La teoria
della riproduzione
sociale
della riproduzione
sociale
Pagina redatta con il contributo di Giovanna Russo
Si possono trovare considerazioni sparse nelle opere di Marx ed Engels sull'oppressione delle donne (in particolare nell'Origine della famiglia di Engels), ma è chiaro che l'argomento non era stato realmente trattato.
L'ascesa del femminismo è stata senza dubbio una condizione necessaria affinché esso cessasse di essere una tematica "secondaria". Tuttavia, la prima ondata di femminismo si è concentrata sull'ottenimento dei diritti, in particolare del diritto di voto.
All'interno dei movimenti socialisti e comunisti, già all'inizio del XX secolo si trovavano riflessioni sul lavoro domestico. La soluzione a questo problema doveva venire dalla socializzazione di gran parte dei compiti (generalizzazione di asili nido, mense, lavanderie...) al fine di liberare le donne.
Di fronte alla sostanziale indifferenza, se non al disprezzip, presente nel movimento operaio, il femminismo della seconda ondata tenderà a ricercare una netta autonomia, sia nell'organizzazione che nei suoi fondamenti teorici.
Ma è soprattutto nel contesto degli anni '60-'70, con la seconda ondata del femminismo, che il dibattito sulle cause materiali dell'oppressione delle donne prende piede. In un contesto di forte crescita, molte donne entrano nel mercato del lavoro e una parte significativa accede all'istruzione superiore, il che favorisce le riflessioni femministe.
Iniziano ad apparire numerose pubblicazioni femministe, che spesso cercano di dimostrare che l'oppressione delle donne consiste anche in uno sfruttamento materiale, al fine di conferirle una legittimità paragonabile a quella dello sfruttamento salariale.
Tra queste cause, il lavoro domestico ricorre spesso.
Tra il 1966 e il 1983 si svolse un importante dibattito sul lavoro domestico nel marxismo anglosassone, talvolta denominato DLD (Domestic labor debate). [per un approfondimento sul tema vedi: Diemut Elisabet Bubeck, The Domestic Labour Debate, Care, Gender, and Justice, Oxford, 1995]
Nel corso degli anni '70, si impose prevalentemente l'idea di due sistemi indipendenti, capitalismo e patriarcato. Ciò fu dovuto sia al declino del marxismo, sia alla diffusione della visione duale anche tra le femministe dei partiti marxisti. In Francia, ad esempio, coesistevano il «femminismo materialista» di Christine Delphy (duale) e il «femminismo di lotta di classe», quest'ultimo minoritario (nella foto a lato Christine Delphy).
Christine Delphy ha dato centralità al lavoro domestico, in particolare per prendere le distanze da ogni naturalismo. Si ispira alla griglia di analisi marxista, descrivendo per analogia l'oppressione delle donne come uno sfruttamento della «classe delle donne» da parte della «classe degli uomini», che sarebbe alla base di un «modo di produzione domestico», indipendente dal capitalismo. Esisterebbero quindi due sistemi, il capitalismo e il patriarcato.
Cercando di combattere la secondarizzazione della lotta femminista da parte delle organizzazioni del movimento operaio, ha invece teorizzato che per le donne il «nemico principale» è il patriarcato. Ha chiamato la sua visione «femminismo materialista».
L'autrice marxista Lise Vogel pubblica nel 1983 un libro intitolato Le marxisme et l'oppression des femmes, vers une théorie unitaire (Il marxismo e l'oppressione delle donne, verso una teoria unitaria) [Éditions sociales 2022]. In esso difende una visione unitaria, quella di un capitalismo patriarcale. In un contesto in cui la visione duale è largamente dominante, il libro di Vogel passa in gran parte inosservato al momento della sua pubblicazione.
La terza ondata del femminismo rilancia le discussioni teoriche, in particolare sull'intersezionalità, che ripropone le questioni dell'articolazione tra le oppressioni. Diverse marxiste, in particolare in ambito accademico, riscoprono la teoria della riproduzione sociale e la rivendicano: Tithi Bhattacharya, Sue Ferguson, Nancy Fraser, Cinzia Arruzza.
La teoria della riproduzione sociale parte dalle categorie marxiste e ne sviluppa i significati e le implicazioni per l'oppressione delle donne. Nella sua opera L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato (1884), Friedrich Engels scrive:
«Secondo la concezione materialista, il fattore determinante, in ultima analisi, nella storia è la produzione e la riproduzione della vita immediata. Ma, a sua volta, questa produzione ha una doppia natura. Da un lato, la produzione dei mezzi di sussistenza, degli oggetti che servono per il cibo, l'abbigliamento, l'alloggio e gli strumenti necessari; dall'altro lato, la produzione degli uomini stessi, la propagazione della specie. Le istituzioni sociali in cui vivono gli uomini di una certa epoca storica e di un certo paese sono determinate da questi due tipi di produzione: dallo stadio di sviluppo in cui si trovano, da un lato, il lavoro e, dall'altro, la famiglia».
Il lavoro domestico quotidiano, che ricade in gran parte sulle donne, è spesso sottovalutato e reso invisibile, ma senza questo lavoro nessun sistema economico come il capitalismo sarebbe concepibile.
Come si può vedere, nell'analisi storica sono integrati tutti i compiti necessari alla «produzione e riproduzione della vita immediata». Anche se Engels riserva il termine lavoro a ciò che è esterno alla famiglia, è ragionevole estendere il concetto, parlando piuttosto di lavoro produttivo e lavoro riproduttivo (definendo riproduttivo ciò che Engels chiama la "produzione degli uomini stessi").
Con questa chiave di lettura, è possibile attualizzare e sviluppare lo schema dell'evoluzione delle società umane proposto da Engels nel suo libro. Il materialismo storico è spesso presentato sinteticamente come un metodo per analizzare i rapporti sociali di produzione. La teoria della riproduzione sociale vuole essere un complemento a questo metodo, ricordando che l'analisi deve necessariamente integrare i rapporti sociali intorno al lavoro riproduttivo. Su questa base, è possibile chiarire l'evoluzione dei rapporti sociali di genere.
Il libro di Engels sull’origine della famiglia, che comunque resta un riferimento teorico essenziale, viene accusato di aver stabilito un collegamento meccanico tra l’oppressione delle donne e l’istituzione della proprietà privata, inducendo così a ritenere che il rapporto patriarcale non abbia alcuna autonoma rilevanza. Quest’idea (oltre a pregiudizi soggettivi profondamente radicati) può spiegare la convinzione dei comunisti del secolo scorso che ritenevano che l’oppressione di genere fosse, nel quadro capitalistico, una "contraddizione secondaria", cosa che portò a diffidare di un movimento femminista non specificamente orientato alla rivoluzione proletaria.
Oggi è possibile una riflessione più matura, riconoscendo che ci sono stati, e ci sono, rischi di una interpretazione unidirezionale del rapporto tra condizioni materiali e fattori culturali, ma il materialismo dialettico di Marx ed Engels non ne ha colpa. Perché è vero che Marx ha scritto che la prima forma di divisione del lavoro è stata quella “naturale” tra uomo e donna, ma, storicamente, si può affermare che un fattore anche “naturale” non è detto che debba durare in eterno. Inoltre Marx ha anche sostenuto che “nella famiglia monogamica la donna rappresenta il proletariato, l’uomo il borghese” e che l’antico antagonismo uomo-donna in questo tipo di famiglia ha anticipato i conflitti di classe comparsi nelle forme sociali più avanzate. Nei Grundrisse, inoltre, Marx si propone di studiare i fattori “genetici”, anche non economici, del capitalismo: non ha avuto il tempo di farlo, ma oggi noi possiamo ampliare le categorie concettuali marxiane e affermare che il diverso posizionamento delle donne nel lavoro riproduttivo ha contribuito a preparare il terreno per la nascita del modo di produzione capitalistico e ad assicurarne la continuità.
Basandosi sui dati dell'antropologia nascente, Engels prese come punto di partenza della sua analisi le prime società di cacciatori-raccoglitori, che non erano divise in classi, motivo per cui le definì "società di comunismo primitivo".
Egli sosteneva inoltre l'assenza di dominio degli uomini sulle donne. Successivamente, l'antropologia del XX secolo ha contraddetto questa idea. Probabilmente esistevano condizioni diverse per le donne, che andavano dall'oppressione a una situazione di equilibrio di status. In ogni caso, sembra chiaro che la comparsa delle classi dominanti abbia portato a un sistematico stabilimento di regole patriarcali, come pensava Engels.
La causa fondamentale è la necessità di garantire l'eredità delle proprietà private (soprattutto dei terreni), quindi garantire la filiazione e stabilizzare le famiglie di tipo monogamo ed eterosessuale. Si tratta di una messa in riga del lavoro riproduttivo.
Con lo sviluppo della produzione e lo sfruttamento del lavoro su scala più ampia (da parte delle classi dominanti), la società ha smesso di essere suddivisa sulla base dei legami di sangue, facendo prevalere i legami sociali e le basi territoriali, controllate dagli stati.
Nel comunismo primitivo, la produzione e la riproduzione non erano separate, poiché tutte le attività venivano svolte collettivamente nello stesso luogo. Ora, la riproduzione è limitata alla sfera privata e «il regime familiare è completamente dominato dal regime della proprietà» [è sempre Engels a parlare], quindi dalla produzione.
Eppure sono le donne ad essere state assegnate a questo lavoro riproduttivo in tutte le società di classe. Secondo Lise Vogel, la causa va ricercata nella gravidanza e nell'allattamento, che, in questo contesto sociale, avrebbero ostacolato le donne nel lavoro produttivo. Per estensione, le donne sarebbero state assegnate a tutti i compiti domestici, al di là dei soli momenti del parto.
L’androcentrismo persistente nella ricerca antropologica contemporanea non ci ha consentito finora di fissare il momento in cui gli ordinamenti familiari delle società arcaiche sono diventati patriarcali.
La scienza non dovrebbe essere viziata dai pregiudizi. Quando si guarda un oggetto a partire dai propri schemi mentali, si trova solo la conferma dei propri presupposti. Per fortuna, la recente cosiddetta "archeologia di genere” ha demolito la narrazione tradizionale di una preistoria dominata dalla figura maschile. Marija Gimbutas, Heide Göttner-Abendroth ed altre, hanno parlato di una millenaria cultura neolitica antecedente a quella di matrice indoeuropea, egualitaria e matrilineare, con culti religiosi rivolti a divinità femminili, confermando molti aspetti delle ricerche di Robin Morgan. Come e quando si sia rotto l’equilibrio del villaggio neolitico non si può dire con certezza, il fenomeno è molto complesso e certamente non si è verificato contemporaneamente dappertutto.
Quello che possiamo dire è che il patriarcato non ha alcun fondamento naturale, che ha storicamente contribuito ad instaurare un ordine di rapporti sociali gerarchici, che è radicato oggi nelle istituzioni della società capitalistica al punto da sembrare innato, e che la fine del modo di produzione capitalistico non gli impedirebbe automaticamente di mantenere la sua azione. Perciò serve un movimento di lotta delle donne indipendente ed autorganizzato.
È utile ricordare che, anche se il lavoro riproduttivo è stato assegnato molto presto alle donne, il lavoro svolto dalle donne non si è mai ridotto a questo. Soprattutto se si sposta lo sguardo dalle élite: ad esempio nell'antica Grecia, le donne delle famiglie benestanti erano confinate nel gineceo, ma non le donne del popolo.
Da un lato, una parte del lavoro svolto in ambito domestico è lavoro produttivo. Ad esempio, nelle famiglie contadine, in molte società è frequente che le donne lavorino nei campi, sia regolarmente che in occasione di eventi come il raccolto (che spesso coinvolge anche i bambini).
D'altra parte, il lavoro riproduttivo può sfociare in lavoro produttivo, ad esempio quando le contadine producono oggetti necessari alla riproduzione (vestiti, pane, latte...), ma occasionalmente vendono anche un surplus all'esterno.
Infine, in misura più o meno ampia a seconda delle società, esistevano donne che svolgevano lavori produttivi come artigiane indipendenti o che gestivano gli affari dei mariti in loro assenza (o in qualità di vedove).
Nel caso delle donne della nobiltà, una parte dei compiti riproduttivi era delegata alle domestiche, consentendo loro di dedicare più tempo alle attività di rappresentanza e politica.
Tutte queste modalità hanno subito importanti variazioni nel corso della storia.
Ci sono periodi in cui le donne entrano in massa nella sfera della produzione, ad esempio nel XIX secolo, e periodi in cui ne escono, in particolare nei momenti di transizione e di crisi dei modelli produttivi. Le donne che lavorano nella produzione svolgono spesso il ruolo di variabile di aggiustamento alle necessità della produzione.
Queste modalità devono quindi essere studiate caso per caso per ogni dato assetto sociale, ma ciò che è poco dubbio è che la sfera della produzione e quella della riproduzione sono collegate.
La transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata studiata da questo punto di vista, in particolare da Silvia Federici, che sostiene che dal XVI al XVII secolo si sia verificato un violento movimento di controllo del corpo delle donne, in particolare per privarle di determinate conoscenze e competenze (che lei integra nell'analisi marxista dell'accumulazione primitiva del capitale) e per costringerle a comportarsi docilmente «come una macchina da riproduzione» [vedi Calibano e la strega. Le donne, il corpo e l'accumulazione originaria, Mimesis], rispondendo così al crescente bisogno di manodopera.
È secondo questa stessa chiave di lettura che la teoria della riproduzione propone di affrontare la questione dell'oppressione delle donne sotto il capitalismo.
Si può preferire parlare di capitalismo patriarcale per designare l'unico sistema di sfruttamento. Si tratta quindi di opporsi all'idea di due sistemi separati (capitalismo e patriarcato), sottolineando al contempo che questi due aspetti sono intrecciati.
Nel Capitale, Marx afferma che «ogni processo di produzione sociale è [...] allo stesso tempo un processo di riproduzione». (Affronta direttamente la questione della riproduzione in due passaggi, rilevati da Vogel, nel Primo Libro, Cap. 23).
Infatti, il plusvalore deriva dallo sfruttamento della forza lavoro, ovvero l'insieme delle «capacità fisiche e intellettuali [che un essere umano] mette in moto ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi tipo» [sempre nel Capitale, Libro 1°, cap. 6].
Affinché il capitalista continui giorno dopo giorno a disporre della stessa forza lavoro (caso della riproduzione semplice), è necessario che questa venga riprodotta, il che implica:
Una riproduzione nel senso di procreazione biologica (parto, allattamento e tutto il lavoro di allevamento ed educazione dei bambini...) a un ritmo sufficiente.
Una riproduzione intesa come recupero fisico quotidiano (pasti, riposo), compreso un ammortamento per tutto ciò che è soggetto a usura a lungo termine (abbigliamento, riscaldamento, mobili...).
Marx non entra nei dettagli.
Per quanto riguarda la procreazione, si limita addirittura a scrivere che «il capitalista non ha nulla di cui preoccuparsi, può fidarsi dell'istinto di conservazione e dell'istinto sessuale dei lavoratori». Egli sottovaluta senza dubbio il peso delle norme sociali più o meno esplicite anche in questo campo.
Tuttavia, partendo da questo quadro teorico, è facile colmare le lacune. Per quanto riguarda i beni che servono alla riproduzione quotidiana della forza lavoro, va sottolineato che una parte di essi è disponibile sul mercato sotto forma di merci (piatti pronti, abbigliamento...), e una parte prodotta direttamente nell'ambito familiare, e quindi prevalentemente dalle donne (piatti cucinati, abiti rammendati...). Sono indispensabili anche alcuni “servizi”, come un certo livello di pulizia della casa, riordino... Si può anche menzionare in questo contesto il lavoro di cura che, anche se sfugge a una chiara quantificazione, svolge un ruolo nel “ristoro” emotivo di chi svolge il lavoro.
Se la famiglia rimane il luogo centrale di questi compiti legati alla riproduzione, non è l'unico. Citiamo anche:
il lavoro riproduttivo mercificato: piatti pronti, servizi di pulizia, asili nido privati, assistenza domiciliare...
il lavoro riproduttivo socializzato: asili nido pubblici, scuole, mense, ospedali...
Il lavoro svolto in ambito domestico o in ambito socializzato, non mercificato, non produce plusvalore in senso capitalistico. D'altra parte, essendo una condizione per la riproduzione della forza lavoro, è una condizione per la produzione di plusvalore.
Per Lise Vogel (nella foto a lato), il capitalismo è attraversato da una tensione tra lavoro riproduttivo e lavoro salariato. Il lavoro riproduttivo è indispensabile per garantire il lavoro salariato, ma il suo “costo” viene trasferito sul “costo” del lavoro salariato. Il capitale cerca sempre di ridurlo: esercitando una pressione al ribasso sui salari, mette indirettamente sotto pressione il lavoro riproduttivo (una donna può trovarsi costretta a fare di più con meno, a indebitarsi con un commerciante...). Ma, proprio come la frenetica estrazione di plusvalore assoluto (aumento delle ore di lavoro...), ciò minaccia a breve o medio termine la forza lavoro e quindi il plusvalore.
Una delle soluzioni attuate dagli stati è quella di socializzare una parte del lavoro riproduttivo, al fine di ridurne il costo attraverso la mutualizzazione. Se questo può teoricamente avvantaggiare i capitalisti, essi possono anche considerare che ciò sia troppo costoso (i servizi pubblici non sono il risultato di una pura logica capitalista, ma anche il frutto di lotte sociali, e possono quindi essere "troppo" sviluppati dal punto di vista capitalista).
Questi strumenti aiutano ad analizzare i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni. A partire dagli anni '80-'90, periodo di rallentamento duraturo della crescita (della sfera produttiva capitalista), sembra intensificarsi un nuovo fenomeno di ristrutturazione.
Una parte importante del lavoro riproduttivo è diventata lavoro salariato. Si può vedere in questo sia per il capitalismo:
La ricerca di una riduzione dei costi di riproduzione (in particolare la cosiddetta "uberizzazione" esercita una pressione concorrenziale sugli “autoimprenditori”, precari, CoCoCo, false partite IVA, ecc.)
La ricerca di nuovi mercati da mettere a disposizione dell'accumulazione di capitale (sottraendoli al settore pubblico).
L'ingresso del lavoro riproduttivo nella sfera salariata non significa che esso diventi neutro dal punto di vista del genere e della razza.
Nei paesi imperialisti, i servizi che assicurano il lavoro riproduttivo sono in gran parte forniti da donne, molte delle quali appartenenti a minoranze etniche.
Va notato che questo lavoro riproduttivo, anche se trasformato in servizio commerciale, conserva alcune specificità. È meno meccanizzabile e automatizzabile. Ciò è spesso vero per i servizi in generale, ma ancora di più per i servizi alla persona, che costituiscono gran parte del lavoro riproduttivo. Le assegnazioni di genere fanno sì che siano soprattutto le donne (spesso immigrate) a svolgere questi lavori.
E uno dei modi in cui il capitalismo riduce il costo di questi servizi è il ricorso massiccio alla manodopera immigrata. Da un lato, il paese capitalista ospitante non ha dovuto pagare la produzione “iniziale” di questa forza lavoro e, dall'altro, può continuare a sottopagarla (pressione sulle "clandestine", razzializzazione di certe lavorazioni...).
Questi processi tendono a produrre una situazione in cui le donne delle classi medie e alte possono scaricare parte del lavoro riproduttivo sui lavoratori dipendenti, che spesso sono donne vittime di razzismo. Questo fenomeno è una delle fonti di divisione tra le donne, alimentando potenzialmente il razzismo, il femonazionalismo... [vedi Sara Farris, Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne. Alegre].
La crisi del 2008, crisi della sfera produttiva, ha nuovamente un impatto sulla sfera riproduttiva. Le risposte dei politici borghesi tendono ad andare in due direzioni, che possono essere viste come due diverse forme di tendenza alla privatizzazione:
Accentuazione degli attacchi al settore socializzato (privatizzazione o sottofinanziamento cronico dei servizi pubblici).
Accentuazione dei discorsi che riassegnano le donne al lavoro riproduttivo, sostenendo il ritorno al lavoro domestico nella sfera privata, il che implica un inasprimento nei confronti delle persone che mettono in discussione la dualità delle identità di genere. Da qui deriva anche la legittimazione della violenza sessuale contro le donne. [vedi Tithi Bhattacharya, Comprendre la violence sexiste à l’époque du néolibéralisme, International Socialist Review, 2013]
Al contrario, un movimento progressista che lotta per gli interessi delle donne, delle minoranze di genere e dei lavoratori sfruttati non può che essere un movimento per una maggiore giustizia sociale e quindi per una maggiore socializzazione. Coloro che subiscono il pieno impatto dello sfruttamento eccessivo e del contraccolpo reazionario antifemminista, e che sono portatrici di quella che a volte viene chiamata la "quarta ondata del femminismo", sono al centro di questo movimento progressista da (ri)costruire.
Con questa griglia di analisi in mente, possiamo vedere il posizionamento della teoria della riproduzione sociale rispetto al dibattito sul lavoro domestico degli anni '70 e al dibattito su un sistema o due sistemi. Come scrive Aurore Koechlin:
«Si vede tutta l'importanza del lavoro riproduttivo e si superano anche i dibattiti degli anni '70 sul lavoro domestico e sulla questione se esso produca plusvalore: esso è la condizione sine qua non della produzione di plusvalore. (...) Una teoria unitaria coerente ne dedurrà che ci troviamo di fronte a un sistema tanto capitalista quanto patriarcale, un sistema che possiamo definire «capitalo-patriarcale» o «patriarcale-capitalista». Ciò equivale a cambiare la nostra visione del capitalismo: la questione della riproduzione è centrale tanto quanto quella della produzione.»
Ma questa non è solo una risposta ai dibattiti degli anni '70 con il "femminismo materialista", è anche una risposta ai dibattiti contemporanei con alcune visioni dell'intersezionalità, che difendono l'esistenza di una molteplicità di sistemi che devono essere pensati e combattuti separatamente.
Pensare una teoria unitaria non significa rendere il capitalismo l'unica o la principale forma di dominio esistente, ma trasformare la nostra visione del capitalismo: questo sistema è allo stesso tempo un sistema di dominio di classe, di genere e di razza. Lo è in modo inestricabile e unitario, è tutto questo allo stesso tempo, è totale.
Merita maggior rilievo la campagna per il salario al lavoro domestico, che ha aperto un dibattito importante sul terreno della riproduzione sociale. Questa campagna plurinazionale, lanciata negli anni Settanta del secolo scorso da Mariarosa Dalla Costa e Selma James, riprende gli schemi marxiani della riproduzione semplice per rivelare l’esistenza di un lavoro nascosto delle donne, necessario alla produzione capitalistica e, a loro avviso, produttivo di plusvalore. È un approccio dualistico, che vede nella “fabbrica sociale” l’altro polo dell’accumulazione capitalistico. Il nucleo più forte di questo movimento transnazionale si trovava in Italia, a Padova, formato da ex militanti di "Potere Operaio", organizzazione da cui erano uscite rimproverandole di ignorare la potenziale capacità sovversiva di un movimento femminista radicale. Si tratta di un movimento lanciato dal Collettivo femminista internazionale alla Conferenza femminista internazionale del 1972 a Padova. Nel giro di due anni, la campagna (che ha nel frattempo "internazionalizzato" il nome assumendo la denominazione “Wages for Housework”-WfH) ha tenuto la propria conferenza internazionale a Brooklyn, New York, con gruppi WfH che si sono organizzati negli Stati Uniti, in Canada, nel Regno Unito, in Italia e altrove.
Clara Zetkin
Rosa Luxemburg
Aleksandra Kollontaj
Nadežda Krupskaia
E' giusto riservare più spazio alle socialiste e comuniste dei principi del secolo scorso, che avevano consapevolezza dell’oppressione specifica delle donne. Clara Zetkin, Rosa Luxemburg, Aleksandra Kollontaj e Nadežda Krupskaia pensavano che per l’emancipazione delle donne proletarie non bastava sostituire al capitalismo un sistema socialista e le chiamarono alla lotta, invitando tutto il movimento operaio a comprendere il legame esistente tra sfruttamento di classe e femminilità oppressa. Soprattutto Rosa Luxemburg chiarisce che la subordinazione di genere e di “razza” non è una delle tante ingiustizie del capitalismo ma piuttosto un suo indispensabile fondamento. Questa intuizione non ebbe all’epoca grande seguito a livello teorico, mentre le numerose conquiste pratiche portate in Russia alle donne dalla rivoluzione d’ottobre furono ben presto inghiottite dalla controrivoluzione. Ma questa esperienza ha offerto una base per le elaborazioni successe nel campo di pensiero del femminismo rivoluzionario.