Quando augurare buon sabato sera significa sussurrare “evviva il partito dei gesuiti”

Dal cortometraggio Love and Politics (1912), di regista sconosciuto 

- immagini tratte da commons.wikimedia.org 

Ancora non è dato sapere se, come e quando il nostro Paese avrà un nuovo Governo. Diversamente da quanto alcuni sostengono, noi non sentiamo altro che continue discussioni, accesissimi dibattiti, prese di posizione pure viscerali persino ai crocicchi delle pubbliche vie, sui bus, nei negozi. Meno male, ciò che è di tutti – la “res publica” – a tutti interessa.

Eppure l’emozione è talmente intensa, gli interrogativi talmente tanti e compressi, l’incertezza così angosciante che non si riesce a festeggiare alcunché, il compimento della domenica deve ancora arrivare e chissà se arriverà, per il momento celebriamo il sabato del villaggio:

«Già tutta l’aria imbruna,

Torna azzurro il sereno, e tornan l’ombre

Giù da’ colli e da’ tetti,

Al biancheggiar della recente luna.

Or la squilla dà segno

Della festa che viene;

Ed a quel suon diresti

Che il cor si riconforta.»

E questo dei conforti dei cuori è in effetti, se si accetta d’essere profondamente sinceri con se stessi, il tema che più dilania non solo gli appassionati adulti (dei cinici indifferenti e sprezzanti, con altrettanta sincerità, confessiamo che assai poco ci importa) ma anche i più giovani che vorrebbero, chiederebbero una speranza, un sogno, una prospettiva, un progetto, una bozza di percorso per la propria vita nell’Italia che abiteranno.

La “festa che viene” che cos’è mai?

È un non doversi più nascondere in nome di qualche amore maledetto da curare nell’ombra, ma gioire di poter festeggiare ogni amore in pieno sole. Ogni amore. Giovane, adulto o più in là con gli anni. Niente da escludere, tutto da ricomprendere, però non in segrete stanze dentro appositi cassettoni, bensì nelle piazze, per le strade, diventando l’escatologia di cieli nuove e terra nuova nostra geografia di festoso paese, alla vigilia della domenica.

E qui subentra un altro problema non da poco: il ritenere cioè che amore e politica siano la negazione uno dell’altra. Ne sono invece il reciproco inveramento, non c’è amore senza politica e non c’è politica senza amore.

Stiamo in effetti vivendo il “sabato del villaggio” del nostro Paese.

Vorremmo subito la festa, quasi la pregustiamo, ma siamo pressoché certi dell’impossibilità delle attuali formazioni politiche di farci festeggiare alcunché ed allora ci avvolge una specie di disperata e furiosa mestizia, con lo sprofondamento, giustamente temuto, in atomiche solitudini, tutte parcellizzate, tutte ritagliate su esatte metrature quadrate, dove il privato trionfa e schiaccia chicchessia ed il pubblico svapora via e si perde.

Il “conforto dei cuori” è il vero, diremmo l’unico, tema politico che decide d’ogni altra opzione. Ci sta a cuore il conforto dei cuori.

Ed i cuori sono confortati quando un minimo di idealità si accende e come split d’aria condizionata dà refrigerio a passioni soffocate dall’afa, quasi morte asfissiate.

Se poi l’ossigenazione è naturale ed il fresco viene da boschi e montagne, il conforto è ancora più salutare e duraturo.

Fuor di metafora, da chi possiamo andare oggi, adesso, questa domenica, per trovare un po’ di conforto per i nostri cuori? Non vogliamo comprarlo, vogliamo trovarlo come dono gratuito, come offerta di senso senza contraccambio. Non vogliamo dilettare e compiacere nessun voyerismo esistenziale malato di mancanza d’affetto.

Ecco, la nettissima posizione di alcuni gesuiti italiani, con visibilità giornalistica di primo piano, sull’attualità politica che vive la nostra repubblica ha fatto coniare il termine di “partito dei gesuiti” e qualcuno però, di rincalzo, ha chiesto dov’è che ci si possa iscrivere a tale partito. Dov’è cioè che possano trovar conforto i nostri cuori.

Vale a dire: l’elaborazione d’analisi socio-culturale di padre Spadaro, di padre Sorge ha un riferimento evangelico evidente, a prescindere da qualunque commento che possa anche supporsi clericalmente interessato o avversamente furibondo. Perché è sul Vangelo, anzi al plurale: sui Vangeli, sul messaggio che da quei testi proviene, che da quegli scritti antichissimi scaturisce direttamente, che le parole dei gesuiti si basano. E, se proprio la critica anticlericale dovesse farsi – come si dice – “corrosiva”, puntualizziamo e circoscriviamo pure: in questi giorni, adesso, davanti a ciò che sta accadendo, il riferimento evangelico delle critiche gesuite alle politiche governative in tema di immigrazione è fuori di ogni ragionevole dubbio. E se non ci stanno a cuore gli immigrati nel nostro Paese, assai poco conforto possono ottenere i nostri cuori. Perché ognuno, ognuna, di noi migra, quantomeno dentro se stesso, dalle profondità abissali che nessuno conosce alla presentabilità sociale, dall’abito indossato ogni giorno alla nudità del proprio essere.

Insomma, in questi giorni “il partito dei gesuiti” addita come luce in fondo al buio del tunnel non la provocazione dell’insigne firma giornalistica di qualche maître à penser, bensì il messaggio evangelico, così come accade con le Chiese Valdesi e Metodiste – evangeliche appunto – che hanno celebrato il proprio Sinodo a Torre Pellice senza paura di assumere posizioni altrettanto chiare e ferme (cfr. https://torino.repubblica.it/cronaca/2019/08/28/news/il_sinodo_valdese_contro_il_decreto_salvini_appello_ai_sindaci_disubbidite_alle_nuove_norme_-234525404/?refresh_ce) e sapendo su cosa e su chi tali posizioni si fondino.

La teologia della liberazione fece da abbeveraggio ideale a grandi sogni di riscatto politico già negli anni Settanta e Ottanta ma venne violentemente silenziata; tuttavia le sue istanze, ma anzi la sua stessa corrente di serissima riflessione teologica, non potevano estinguersi, semplicemente perché il numero dei poveri è cresciuto a dismisura così come le occasioni per negare loro la parola. E ad un certo punto, in presenza del papa latinoamericano e gesuita, il “conforto dei cuori” è finalmente saltato fuori come la molla dei pacchi sorpresa. Molla “ecclesiale” – sia permesso dir così – che non cessa di infastidire tutto un assetto di poteri ecclesiastici e che però consente finalmente ai poveri almeno di festeggiare un’utopia da realizzare: sentirsi carne e sangue gli uni degli altri.

Il sabato del villaggio è dunque il sabato del nostro amore fatto politica. La politica di quel villaggio che è la nostra Terra, oltre che il nostro Paese.

Ed ora possiamo augurarci anche “Buona domenica”: significa dire “evviva” ad ogni nostro amore, purché sia tale, cioè tutto intriso di passione politica.

Ringraziamo chi sa raccogliere i nostri “evviva”, che sia prete o no, che sia credente o no, perché, raccogliendoli, diventa al momento stesso poeta della sua stessa vita e delle nostre. Giacché siamo tutti onnigamicamente sposati, purché lo si voglia certo, gli uni agli altri, perché siamo tutti poveri, oltre che migranti.

Ed abbiamo la Costituzione come poema che canta le nostre vite di cittadini, solo a decidere di toglierci le cuffie dalle orecchie per ascoltare assieme la musica del vivere nella medesima comunità.

Buona domenica allora.

 

Stefano Sodaro