Se le fonti storiche sul primato petrino romano sono traballanti

Papa Demetrio di Alessandria, icona copta 

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Papa (dal greco πάπας, “padre”, quindi titolo espressamente vietato da Gesù nel vangelo: Mt 23, 9) è il titolo che la Chiesa cattolica usa per il vescovo di Roma, assieme a quello di sommo pontefice. Sembra che il titolo di papa sia stato assunto appena nel 384 da Siricio [1], mentre il suo predecessore Damaso era ancora soltanto vescovo di Roma, seppur anche col titolo di pontefice dopo la rinuncia dell’imperatore Graziano a tale carica. Superfluo ricordare, però, che “sommo pontefice” era il massimo grado religioso pagano.

Sappiamo che a supporto del primato del vescovo di Roma, unico vero papa, si portano sia motivazioni teologiche che storiche. Oggi parleremo solo delle ragioni storiche.

La versione sempre ripetuta è che il primato di Roma si fondi sul fatto che Pietro sarebbe stato capo indiscusso degli apostoli (ma abbiamo già visto negli articoli ai nn. 477-480 di questo giornale

[di cui ai link

https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-477---4-novembre-2018; https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-478---11-novembre-2018;

https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-479---18-novembre-2018;

https://sites.google.com/site/ultimotrimestre2018rodafa/numero-480---25-novembre-2018] come questa tesi non sia proprio così assodata), che sarebbe stato vescovo a Roma dove avrebbe fondato e diretto la chiesa locale per circa 25 anni, e questo primato romano sarebbe stato da subito riconosciuto universalmente da tutti, senza contestazioni.

Oggi, anche da parte degli studiosi cattolici, si è costretti ad ammettere che c’è una certa difficoltà ad indicare come concretamente sia pervenuta questa potestà proprio alla Chiesa di Roma; subito si aggiunge, però, che non c’è dubbio che, per ogni buon cattolico, la Chiesa di Roma ed il suo vescovo siano coscienti del “carisma petrino”, lo esercitino, e lo pretendano riconosciuto dalle altre Chiese come un dovere-diritto, a beneficio della tutela del depositum fidei e dell’unità [2]. Dunque si tratterebbe di una Tradizione.

Ma se solo si ascoltano altre campane anziché limitarsi a quella cattolica, risulta chiaro che la teoria del primato papale si è sviluppata solo gradualmente, con tentativi di forzare la mano, con un alternarsi di accelerazioni e frenate, di vittorie e sconfitte, soprattutto quando dopo l’editto di Costantino, nel rapporto fra Stato e Chiesa, insorsero presto due tentazioni reciproche: per lo Stato quella di usare la Chiesa come instrumentum regni e per la Chiesa quella di utilizzare lo Stato come instrumentum salvationis.

Per meglio rendersi conto di tutto questo e anche se la cosa può sembrare noiosa, la cosa miglior è andare a riguardarsi un po’ le fonti, senza la pretesa di poterle esaurire compiutamente in un articolo. E mi scuso anche per le numerose note (che potete anche evitare di leggere) che troverete in questo e nei successivi articoli riguardanti il primato petrino: mi sembrano necessarie affinché gli scettici non pensino che mi stia inventando tutto.

Teniamo anche presente che in passato non esistevano gli attuali mezzi di comunicazione; solo i ricchissimi potevano permettersi di aver accesso alle fonti del sapere comprando libri copiati a mano, e la maggior parte della gente nemmeno sapeva leggere; a chi allora credeva questa gente? All’autorità, e in primo luogo all’istituzione Chiesa, diffusa capillarmente sul territorio. Con l’invenzione rivoluzionaria della stampa, improvvisamente un gran numero di persone ebbe possibilità di accedere alle fonti primarie del sapere. La conseguenza fu che non era più vero ciò che veniva annunciato dall’autorità, ma ciò che era direttamente verificabile nelle fonti. E oggi tutti possiamo normalmente verificare le fonti anche su internet.

Si è visto nell’articolo di maggio Ma Gesù ha fondato questa Chiesa? (https://sites.google.com/site/liturgiadelquotidiano/numero-504---12-maggio-2019/ma-gesu-ha-fondato-questa-chiesa)) che Gesù, il quale non era neanche sacerdote ma era un laico, non ha creato alcuna gerarchia ecclesiastica, né dicasteri in alcuna città, né preti (da presbiteri), né vescovi (da episcopi), a differenza di quanto ha fatto san Paolo.

È comunque un dato di fatto che, morto Gesù e viventi gli apostoli, si è presto instaurata una doppia gerarchia: una universale e una locale. Anche se ai tempi di Pietro e Paolo sicuramente non si parlava ancora di giurisdizione (cioè della competenza ad esercitare il potere o, detto in soldoni, ‘chi comanda nella Chiesa?’), è assodato che da sempre il vescovo ha avuto giurisdizione locale, sì che un apostolo avente giurisdizione universale è sempre stato superiore a un vescovo avente giurisdizione locale [3]. Questa giurisdizione universale veniva esercitata dagli apo­stoli a volte in co­mune (pensiamo all’iniziativa per la nomina dei diaconi – At 6, 2), più spesso singo­lar­mente: ad es. Giovanni e Pietro si recano in Samaria (At 8, 14); Paolo, che ha fondato una serie di chiese nell'Asia minore (At 18, 1ss.) dopo essersi autoproclamato apostolo (1Cor 1, 1; Gal 1, 1; 1Tm 2, 7; 2Tm 1, 11) e senza sentirsi debitore verso nessuno dei Dodici per la comprensione del vangelo perché il suo vangelo veniva direttamente da Cristo (Gal 1, 12), ha operato prevalentemente da solo; comunque mai sotto la direzione di nessuno dei dodici apostoli.

A questo punto, allora, sorge spontanea una domanda: se Pietro è stato vescovo di Roma, per quale motivo avrebbe assunto una carica inferiore (locale) rispetto a quella universale che già deteneva come apostolo? È come se un generale assumesse volontariamente il grado di colonnello. Sembra ovvio che Pietro non avesse alcun motivo per assumere la funzione ridotta di vescovo: Pietro non fu vescovo in nessuna città, in nessuna regione, ma fu sempre e solo apostolo; eventualmente capo di qualche comunità. Esattamente come Paolo non fu vescovo in nessun luogo, come gli altri apostoli non furono vescovi in nessun luogo. In altre parole, se, come ci è stato insegnato, sono stati gli apostoli a nominare i vescovi (loro inferiori), come potevano autonominarsi in una funzione inferiore?

Se poi si sostiene che Pietro sarebbe stato un vescovo sui generis perché la carica di vescovo non l’avrebbe ristretto ad operare in Roma limitando la sua attività apostolica, a differenza di quello che «fu per Giacomo vescovo di Gerusalemme e apostolo», come azzarda un teologo americano [4], mi permetto di dire che si sta facendo una gran confusione storica: il Giacomo apostolo (capo della originaria Chiesa di Gerusalemme insieme a Pietro e Giovanni) venne martirizzato già nel 44 d.C. (At 12, 2), per cui non ebbe il tempo di svolgere un’attività missionaria fuori di Gerusalemme [5]; dunque questo Giacomo martirizzato è un apostolo che non ha viaggiato, pur essendo stato punto di riferimento (insieme a Pietro e Giovanni) nella prima chiesa. Però il Giacomo capo della Chiesa di Gerusalemme, che presiedette anche il primo concilio a Gerusalemme (At 15, 13), era un altro Giacomo, non uno degli apostoli ma un fratello di Gesù [6], che nella veste di unico capo (non apostolo) della Chiesa di Gerusalemme ben può essere equiparato a un vescovo.

Come risulta dagli scritti canonici (At 12, 1-4; Gal 2, 9), Pietro (assieme agli apostoli Giacomo e Giovanni) è stato per un certo periodo sicuramente a capo della Chiesa di Gerusalemme, che fu anche la prima comunità in assoluto fondata dai cristiani. C’è allora da chiedersi: come mai nessuno ha pensato di dare il primato petrino al vescovo di Gerusalemme, quale successore di Pietro? Se, come ebbe a dire l’allora cardinale Ratzinger (richiamato da Ettore Malnati, “Simone detto Pietro” nella singolarità del suo ministero) Gerusalemme fu l’inizio del cammino della Chiesa universale, perché il successore di Cristo non dovrebbe essere il vescovo di Gerusalemme, madre di tutte le comunità cristiane? La risposta è semplice: perché qui, oltre a Pietro, c’erano Giacomo e Giovanni, per cui non ci può essere prevalenza del solo Pietro.

Oggi si riconosce anche fra i cattolici che della seconda metà dell’attività missionaria di Pietro non sappiamo praticamente nulla (Theological Dictionary of the New Testament, in italiano Grande Lessico del Nuovo Testamento, a cura di Kittel G. e Friedrich G), perché gli Atti degli apostoli non parlano più di lui dopo la sua definitiva conversione, e non abbiamo altri resoconti dettagliati e degni di fede. In base a delle notizie assai frammentarie [7], si sa che Pietro, allontanatosi da Gerusalemme, andò ad Antiochia, Corinto e Roma. Neanche dalle lettere petrine (scritte da Roma, ma oggi non più attribuite personalmente all’apostolo) è dato sapere se egli si trovasse stabilmente a capo di quella comunità o solo provvisoriamente in visita. Se per tradizione sappiamo che a un certo punto Pietro era intenzionato a fuggire da Roma e venne fermato per un intervento divino in periferia, dove oggi sorge la chiesetta del Quo vadis, non abbiamo alcuna certezza che, proprio a Roma, Pietro avesse voluto fissare stabilmente la sua sede, che colà fosse il riconosciuto responsabile fisso della comunità locale, o neanche che fosse appositamente arrivato da Corinto per dare coraggio alla comunità in pericolo per la persecuzione di Nerone [8]. Anzi, una tradizione altrettanto forte e antica lo vuole ad Antiochia, tant’è che ancora oggi il suo patriarca viene chiamato successore di Pietro, come fa insistentemente notare la Chiesa orientale ortodossa.

Allora se il primato è un privilegio del successore diretto di Pietro, a chi spetta questo privilegio? Al vescovo di Gerusalemme, a quello di Roma o al patriarca di Antiochia, posto che tutti sono succeduti anche sulla Cattedra di Pietro? Vedremo che Papa Gregorio Magno aveva dato una sua spiegazione. Anche per Antiochia, dunque, vale lo stesso ragionamento che si è appena fatto per Gerusalemme. Lo storico può solo notare che anche Antiochia rivendica giustamente la stessa successione petrina. Di più: fino al V secolo, i grandi centri di produzione teologica erano in prevalenza orientali: Antiochia, Alessandria, Costantinopoli, e Gerusalemme. In Occidente, più di Roma, contava a un certo punto Milano, dove Ambrogio ebbe statura ben più alta del coevo vescovo di Roma: infatti la gente comune non sa neanche chi fosse il vescovo di Roma ai tempi di sant’Ambrogio.

Secondo san Girolamo, il primato romano sarebbe dovuto al fatto che Pietro fu vescovo di Antiochia per soli sette anni e poi si portò a Roma dove occupò lo scranno sacerdotale per ben 25 anni: dunque sarebbe la lunghezza della permanenza a giustificare il primato di Roma rispetto ad Antiochia. La Chiesa ufficiale ha fatto propria questa argomentazione, trasformandola in un cardine, confermando che, anche se san Pietro ha fondato la chiesa di Antiochia, lì la sua permanenza fu breve, mentre a Roma si sarebbe fermato per un periodo estremamente più lungo [9]. Sennonché anche questo argomento a favore della supremazia romana è oggi svuotato perché questa tesi accreditata in passato, secondo cui Pietro pur con qualche interruzione sarebbe rimasto a Roma per circa 25 anni [10], viene oggi ritenuta mera leggenda dagli studiosi più moderni, compresi quelli cattolici [11].

Sempre a favore del primato romano si afferma che la mancata menzione di Pietro nella lettera ai Romani, scritta da Paolo fra il 55 e il 58, potrebbe solo dimostrare che in quel periodo Pietro non era a Roma e nulla più. Questa tesi, però, non tiene presente un altro passo fondamentale della stessa lettera (Rm 15, 20) che mette in evidenza come la comunità romana, sarebbe già stata fondata da giudeo-cristiani senza intervento apostolico di Pietro [12]: Paolo, infatti, afferma espressamente che non va mai a predicare dove qualcuno ha già cominciato l’opera: se ne deduce che, al momento in cui egli scrive ai romani, Pietro non era ancora arrivato a predicare a Roma, e quindi la sua asserita venuta a Roma prima dell’anno 50, essenziale per giustificare la permanenza venticinquennale, viene smentita già da Paolo. È del resto oggi assodato che il germe del cristianesimo era già caduto fra cittadini romani (At 2, 10), per cui la buona novella ben poteva essere già giunta a Roma anche senza Pietro. Si dice anche che, al momento della persecuzione di Nerone, Pietro fosse a Corinto, e sarebbe tornato a Roma, forse con Paolo [13], dopo essersene allontanato verso il 50 d.C. a causa del decreto di espulsione di Claudio riguardante tutti i giudei [14], allo scopo di rafforzare e incoraggiare i cristiani [15]. Ma una volta escluso, alla luce della lettera di Paolo, che Pietro si trovasse a Roma prima del 55-58, non poteva essere espulso insieme agli altri cristiani da Claudio nel 50.

Non si sa nemmeno quando Pietro abbia subito il martirio: forse nel 64 d.C. [16], o forse nel 67 [17]. Lino sarebbe stato nominato vescovo a Roma appena nel 66 d.C. [18]: dunque prima di lui ci sarebbe stato solo Pietro. Di nuovo: non è quantomeno strano che un vescovo stia lontano dalla sua comunità per anni (da prima del 50 al 55-58) senza nominare un suo sostituto? E se Pietro fosse giunto a Roma poco dopo l’arrivo della Lettera di Paolo ai Romani [19], sarebbe rimasto là da un minimo di sei (58-64 se morto in quell’anno) a un massimo di dodici anni (55-67), nel migliore dei casi. Quindi siamo sempre ben lontani dai 25 anni attribuitigli. Se gli anni fossero sei saremmo davanti perfino a un tempo perfino inferiore a quello passato ad Antiochia, e in mancanza di prove certe i vescovi successori delle due città (Antiochia e Roma) potrebbero ancora giocarsi alla pari il primato di Pietro.

Neanche il fatto che Pietro si sia prodigato più per la comunità di Roma che per quella di Antiochia (fatto comunque tutto da dimostrare) sarebbe decisivo: pure Paolo ha lasciato la sua pesante impronta in quel di Roma [20], eppure quasi nessuno ha pensato a lui come vescovo di Roma. Perché allora il papa deve essere il successore di Pietro nella sede di Roma, quando non è neanche certo che Pietro sia stato il capo della Chiesa romana, mentre è certo che fu il capo della Chiesa di Gerusalemme e della Chiesa di Antiochia?

Al primo concilio di Nicea del 325 venne riconosciuta la preminenza di alcune sedi patriarcali in modo canonico: «In Egitto, nella Libia e nella Pentapoli siano mantenute le antiche consuetudini per cui il vescovo di Alessandria abbia autorità su tutte queste province; anche al vescovo di Roma infatti è riconosciuta una simile autorità. Ugualmente ad Antiochia e nelle altre province siano conservati alle chiese gli antichi privilegi» [21]. Dunque, come oggi riconosce lo stesso papa emerito, a Nicea una prevalenza era attribuita ancora a tre sedi in contemporanea, tutte poste in relazione con Pietro (Roma, Alessandria e Antiochia) [22]. Roma, per essere la città che era, per essere la capitale dell’impero, per aver ospitato Pietro e Paolo, godeva certamente di un particolare prestigio, ma la supremazia non andava probabilmente oltre a un’influenza sulle chiese d’Italia, così come altrove si fece strada la tendenza verso un accentramento dell’autorità nelle mani del vescovo della città più importante: Lione nelle Gallie, Alessandria in Egitto, eccetera [23]. Appena nel IV secolo i vescovi di Roma, Alessandria, Antiochia e Costantinopoli ricevettero il grado di metropoliti (o arcivescovi), e quindi si può cominciare a parlare di un rango superiore [24]. Anzi, a proposito di Costantinopoli, va ricordato da un lato come fino alla nomina di Papa Zaccaria (vissuto a cavallo fra il 600-700 d.C.), tutti i suoi predecessori dovevano ancora attendere il permesso dell’imperatore a Costantinopoli per diventare effettivi vescovi di Roma. Prima di Zaccaria era più volte accaduto che i papi dovessero aspettare anche molti mesi prima di ottenere l’autorizzazione: ad esempio Leone II dovette aspettare circa un anno e mezzo prima di svolgere le sue funzioni di vescovo a Roma [25]. Dall’altro lato, il tentativo imperiale di mantenere il controllo su Roma durò a lungo: basti pensare che quando Donato venne condannato come scismatico dal sinodo di Roma composto da 19 vescovi, egli si appellò all’imperatore Costantino, e non al papa [26].

Forse pochi sanno come si mosse anche il famoso sant’Agostino nella vicenda contro Pelagio. Agostino combatteva le idee di Pelagio (secondo cui i ricchi non potevano salvarsi se non rinunciavano del tutto ai loro averi, mentre sostenendo l’idea che non esisteva il peccato originale minava la pratica del battesimo ai neonati perorata da Agostino). Con assoluta novità, l’intero corpo ecclesiastico africano si riunì in concili per condannare le opinioni di un pensatore isolato come Pelagio. Quando nel 416 condannaro Pelagio trasmisero le loro conclusioni al vescovo di Roma e all’imperatore, facendo sentire la propria voce con convinzione collettiva senza precedenti. Ma l’anno seguente, Papa Zosimo (poi anche santo) assolse Pelagio e con lettera rimproverò i vescovi africani sui pericoli di una speculazione teologica eccessivamente rigida. A Cartagine si riunirono nuovamente i vescovi che mandarono in Italia una delegazione: saltarono però Roma e andarono direttamente alla corte imperiale di Ravenna, dove si assicurarono la condanna di Pelagio (i seguaci di Pelagio accusarono gli africani di aver corrotto i dignitari di corte col dono di ottanta stalloni della Numidia).

Appellandosi all’imperatore, Agostino non solo non aveva giocato pulito, ma con assoluta chiarezza neanche questo grande santo aveva riconosciuto il primato petrino al papa di Roma.

Ancora negli anni 691-692 l’imperatore Giustiniano II, attraverso un apposito sinodo che fu poi chiamato Quintisesto perché emanò decreti a completamento del V e VI concilio ecumenico, prescrisse che al patriarca di Costantinopoli fosse riconosciuto lo stesso ruolo di Roma; quando Papa Sergio si oppose, l’imperatore cercò di farlo deportare come era successo in passato a Papa Martino I nel 653 [28], ma l’impresa non gli riuscì: segno che l’impero aveva sempre meno forza in Occidente e contava sempre meno.

Comunque, come si vede, ognuno cercava sempre più di rafforzare ed allargare il potere che aveva, per cui il primato di Roma sulla chiesa universale non fu affatto immediato, indiscutibile e incontestato, ma si sviluppò solo gradualmente [29], e crebbe in Occidente via via che diminuì la forza dell’imperatore di Costantinopoli.

Anche una frase scritta da san Girolamo in una lettera al suo amico Papa Damaso, viene utilizzata da alcuni come riconoscimento della supremazia della sede romana, ma non è di per sé inequivocabilmente tale: infatti l’autore non dice: “non seguo altro pastore che il vescovo di Roma”, ma afferma categoricamente: «Non seguo altro capo che Cristo»; e al vescovo di Roma, al quale riconosce che siede sulla sedia di Pietro che fu la roccia su cui è stata costituita la Chiesa, chiede solo la benedizione [30]. Dunque, anche questo riconoscimento ben si attaglia anche ad una funzione del papa romano solo come primus inter pares.

Anche la testimonianza di Ireneo è [31] secondo cui tutte le chiese devono andare d’accordo con Roma a causa della sua preminente autorità in quanto fondata ed organizzata a Roma dai gloriosi apostoli Pietro e Paolo, viene vista da alcuni autori cattolici come ulteriore elemento a favore del primato romano [32]. Sembra qui che il primato provenga dalla forza congiunta della presenza dei due apostoli in Roma, mentre non vien dato rilievo alla circostanza che Pietro sia stato colà vescovo o meno. A parte il fatto che sicuramente Paolo non ha fondato la comunità romana, e che mancano elementi sicuri per dire che a fondarla fu Pietro, in ogni caso si può anche sostenere che l’inciso si adatta perfettamente anche alla tesi di chi vuol vedere nel vescovo romano solo un primus inter pares, con funzioni di coordinamento: siamo in presenza di un pressante invito, in vista del bene supremo dell’unità, a cercare sempre il coordinamento con Roma. Restando ancora su Ireneo, altri ricordano la sua richiesta a Papa Eleuterio di prendere posizione sulle tesi montaniste venutesi a creare nelle Gallie [33]: si osserva che se dalla Francia ci si rivolge a Roma si deve pensare che il vescovo di Roma avesse giurisdizione anche fuori dell’Italia. Innanzitutto, come si vedrà fra pochissimo (cfr. il caso di Cipriano), era prassi comune chiedere indicazioni di condotta a un vescovo di prestigio rinomato di un’altra città: ma non per questo l’interpellato pretendeva poi di avere giurisdizione al di fuori della sua diocesi. Detto questo, va ricordato che sia Ireneo sia il montanismo nascono nell’odierna Turchia, dove Ireneo era stato discepolo di Policarpo [34], a sua volta discepolo di Giovanni apostolo; quando si trasferì nelle Gallie scrisse la sua opera più famosa: Adversus Haereses. Il montanismo riteneva eccessiva la dipendenza delle chiese dalla struttura vescovile che, a suo dire, limitava l’azione dello Spirito santo, e voleva un contatto più immediato col divino; questa dottrina la esprimeva in manifestazioni di massa, con esperienze di carattere estatico. Ireneo, che riteneva invece indispensabile la sottomissione al proprio vescovo, scrisse al papa Eleuterio. Perché? Da nessuna parte viene indicato che Ireneo scrisse al vescovo di Roma a causa della sua riconosciuta superiorità. Si sa, invece, come accenna Tertulliano [35], che Eleuterio aveva predisposto perfino una lettera a supporto del montanismo, poi fatta però ritirare. Nulla di strano, dunque, che Ireneo abbia chiesto l’appoggio del vescovo di Roma alle proprie tesi anti-montaniste, con abbandono da parte dell’autorità romana di un atteggiamento piuttosto neutrale o perfino ambiguo. Ireneo cercava un alleato.

Nemmeno l’intervento del papa romano nella questione fra Atanasio e Dionisio ad Alessandria d’Egitto può essere elemento idoneo a sostenere la supremazia del papa di Roma: anche qui si dice che, se il papa di Roma è intervenuto su una questione africana aveva giurisdizione anche sull’Africa, e quindi fuori dell’Italia, sì che c’è la prova della sua supremazia universale. Ma gli studiosi ci spiegano che nel De Sententia Dionysi di Atanasio non c’è nulla nella narrativa che implichi che il vescovo di Alessandria riconosca o che il vescovo di Roma pretenda di vedersi riconosciuta un’autorità superiore quale appartenente alla Santa Sede [36].

Altri, a sostegno della supremazia romana, citano la famosa lettera di Papa Clemente ai Corinti [37]. Ma di Clemente romano non si sa quasi nulla: da dove arrivava, qual era il suo sfondo culturale, forse da giovane era stato collaboratore di Paolo o forse no, forse alla fine fu martirizzato o forse no. Eppure si afferma che la sua lettera è il documento che per la prima volta affermò la supremazia del vescovo di Roma su tutte le altre chiese, parlando in tono autoritativo [38]. Da quale passo o da quali passi si ricava questa convinzione? Non lo si dice. Se andiamo a leggere la lunga lettera [39] giunta fino a noi, si vede che venne stesa a causa dei disordini scoppiati nella comunità cristiana della città greca, dove alcuni giovani membri si erano ribellati ai presbiteri, e li avevano destituiti [40]. Ora, a parte amorevoli e pressanti inviti alla concordia, all’unità, alla pace, solo nel cap. LVII, 1 c’è un chiaro invito all’obbedienza [41]. Ma a chi? Non certo allo scrivente vescovo di Roma, ma ai presbiteri locali che erano stati estromessi [42]. Anzi, lungi dall’imporre la sua autorità, quel papa scrive testualmente nel cap. LIV, 2: «Se per mia colpa si sono avute sedizioni, lite e scismi, vado via. Me ne parto dove volete e faccio quello che il popolo comanda purché il gregge di Cristo viva in pace con i presbiteri costituiti». Mi sembra che siamo lontani mille miglia dall’autoritarismo vaticano cui siamo stati abituati prima di papa Francesco, e che il vescovo di Roma non stia affatto impartendo un suo ordine ai cristiani di Grecia [43]. Al più siamo per l’ennesima volta davanti a un vescovo autorevole, primus inter pares, che spende il suo prestigio per ricomporre l’unità, e che grazie al suo prestigio personale riuscirà a far accettare la sua lettera [44].

Se poi ci si ferma a una deduzione indiretta, al fatto cioè che se una città greca ha chiesto la mediazione del vescovo di Roma, questo significherebbe di per sé che ha riconosciuto la superiorità del vescovo di Roma, può usarsi allo stesso modo anche una deduzione indiretta di segno diametralmente opposto: può darsi cioè che Clemente venne interpellato perché era Clemente, non perché era il vescovo di Roma, ed i corinti avevano fiducia nella sua persona, non nella sua funzione, magari perché l’avevano conosciuto a Corinto quando collaborava con Paolo. L’interpretazione cattolica sarebbe accettabile se ci fosse un documento dei corinti che si rivolgono a Clemente, invitandolo a prendere posizione proprio in quanto vescovo di Roma, riconosciuto come autorità superiore. In tal caso, però, sarebbe stato ovvio che Clemente imponesse di obbedire ai presbiteri locali perché lui così ordinava di fare in base alla sua autorità superiore; cosa che, come si è visto, non avvenne.

Si sostiene anche che il riconoscimento del primato di Pietro si troverebbe anche in alcuni scritti di Cipriano [45] (Cyprian, The primatus textus of De ecclesiae unitate, Cap. 4 [46]) dove la cattedra di Pietro diventa il punto focale. Ma di questo documento ci sono pervenute due redazioni: primatus textus (più breve) e textus receptus. Il primo è considerato da molti studiosi un falso della cancelleria papale composto nel periodo tra Papa Pelagio I e II  (561-590 d.C.) in quanto contiene sì affermazioni che giustificano il primato del vescovo di Roma, ma che sono del tutto assenti nel textus receptus

Al contrario, si può usare proprio Cipriano per dimostrare che questi non credeva affatto al primato romano: nell’autunno del 254, i cristiani della Spagna romana presentarono a questo vescovo (che era vescovo di Cartagine, non di Roma, e godeva di universale prestigio) un problema delicato: i fedeli di due diocesi spagnole (León-Astorga e Merida) si erano accorti che i loro vescovi non avevano dato la dovuta testimonianza della loro fede durante una persecuzione dell’imperatore Decio, e davanti all’esempio scandaloso questi fedeli li avevano rimossi (decisione oggi impensabile, ma allora possibile). Basilide, uno dei vescovi deposti, era ricorso a papa Stefano, vescovo di Roma, che lo aveva riabilitato. Gli spagnoli tornarono da Cipriano, il quale convocò un concilio, le cui decisioni ci sono giunte nella lettera 67 di Cipriano, firmata dai 37 vescovi che parteciparono a quel sinodo. Ebbene, in quel sinodo locale si presero tre decisioni, che figurano nella sua risposta ai richiedenti spagnoli: 1) Il popolo ha il potere di eleggere i suoi ministri, in particolare il vescovo: “Vediamo infatti che ha origine divina l’elezione del vescovo alla presenza del popolo fedele, sotto gli occhi di tutti… Dio ordina che di fronte all’assemblea si elegga il vescovo” (Epist. 67, IV, 1-2).  2) Il popolo ha il potere di rimuovere il vescovo indegno: “Per questo il popolo… deve allontanarsi dal vescovo peccatore e non mescolarsi al sacrificio di un vescovo sacrilego, soprattutto quando ha il potere di eleggere vescovi degni o di rifiutare quelli indegni” (Epist. 67, III, 2).  3) Persino il ricorso a Roma non deve cambiare la situazione, quando non è stato fatto con verità e sincerità: “Un’ordinazione regolare (quella di Sabino, successore di Basilide, ndr) non può essere invalidata dal fatto che Basilide… sia andato a Roma e dal nostro collega Stefano (che, per il fatto di stare lontano dal luogo dove sono avvenuti i fatti, li conosce male) abbia ottenuto di essere ingiustamente riabilitato nella dignità episcopale, dalla quale è stato regolarmente deposto” (Epist. 67, V, 3).

Non per questo intervento fuori diocesi Cipriano è stato riconosciuto papa universale, ed è del tutto evidente che, all’epoca, il “collega” vescovo Stefano non era riconosciuto superiore agli altri vescovi, né in Africa, né in Spagna.

In conclusione, sostenere che questo primato romano sarebbe stato da subito riconosciuto universalmente da tutti, senza contestazioni, alla luce della documentazione esistente, appare piuttosto azzardato.

 

Dario Culot

                        

[1] Denzler G., Il papato, ed. Claudiana, Torino, 2000, 17. Secondo altri autori fu Innocenzo I il primo a utilizzare in maniera sistematica la posizione giuridica del papa, come successore di Pietro, assumendo che Pietro o un suo discepolo avevano fondato tutte le chiese d’Italia, Gallia, Spagna, Africa: Epistula 25 (Papini C., Da vescovo di Roma a sovrano del mondo, ed. Claudiana, Torino, 2009, 160s.). Secondo Schindler P., Petrus, ed. SAT, Vicenza, 1951, 539: il titolo di papa sarebbe diventato esclusivo del vescovo di Roma a partire dal IV secolo. Ma secondo altri fu solo dopo l’anno 1000 che il titolo di papa restò in via esclusiva al solo vescovo di Roma (Küng H., La Chiesa, ed. Queriniana, Brescia, 1967, 541 s.).

[2] Malnati E., “Simone detto Pietro” nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress  FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 88. Ma ricordiamo anche il discorso di Papa Francesco alla CEI, dove ha ricordato quanto è negativo l’atteggiamento di chi "vorrebbe difendere l' unità umiliando la diversità” (riportato da Politi M., Il Papa non assolve i vescovi e ribalta la linea della Cei, “Fatto Quotidiano”, 20.5.2014, 10).

[3] Kenrick F.P., The primacy of the Apostolic See vindicated,  ed. Murphy J. & Co., Baltimore, 1855, 77.

[4] Kenrick F.P., The primacy of the Apostolic See vindicated,  ed. Murphy J. & Co., Baltimore, 1855, 83.

[5] A Gerusalemme venne assegnato un apostolo come residente stabile (Schindler P., Petrus, ed. SAT, Vicenza, 1951, 578).

[6] E sul termine “fratello” rinvio a quanto scritto nell’articolo I fratelli di Gesù, al n.432 di questo giornale (https://sites.google.com/site/numeriprecedenti/numeri-dal-26-al-68/199997---dicembre-2017/numero-432---24-dicembre-2017/i-fratelli-di-gesu).

[7] In effetti si riconosce unanimemente che c’è una certa vaghezza d’informazioni su dettagli delle date e dei personaggi attorno ai quali si sviluppò la Chiesa primitiva (Hughes P., A popular History if the Catholic Church, ED. Doubleday & Co., Garden City, N.Y. (USA),  1955, 3). Romanello S., Prime comunità cristiane, in Newsletter del Centro Veritas, nov. 2012, 6: la comunità cristiana che sbarca a Roma (e ancora oggi di preciso non sappiamo fondata da chi) fino agli anni 40, come documenta Svetonio, non appare separata dalla locale sinagoga, mentre nel 60 la cesura è consumata, come si avverte nell’esperienza della persecuzione neroniana, limitata ai cristiani e non agli ebrei. Fouard C., Saint Peter and the first years of Christianity, ed. Longmans, Green & Co, New York e al., 1906, 335: “Sono completamente sconosciuti i dettagli del ministero di San Pietro a Roma”. Kelly J.N.D., The Oxford Dictionary of Popes, ed.Oxford University Press, Oxford –New York, 1986, 6: “I Vangeli non dicono nulla in proposito e non si sa nulla sulla durata della presenza di Pietro in Roma, Né sulla carica che lì avrebbe investito”. Secondo Remo Cacitti, professore di storia del cristianesimo antico all’università di Milano, non c’è neanche prova storica, ma solo tradizionale, che Pietro sia stato a Roma. “È impossibile dire quanto tempo Pietro si fermò a Roma (New Catholic Encyclopedia, ed. McGraw-Hill book Co., New York e al., 1967, vol.11, 204). Il fatto che sia stato a Roma e lì abbia subito il martirio, di fronte alla riconosciuta carenza di dati sul suo arrivo, di lunghezza della sua permanenza, e di attività concretamente colà svolta (McSorley J., Outline History of the Church by centuries, ed.Vail-Ballou Press, Binghamtonn and New York, 1954, 15) non sembrano sufficienti a confortare la tesi che i vescovi di Roma siano i successori di Pietro.

[8] Affermano il contrario, ma senza fonti di riscontro gli artt. 192, 198, 209 del Catechismo Pio X, e Malnati E., “Simone detto Pietro” nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress  FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 89.

[9] Kenrick F.P., The primacy of the Apostolic See vindicated,  ed. Murphy J. & Co., Baltimore (USA), 1855,81 s.

[10]  Bihlmeyer K. e Tüchle H., Church History,ed. Newman Press, Westminster (Maryland USA), 1958, Vol. 1, 59. Kenrick F.P., The primacy of the Apostolic See vindicated,  ed. Murphy J. & Co., Baltimore, 1855, 82.

[11] Kelly J.N.D., The Oxford Dictionary of Popes, ed.Oxford University Press, Oxford–New York, 1986, 6. New Catholic Encyclopedia, ed.McGraw-Hill book Co., New York e al., 1967, vol.11, 204.

[12] Theological Dictionary of the New Testament, a cura di Kittel G. e Friedrich G., ed. Edrdmans Publishing Company, Grand Rapids (USA), 1993, vol.VI, 111. 

[13] Rev. Laux J., Church History, ed. Berzinger Brothers, New York e al., 1945, 31. 

[14] Eusebio, Historia eccleasiae, II, 18, 9, http://www.documentacatholicaomnia.eu/,Rev. Laux J., Church History, ed. Berzinger Brothers, New York e al., 1945, 30: il quale, da buon cattolico, non può far a meno di aggiungere che il decreto riguardava giudei e cristiani; ma a quel tempo i cristiani non erano ancora individuati come un gruppo religioso autonomo. Riferisce infatti Svetonio che su istigazione dei seguaci di un certo Chrestos (“impulsore Chresto”), nel 49 dell’era cristiana, c’erano stati scontri tra ebrei (non fra ebrei e cristiani); ci fu allora un intervento dell'imperatore  Claudio  (41-54 d.C.)  contro i giudei respon­sabili  di dif­fondere idee di una nuova setta, causando disordini  (Vita di Claudio, XXV, 4). Di questo decreto c’è conferma negli Atti degli apostoli: Aquila e Priscilla, allonta­nati  da Roma, si recarono a Corinto, dove incontrarono l'apostolo  Paolo (At 18, 2). In ogni caso, qualche tempo dopo la comunità cristiana di Roma doveva di nuovo essere numerosa se, verso il 55-58, Paolo le inviò la celebre lettera con cui prometteva di recarsi da loro, cosa che fino a quel momento non gli era riuscita (Rm 1, 8). 

[15] Rev. Johnson G., The story of the Church, ed. Tan Books, Charlotte (North Carolina USA), 1980, 37-39. 

[16] Kelly J.N.D., The Oxford Dictionary of Popes, ed. Oxford University Press,  Oxford –New York, 1986, 6. 

[17] Pontificia Amministrazione della Patriarcale Basilica di San Paolo, I Papi – Venti secoli di storia, ed. Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 2002, 5. 

[18] Kelly J.N.D., The Oxford Dictionary of Popes, ed. Oxford University Press,  Oxford –New York, 1986, 6. 

[19] Eusebio, Historia ecclesiastica.  

[20] Anche se bisogna dar atto che Paolo venne a Roma in stato di arresto, e non da cittadino libero. Infatti in Giudea, dopo più di due anni senza processo – anche perché i romani non capivano bene in che cosa consistesse l’accusa fra chi parlava di un certo Gesù morto e Paolo che parlava di un certo Gesù vivo -  aveva potuto chiedere, come cittadino romano, di essere giudicato dall’imperatore, e fu mandato a Roma dove si persero le sue tracce, fino a che fonte attendibile non ne confermò la decapitazione sotto Nerone (Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio, ed. Rizzoli, Milano, 1969, 152 ss.). La fonte attendibile, che parla del martirio di Pietro e Paolo in Roma, è Clemente, della famiglia dei Flavi, diventato anche vescovo di Roma. 

[21] Vedasi canone 6 del Concilio di Nicea, in http://www.documentacatholicaomnia.eu/, Concilium Nicenum I, Canones. Papini C., Da vescovo di Roma a sovrano del mondo, ed. Claudiana, Torino, 2009, 95. 

[22] Ratzinger J., Dio e il mondo, ed. San Paolo, Cinisello Balsamo ( MI), 2001, 347. 

[23] Gentile P., Storia del Cristianesimo dalle origini a Teodosio,ed. Rizzoli, Milano, 1969, 235. 

[24] Küng H., La Chiesa, ed. Queriniana, Brescia, 1967, 479. 

[25] Era obbligo annunziare all’imperatore di Costantinopoli sia la morte di un pontefice, sia l’elezione del suo successore, chiedendogli poi l’autorizzazione ad esercitare l’incarico; questo dava ampi margini di libertà all’imperatore (www.treccani.it). 

[26] Ottato di Milevi, La vera Chiesa, ed. Città Nuova, Roma, 1988, 86 s. 

[27] Brown P., Per la cruna di un ago, ed. Einaudi, Torino, 2014, 500 e 512ss. 

[28] Papa Martino, per aver condannato il monotelismo fu deportato per ordine dell’imperatore a Costantinopoli, dove subì un processo e morì in esilio (www.treccani.it). Papini C., Da vescovo di Roma a sovrano del mondo, ed. Claudiana, Torino, 2009, 347. Prima di lui anche Papa Virgilio era stato arrestato e condotto a Costantinopoli dall’imperatore bizantino Giustiniano, il quale voleva sottomettere il papa alla sua volontà (Papini C., Da vescovo di Roma a sovrano del mondo, ed. Claudiana, Torino, 2009, 309). 

[29] Cardinal Dulles A., Magisterium, ed. Sapientia Press, Naples (Florida USA), 2007, 26. Denzler G., Il papato, ed. Claudiana, Torino, 2000, 39 ss. 

[30] San Girolamo, Epistola ad Damasum, 2, in A selected Library of Nicene and Post-Nicene Fathers of the Christian Church, ed. T&T Clark, Edimburgh (GB), 1989,  vol. VI, 18. 

[31] Ireneo, Adversus Haereses, III, III, 2, in http://www.documentacatholicaomnia.eu/. Per una critica al passo attribuito ad Ireneo, e giunto a noi in latino, vedasi l’ampio resoconto in Papini C., Da vescovo di Roma a sovrano del mondo, ed. Claudiana, Torino, 2009, 28ss. 

[32] Cavanaugh  J.H., Evidence of our faith, ed. University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 1959, 141. 

[33] Malnati E., “Simone detto Pietro” nella singolarità del suo ministero, ed. Eupress  FTL, Lugano (Svizzera), 2008, 86 ss. 

[34] San Girolamo, Vite di uomini illustri, cap. XXXV, in A selected Library of Nicene and Post-Nicene Fathers of the Christian Church, second series, vol.III, ed. T&T Clark, Edimburgh (GB), 1989, 370. 

[35] Tertulliano, Adversus Praxean, liber 1, 26-29,  in http://www.documentacatholicaomnia.eu/ 

[36] Atanasio, De Sententia Dionysi, in A selected Library of Nicene and Post-Nicene Fathers of the Christian Church, ed. T&T Clark, Edimburgh (GB), 1991,  vol. IV, 175. 

[37] Cardinal Dulles A., Magisterium, ed. Sapientia Press, Naples (Florida USA), 2007, 22. Schindler P., Petrus, ed. SAT, Vicenza, 1951, 576. 

[38] McSorley J., Outline History of the Church by centuries, ed.Vail-Ballou Press, Binghamtonn and New York, 1954, 15. 

[39] Reperibile in http://www.documentacatholicaomnia.eu/, sotto il nome di SS Clemens I. 

[40] Clemente, Lettera ai Corinti,  XLIV, 6 e XLVIII, in http://www.documentacatholicaomnia.eu/

[41] Schindler P., Petrus, ed. SAT, Vicenza, 1951, 577, afferma genericamente che nella lettera Papa Clemente parla dell’obbligo di sottomettersi, di imparare l’obbedienza. Ma neanche questo autore osa dire che questi obblighi vengono affermati nei confronti del vescovo di Roma.

[42] Non è perciò condivisibile l’opinione del Cardinal Dulles A., Magisterium, ed. Sapientia Press, Naples (Florida USA), 2007, 26, il quale afferma che Clemente, scrivendo a nome della Chiesa di Roma, ammonisce i Corinzi a ritornare in carreggiata. 

[43] Come invece sostiene Cavanaugh J.H., Evidence of our faith, ed. University of Notre Dame Press, Notre Dame, Indiana, 1959, 139. 

[44] Così Hagesippus, riportato da Eusebio, in Historia eccleasiae, IV, 22, 2, in www.documentacatholicaomnia.eu

[45] Saldanha P.P. The Successor of Peter for Unity and Communion, Holy Spirit Study Center, Tripod 2012, vol. 32, n.165, in www.hsstudyc.org.hk.

[46] Cyprian, “The Unity of the Church,” in Saint Cyprian Treatises, trans. and ed. R.J. Deferrari, The Catholic University of America Press, Washington 1958 (reprint 1981), 99.