Cento anni di Adriana Zarri, un anno di Casa di Rodafà, le monache ci salveranno

Incredulità di Tommaso - incisione di William Raddon del 1834 ispirata all’opera di Ludovico Caracci

- foto tratta da commons.wikimedia.org

Angolo liturgico della Casa di Rodafà - foto del direttore

Un anno fa, proprio in questi giorni – il 27 e il 28 aprile 2018 -, si apriva la Casa di Rodafà e si svolgeva, a Roiano, rione triestino, la prima giornata di incontri sul tema “Vangelo e liberazione” (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/vangelo-e-liberazione-28-aprile-2018---i-video).

Ma proviamo a mettere assieme altre memorie, altri fatti, altre date.

Il 26 aprile scorso, l’altro ieri, sono ricorsi i 100 anni dalla nascita di Adriana Zarri.

A Trieste si è poi costituita, alla vigilia di Natale del 2018, l’associazione culturale “Casa Alta” (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/atto-costitutivo-e-statuto-dell-associazione-casa-alta).

Oggi è domenica di Pasqua per le Chiese Orientali che seguono il calendario giuliano.

Si incrociano, insomma, una serie di traiettorie, personali e comunitarie, lungo le quali alcuni rapporti si sono consolidati, altri sono iniziati, altri magari si sono affievoliti, altri addirittura interrotti. In qualche modo appartiene all’onda stessa della vita avvolgere in sé sino a far sparire – almeno in apparenza -, trattenendo, e ridonare, in caduta, un nuovo flusso di corrente che fa riemergere.

È uscito pure il n. 500 di questo nostro giornale e siamo proiettati verso il convegno di ottobre prossimo, sempre qui a Trieste, nella settimana che si concluderà con la Regata Barcolana.

Possiamo già annunciare le presenze di teologi e teologhe quali Andrea Grillo, Letizia Tomassone, Adriana Valerio, Rita Torti. Di vaticanisti e vaticaniste come Francesco Peloso, Gianni Di Santo, Emanuela Provera. Di liturgisti come Stefano Parenti, di storici come Giovanni Minnucci. Di poeti come Gabriele Via e di sociologi come Pietro Piro. Ma altri sono ancora i nomi che stanno confermando la propria presenza proprio in queste giornate.

Vorrei raccogliere la provocazione della domanda di Dario Culot nel suo pezzo odierno: «Quando verrà dato il giusto spazio alle donne all’interno della Chiesa? Se fosse veramente fondata l’idea che il primato nella Chiesa vada collegato automaticamente alla prima apparizione, allora Maria Maddalena avrebbe dovuto essere papessa, non Pietro.» Benché – lo dichiaro in amicizia – non concordi con lui sull’attribuzione a Paolo della posizione subordinata della donna nella Chiesa (preferirei dire “delle donne”, al plurale), tuttavia il tema è fondamentale e mi pare possa trovare in un ambito molto specifico, quello del monachesimo femminile, un abbozzo di risposta tutt’altro che approssimativo anche se per qualcuno forse sorprendente; eppure, se si pone mente all’esperienza ed alla testimonianza proprio di Adriana Zarri, credo intervenga un immediato mutamento di tale perplessità alla luce di una semplice constatazione: il monachesimo femminile è totalmente laico.

Trattasi di una realtà istituzionale del tutto interna alla strutturazione della Chiesa – non solo organizzativa ma anche, come si dice, “teologale” o “ecclesiologica” – ed è allo stesso tempo del tutto laica. Che infatti pure l’abito non faccia il monaco, è adagio persino noioso. E che cosa dunque fa il monaco, o meglio la monaca? La domanda può avere tratti persino di imbarazzo. Che Adriana Zarri scioglieva con la pudica affermazione di un – esito anch’io a scriverlo – “fare coppia con Dio”.

Risalta immediata una contraddizione: e chi si sposa non si mette forse pure “in coppia con Dio”? E chi vive da single? E chi vive un amore fuori da canoni e codici, addirittura in condizioni giuridiche – diciamo così – di clandestinità? E chi vive esperienze d’amore che non riesce a parcellizzare e suddividere, a riporre in cassetti ognuno diverso? In definitiva: esiste un modo di amare che non sia per ciò stesso un “fare coppia con Dio”?

La Casa di Rodafà di proposito contiene una sua evidente contraddizione, che chi viene a starci, od anche solo a visitarla, nota subito: volumi, cioè libri, di autori che sono teologi, canonisti, oppure che sono di area del tutto laica (anche l’Antologia Palatina ha il suo posto d’onore e, forse qualcuno si scandalizzerà, anche la raccolta intera dei fumetti di Manara) e spazi pure, che o sono del tutto consentanei alle normali ambientazioni della nostra vita – una cucina, un soggiorno, una camera, un divano -, o invitano ad entrare in una dimensione esplicita, ma mai affermata come tale – nessun cartello -, di preghiera, sul presupposto che esista e sia imprescindibile una preghiera propriamente laica, pure di chi non ritiene di potersi definire credente. Qualcuno potrebbe concludere: o tutto o niente, dove però il tutto può stare al posto del niente ed il niente al posto del tutto.

La coppia, intesa come metafora di ogni duetto che si integri paciosamente in armonia, qui va volutamente in crisi.

Perché, appunto, “fare coppia con Dio” è tutt’altro che fare coppia come viene comunemente intesa, è attentato al romanticismo tranquillizzante ed anch’esso, ahinoi, codificato nei secoli.

Qui la “coppia con Dio” è disarticolazione, destrutturazione, profumo di incenso che non si può contenere, quadro di Ugo Pierri che non si può interpretare, poesia di Virgilio Giotti che si può leggere solo in dialetto triestino, comprensibile o no che sia.

Adriana Zarri reagiva quasi con violenza – ammesso, probabilmente no, che si possa associare a lei simile sostantivo, diciamo con forza, con potenza - davanti alla consunta retorica di “Gesù sposo dell’anima”. Raccontava della sessualità dei mistici medievali, ribadiva, rimarcava, quasi gridava – giacché gli eremiti gridano con il loro stesso silenzio – che o davanti a Gesù ci si pone la questione irrisolvibile di Dio o si cade in un’altra idolatria, l’ennesima, la più pericolosa per la nostra cultura.

Anche Tommaso, l’incredulo per antonomasia, si mette in strana coppia con il Cristo. Lo tocca, lo tocca nella carne, lo sente nel corpo, eppure non può stare con Lui.

Vi sono esperienze monastiche contemporanee – quelle di Bose, quelle di Camaldoli, quelle di Marango – che possono essere messe accanto alle grandi regole medievali che disciplinano ed ispirano la vita di Ordini monastici femminili tuttora ben presenti, di Benedettine ad esempio, o di Trappiste, o di Clarisse, facendo diventare tale accostamento la cifra di una alternativa laica dentro la Chiesa ma anche di fronte ad essa. Un’alternativa che parla a chiunque nella misura in cui il sacro cessa di essere il luogo di esclusione del profano, bensì suo inveramento, e viceversa.

La storia della nostra Casa di Rodafà, di “Casa Alta”, di questo nostro giornale, non è già scritta, non è ormai segnata. Intende aprirsi, piuttosto, ad ogni novità che pure implichi, se necessario, chiudere una porta ed aprirne un’altra, sempre alla ricerca di “qualcosa” che ceda però il passo a “qualcuno”, “qualcuno” con cui fare coppia in modo assolutamente nuovo, “qualcuno”, “qualcuna”, che non importa se abbia o non abbia il nome di Dio, giacché nulla Gli/Le è estraneo.

Forse è una specie di attesa, di avvento, forse di utopia, forse di sogno. Un impegno di vita ai limiti dell’assurdo? Le monache ci rassicurano e a noi pare dunque d’essere in buona compagnia.

Buona domenica, buona Pasqua a tutte le lettrici ed i lettori dell’Oriente ecclesiale.

 

Stefano Sodaro