua vita; l’uomo cerca una pienezza di vita che gli consenta di vivere in equilibrio armonioso. E dove trova questa pienezza di vita armoniosa? Il Vangelo, come detto in altra occasione, ci lancia questo messaggio: nel cuore della realtà, l’armonia piena si chiama comunione con Dio, e ci viene data assicurazione che il male e la morte non possono spezzare questa comunione.

Il Nuovo Testamento poi non dice che Gesù “è risorto”, ma che “è stato resuscitato” (At 3, 15; 4, 9s.; 5, 30; 13, 30; Rm 4,24; 6, 4; 6, 9; 7, 4; 8,11; 8, 34). Non è ovviamente la stessa cosa, perché – come sarà per tutti gli uomini, - Gesù non risorge da solo essendo già Dio, per una forza propria, ma per un intervento da parte di Dio, il quale offre un’esistenza non più inserita nella storia, ma legata al discorso di salvezza definitiva che solo Lui può concedere. La resurrezione di Gesù, e perciò anche la nostra, è una nuova creazione estensibile ad ogni individuo, e permette che il chicco di grano si trasformi in spiga (Gv 12, 24) (Maggi A.).

2) Nel cristianesimo primitivo, non si credeva che i morti sarebbero resuscitati, ma che i vivi non sarebbero mai morti. La resurrezione non è perciò un tornare alla vita dopo averla persa; semplicemente non si muore. In altre parole, per il credente la risurrezione non avviene dopo la morte, ma inizia fin d’ora nella sua vita cambiata dalla conversione (Gounelle A.). Nelle lettere di Paolo troviamo delle espressioni che sembrano strane, del tipo: “Noi che siamo già resuscitati” (Ef 2, 6; Col 2, 12- 3, 1). Come sarebbe a dire che siamo già resuscitati se non siamo neanche morti? I primi cristiani non credevano che i morti sarebbero tornati in vita, ma credevano che i viventi non sarebbero mai morti. Lo stesso dogma dell’Assunzione non specifica se Maria sia morta, ma afferma che è stata ‘glorificata’ nell’interezza della sua persona, anticipando quello che avverrà per tutti. Il dogma, nel suo richiamo a quanto è accaduto a Maria, risponde al desiderio profondo dell’umanità di una vita che non abbia termine con la morte (Valerio A.). Dunque, come Gesù, anche Maria è resuscitata perché era vissuta in modo tale da passare indenne la soglia della morte. Per risorgere, però, dobbiamo aver prima dato adesione alla vita vera, uscendo previamente dalla morte del disamore. Quando uno, nella sua vita terrena, torna disponibile all’amore, è già risorto, perché l’amore è vita vera, e non un mero sentimento. Quando uno torna dentro alla corrente dell’amore, questa è già risurrezione. Lo si vede nella parabola del figliol prodigo (Lc 15, 32): il padre rilancia per primo l’amore già vedendo arrivare da lontano il figlio. Il figlio si espone all’effetto dell’amore: era morto ora non lo è più (Mancini R.).

La prima morte, quella biologica, non viene cancellata. È chiaro che gli altri vedano uno che muore fisicamente, ma chi muore non se ne accorge. Così veniva interpretata la frase di Gesù: “io sono la resurrezione e la vita, chi crede in me anche se muore vivrà e chi vive per me non morirà mai” (Gv 11, 25s.). Gesù non parla mai di resurrezione come un premio al futuro, per la fine dei tempi, ma come una realtà presente, infatti non dice: “chi crede in me avrà dopo morto la vita eterna perché sarà resuscitato l’ultimo giorno” (cfr. Gv 11, 24), ma “chi crede ha già una vita di una qualità tale che è indistruttibile, perché non morirà mai”. In altre parole, questo significa che noi non ci accorgeremo dell’esperienza della morte. Se il Vangelo deve essere una Buona Novella sempre attuale, questa è la buona notizia portata da Gesù.

Chi vive e ha dato adesione a Gesù ha dentro di sé una qualità di vita tale che non farà l’esperienza della morte. Se così stanno le cose, dovremmo dire che la resurrezione avviene nel momento stesso in cui si muore (Castillo J.M.), senza aspettare la fine dei tempi. La vita viene chiamata eterna non per la durata, ma per una qualità tale che quando si incontrerà con il momento biologico della morte fisica la supererà (Maggi A.), portandoci a un livello ottimale. Ricordate la ninfa Calipso, nell’Odissea, che invidiava il mortale Ulisse proprio perché il suo tempo era limitato e ciò che faceva con esso rappresentava una scelta vera? Esser costretti invece a vivere un tempo eterno e noioso potrebbe suonare perfino così spaventoso da far preferire la morte. Noi tutti vogliamo soprattutto una vita più felice, più piena, non più lunga ma noiosamente piatta; la vita più felice e più piena ripaga in profondità una vita eterna ma piatta. Quindi la resurrezione deve portarci a questo: liberazione dalle preoccupazioni, dalle miserie, dalle angosce, dai desideri, dal peccato e dalla morte (Robinson J.A.T., Dio non è così, ed. Vallecchi, Firenze, 1965, 102; Bonhoeffer D., Lettere e appunti dal carcere, ed. Bompiani, Milano, 1969, 252), in una piena felicità.

Ma risuscitano tutti? No, almeno stando alle Scritture. Come si è visto nell’articolo sull’Inferno sopra richiamato, chi non si donato, chi ha vissuto chiuso in sé stesso vivendo egoisticamente non continuerà a vivere, ma subirà la seconda morte e non solo quella fisica che colpisce tutti. Solo vivendo in mondo transitivo, generoso si alimenta una vita su cui la morte non ha potere (Mancini R.). Noi continuiamo a parlare dei morti come fossero dei poveretti, ma il NT (Ap 14, 13) dice che i morti sono beati, cioè felici; anche qui si sta dicendo che la morte fisica non li tocca, ma li introduce alla felicità.

La risurrezione è allora l’inizio di una nuova situazione, radicalmente nuova. Non possiamo dire che consiste in una «divinizzazione» che trascende l’umano, non sapendo cos’è il divino. È forse più congruo dire che la resurrezione è il raggiungimento della pienezza dell’umano e, in questo senso, sarà il culmine della nostra piena «umanizzazione». La cosa più grande che abbiamo come esseri umani è proprio la nostra condizione umana. Tutti siamo in parte buoni e in parte cattivi, ed è nella resurrezione che tale umanità, liberata dalle schiavitù del male, raggiungerà la sua perfezione, emergerà l’umanità liberata dalle inumanità che ci hanno accompagnato lungo tutta la vita. Vivremo beatamente oltre la vita terrena in quella parte di noi che abbiamo donato umanamente agli altri. Così fu per Gesù. Così fu per Maria. E così è e sarà per tutti gli uomini.

Che poi si voglia descrivere questa «piena umanizzazione» come un’ascensione al cielo, una forma di «divinizzazione» o «glorificazione» dell’essere umano, ci può stare. Non lo sappiamo. Però può aver senso usare queste parole, in quanto l’essere umano, per sé solo e per sé stesso, non può raggiungere la totale liberazione dalla sua disumanizzazione: occorre comunque un intervento divino. Sembra allora essere questo il modo più ragionevole d’interpretare e, pertanto, di rendere intellegibile alle persone ciò che la teologia ha da sempre formulato con termini quali la «divinizzazione» o la «glorificazione» (Castillo J.M.).

Dal nostro ambito immanente il massimo che forse si può dire, con più realismo, è che mediante la resurrezione Gesù si converte nella pienezza dell’umano per sempre, nel Vivente definitivo, nel quale la condizione umana raggiunge la sua stabilità per sempre e senza limitazione alcuna. Dire questo è alla nostra portata, perché restiamo nell’ambito dell’immanenza, e significa che Gesù, immagine e rivelazione di Dio nella sua condizione di essere umano, continua a vivere e, pertanto, è il Vivente per sempre, e vive in modo da continuare ad essere l’immagine di Dio e la rivelazione di Dio. Ecco perché la vita di Gesù non è solo un ricordo del passato, ma continua ad essere presente nella nostra storia di tutti i giorni. Gesù è il vivente che trascende lo spazio e il tempo, e proprio per questo possiamo continuare ad ascoltare la sua parola.

Noi siamo abituati a pensare alla morte (e forse anche alla resurrezione) in senso prettamente biologico. Invece lo stesso papa Benedetto XVI (Introduzione al Cristianesimo) ha riconosciuto che la resurrezione di Cristo non è da intendersi in senso biologico, tant’è che gli incontri con Gesù sono apparizioni (cfr. quanto detto la settimana scorsa su apparizioni e illusioni). Morte e resurrezione si possono forse meglio spiegare come due facce della stessa medaglia o, detto in altro modo, passare la porta della morte significa nascere una seconda volta, per una nuova e diversa vita. Anche per Gesù la resurrezione è stata l’inizio di una nuova situazione, radicalmente nuova. La porta che vediamo dalla nostra terra e che dà sull’ignoto la chiamiamo morte fisica. L’altra faccia della stessa porta la chiamiamo seconda nascita o resurrezione. La morte allora non è la fine, ma è un passaggio. Gesù è pienamente umano, tanto da essere morto fisicamente; ma è passato indenne attraverso la morte fisica, svuotandola. Ciò che ci viene promesso è che questa nostra vita non ci sarà rubata dalla morte. E non è una buona novella?

3) Cosa implica per noi, ancora vivi, dire di credere nella resurrezione? Anche Stefano, il primo martire, fu ammazzato quando disse di aver visto Cristo alla destra del Padre (cioè risorto), ma aveva anche appena detto che Dio non abitava nel Tempio, né che l’osservanza della Legge e l’obbedienza imposta dal clero bastava per essere a posto con Dio (At 7, 48-56). Come spiega sempre lucidamente il prof. Castillo, affermare di credere nella resurrezione è un’affermazione ma in contemporanea anche una denuncia. Entrambe le cose sono inseparabilmente unite. Dire che Gesù continua ad essere il Vivente non significa solo credere che resuscitò dalla morte e si trova in cielo continuando così la sua vita  (e questo non disturba più nessuno). Ma se continua ad essere vivo è come affermare che l’uomo finito in croce continua ad essere crocifisso in tutti coloro che ogni giorno vengono ancora crocifissi nella storia, come ha audacemente ma convincentemente affermato Jon Sobrino. In altri termini, dire resurrezione è anche dire che il messaggio di Gesù continua ad essere vivo, il che è come affermare che l’uomo finito in croce duemila anni fa continua ad essere crocifisso ancora oggi in tutti coloro che sono maltrattati e massacrati nella storia (e dire questo disturba molti). Credere alla risurrezione guardando soltanto verso il cielo non è credere nella risurrezione. Solamente quando si situa la risurrezione di Gesù nel contesto storico concreto nel quale si afferma questa fede, solo allora è quando si afferma la fede nel Risorto, che continua ad essere il Crocifisso, vivo nelle vittime di quelli che assassinarono Gesù (Castillo J.M.).

Inoltre, fa notare sempre questo illustre teologo, quando la fede nel Risorto si vede necessariamente associata alla fede nel Crocifisso, si priva immediatamente di argomenti il credente fanatico o fondamentalista che a causa delle sue convinzioni nel cielo si sente autorizzato a uccidere sulla terra (vedi oggi i kamikaze che si uccidono, convinti di continuare a vivere nell’aldilà, uccidendo però altri innocenti; vedi in passato le uccisioni degli eretici da parte della Chiesa).

4) Si è già detto che l’antropologia semitica concepisce l’uomo come unità, non come dualismo di anima e corpo, sì che la vita psichica non è separabile da quella fisica. Quando l’uomo muore non può più pensare. Giocoforza, allora, se si parla di resurrezione, è che vi sia un risveglio anche della vita fisica (Ortensio da Spinetoli, Bibbia e Catechismo). La resurrezione della carne è invece più difficile da concepire quando, con l’eredità greca che abbiamo ricevuto, pensiamo che l’anima sopravviva alla morte del corpo (vedi lo stesso Mt 10, 28, oppure Ap 6, 9), che si riduce in polvere (Gn 3, 19). Comunque, anche se la resurrezione dovesse coinvolgere tutto il corpo, non sappiamo con certezza né come sarà (pensiamo a chi è nato senza una gamba? E se c’è stato un trapianto d’organo, quel cuore sarà del donante o del donato? E Maria, assunta subito in cielo, è salita col corpo di vecchia carico di artrosi o col corpo snello e scattante di fanciulla?), né quando sarà (subito dopo la morte fisica o alla fine dei tempi?). Anche il Catechismo è molto cauto su questi punti (nn.1021ss.). Prima si è data preferenza all’idea della resurrezione immediata, come fosse passare da una stanza a un’altra varcando la soglia della morte fisica, ma anche questa è un’opinione indimostrabile.

5) Se pensiamo agli apostoli come ai testimoni ufficiali della resurrezione di Cristo (così secondo la voce Apostoli in Balz H. e Schneider G., Dizionario esegetico del Nuovo Testamento), dobbiamo tener presente che Maria di Magdala è stata in realtà la prima testimone della gioia pasquale, per questo è anche chiamata apostola degli apostoli (Benedetto XVI, Le donne al servizio del Vangelo, udienza generale 14.2.2007, in www.vatican.va). Però a quel tempo le donne non potevano neanche testimoniare (Ravasi G., I teli e il sudario tra i segni della resurrezione, “Famiglia Cristiana”, n.2/2014, 102; Lohfink G., Gesù di Nazaret) e non dipendeva certamente da Gesù cambiare le norme giuridiche dell’epoca.

Tuttavia il messaggio dei vangeli resta energico: quando Maria di Magdala e le altre donne vanno ad annunziare la risurrezione (Gv 20, 18; Mt 28, 10), il verbo “annunziare” (ἀπαγγέλλω) ha la stessa radice dell’angelo. Perciò gli evangelisti ancora una volta stanno dicendo che la donna, l’essere umano ritenuto per la sua condizione di continua impurità fra i più lontani da Dio, in realtà è il più vicino e ha la stessa dignità degli angeli, e può svolgere il servizio che costituiva un privilegio per gli angeli (cfr. anche l’episodio della suocera di Pietro al n. 478  di questo giornale,https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-478---11-novembre-2018/simon-pietro). Quando verrà dato il giusto spazio alle donne all’interno della Chiesa? Se fosse veramente fondata l’idea che il primato nella Chiesa vada collegato automaticamente alla prima apparizione, allora Maria Maddalena avrebbe dovuto essere papessa, non Pietro. La posizione subordinata della donna nella Chiesa viene da Paolo (1Cor 11, 3.7; 14, 34), non sicuramente da Gesù.

6) Da ultimo, la resurrezione non può essere creduta perché altri ce lo dicono, ma va sperimentata personalmente. Si può credere che Gesù è vivo soltanto quando lo si sperimenta vicino. In effetti i Vangeli non vogliono trasmetterci delle descrizioni storiche, ma delle verità teologiche valide per i lettori di tutti i tempi. La resurrezione di Gesù non può essere stata allora un privilegio per poche persone vissute duemila anni fa, ma deve essere una possibilità per le persone di tutti i tempi. L’evangelista in pratica sta dicendo questo quando scrive: “Volete sperimentare che Gesù è resuscitato? Andate il Galilea sul monte delle beatitudini” (Mt 26, 32; 28, 7.16). Naturalmente non significa fare un viaggio in un posto lontano e andare su quello che viene considerato il monte (delle beatitudini); ma la salita al Tabor, significa metaforicamente cogliere l’occasione per ascoltarsi meglio, per ascoltare il nostro io più profondo, non limitandosi a vivere in superficie: solo vivendo nella pratica e nella fedeltà del messaggio di Gesù, che è concentrato nelle beatitudini, si può fare l’esperienza di Gesù resuscitato. Il che ovviamente non è facile.

Anche il quarto evangelista dice qualcosa di analogo a proposito degli apostoli: «Non avevano compreso la Scrittura, che cioè egli doveva risorgere dai morti» (Gv 20, 9). L'accoglienza della parola del Signore, il vivere questo messaggio radicale nella propria vita, operano nel discepolo una completa trasformazione, e permettono ad ogni seguace di Gesù di avere una vita di una qualità tale che gli fa sperimentare la vicinanza del Maestro nella sua esistenza, come se fosse lì con lui, e quindi risorto. Del resto non per caso il Vangelo di Matteo finisce proprio con questa assicurazione: io sono con voi per sempre (Mt 28, 20), e questo voi comprende in realtà anche tutti noi.

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Per concludere, è evidente che i primi discepoli abbiano vissuto un’esperienza particolare e personale, e questa ha cercato un linguaggio particolare all’interno di una determinata visione del mondo, usando poi una formula sintetica: risurrezione (Panikkar R., La pienezza dell’uomo). Forse è giunta l’ora di sostituire il termine risurrezione con altre espressioni più comprensibili, tipo: pienezza di vita, fusione definitiva con l’amore che è Dio (Lenaers R.). Resta assodato che il chicco di grano si trasforma in spiga solo se ha diffuso amore ai suoi simili lungo il corso della sua vita terrena, ma per diventare spiga deve prima morire come chicco. La morte sembra la fine definitiva per il chicco, mentre in realtà è una nascita ad una nuova vita. Qualcosa del genere si ritrova anche in oriente, in quel vecchio detto zen, per cui ciò che per il bruco è la fine del mondo, il resto del mondo lo chiama farfalla. Questa è la speranza insita nel concetto di resurrezione.

 

Dario Culot

 

[1] Per Celso, Gesù Cristo, un uomo in carne ed ossa, non può essere il Logos divino, perché mai Dio potrebbe farsi corpo, cioè materia. Neanche san Paolo, influenzato dallo gnosticismo, si è interessato al Gesù terreno, carnale, ma solo del Gesù risorto. Porfirio se la prende con gli evangelisti (e soprattutto con Origene), che hanno fatto di Gesù un dio causando con ciò grandi sventure ai seguaci del Maestro.

[2] Se già le prime comunità vivevano in pace – come oggi si vive nella maggior parte delle nostre spente parrocchie – vuol dire che avevano da subito tradito il messaggio di Gesù: la Chiesa era amorfa se non morta, e non era assolutamente il sale della pietanza; la testimonianza dei cristiani non incideva nella società; al massimo ci si limitava ad osservare semplicemente la legge (At 21,20). Ma Gesù è stato assassinato in nome della legge, e proprio negli Atti degli apostoli si legge che, poco dopo, quando un altro (Stefano) ha avuto il coraggio di denunciare il Tempio, anche lui è stato prontamente assassinato (At 7, 58). Se queste comunità non soffrivano la persecuzione è allora perché nessuno vedeva in esse nulla di pericoloso, se ne stavano tranquille e in pace. Dunque, fin dall’inizio non siamo proprio davanti all’età dell’oro della Chiesa.