Capitalismo
e ecologia
e ecologia
La competizione per il profitto genera strutturalmente uno spreco di energia, di risorse (e di tempo di lavoro!) e, a sua volta, provoca una grande quantità di inquinamento.
L'avvento del capitalismo ha significato l'ingresso in un mondo di crescita esponenziale. Nonostante le crisi periodiche, il capitalismo genera strutturalmente una crescita esponenziale del PIL. (nel Grafico qui a fianco la crescita del PIL procapite mondiale tra il 1500 e il 2000)
A rigor di termini, la crescita del PIL non implica di per sé che questa crescita sia inquinante. Ma:
il fatto che sia esponenziale tende ad aumentare tutti gli impatti (paradossalmente anche se la produzione diventa "più pulita");
Per sua stessa natura, il capitalismo ostacola la possibilità di generalizzare le buone pratiche ecologiche.
Per ogni area di produzione, ci sono diverse aziende, ciascuna con i propri locali, macchinari, fornitori e subappaltatori, che producono gli stessi (o quasi gli stessi) beni. La centralizzazione del capitale limita in qualche modo questo fenomeno, ma genera comunque assurdità monumentali.
Così, due aziende private (Iridium e Globalstar) hanno lanciato ciascuna decine di satelliti per fornire due coperture globali concorrenti. Lo stesso vale per le reti dei vari operatori di telefonia mobile (TIM, Vodafone, WindTre e Iliad, in Italia). Nei supermercati, il numero elevato di marche diverse è lungi dall'essere sempre giustificato dalla "varietà di scelta". A volte la differenza è solo nel prezzo, a volte nella qualità, e le gamme destinate ai poveri li espongono a rischi aggiuntivi. Un simile cinismo sarebbe impensabile nella società senza classi per la quale stiamo lottando.
Questo problema strutturale è aggravato dalla liberalizzazione. La concorrenza nelle reti elettriche e nel trasporto ferroviario è fonte di inefficienza complessiva (interruzioni di corrente, necessità di riavviare treni o macchinari, ecc.). Allo stesso modo, avere più fornitori di Internet a banda larga richiede infrastrutture aggiuntive (unbundling). Le varie banche, compagnie assicurative, agenzie immobiliari, ecc., sono più una perdita di tempo che altro. E il semplice passaggio da un singolo numero di assistenza telefonica (12) a diversi (uno per ogni operatore…) moltiplica il numero di centralini telefonici e le apparecchiature da acquistare.
Nel settore dei trasporti, il capitalismo ha costruito una rete globale priva di qualsiasi logica complessiva. Per fare solo alcuni esempi:
Gli Stati Uniti, ricchi di legname, importano fiammiferi dal Giappone, che depreda le foreste indonesiane, mentre il Giappone importa le bacchette dagli Stati Uniti.
Ogni anno il Regno Unito importa 60.000 tonnellate di pollo dall'Olanda, mentre l'Olanda importa 30.000 tonnellate di pollo britannico che viaggiano nella direzione opposta.
Durante l'incidente del tunnel del Monte Bianco, uno dei camion coinvolti stava riportando nel Nord Europa patate trasformate in patatine in Italia, mentre la carta igienica veniva trasportata in entrambe le direzioni.
Attraverso fusioni e acquisizioni di subappaltatori nel settore automobilistico, i componenti del motore potevano arrivare dal Brasile o dagli Stati Uniti per essere assemblati in Europa sui veicoli Fiat o Volkswagen, mentre componenti equivalenti attraversavano l'Oceano Atlantico nella direzione opposta per essere montati sui veicoli Chrysler, Ford o General Motors.
A Pointe-à-Pitre, nella Guadalupa, si trovano arance provenienti dal Sudafrica, a volte transitate per la Francia, mentre arance uguali vengono coltivate in America Centrale o nella vicina Florida…
I gamberi pescati in Europa vengono trasportati nel Maghreb per essere sgusciati e poi riportati in Europa per essere venduti e consumati.
Anche in questo caso, la liberalizzazione aggrava il problema. Dalla svolta neoliberista, il commercio globale è aumentato molto più rapidamente del PIL globale, poiché i capitalisti hanno scomposto le catene di produzione per ottimizzare i costi (vedi il trend del grafico 1827-2014 sul volume del commercio internazionale, qui a sinistra). La pianificazione, d'altra parte, potrebbe razionalizzare drasticamente i trasporti: avvicinando le fabbriche alle ferrovie o alle vie d'acqua, trovando il giusto equilibrio tra concentrazione (economie di scala) e limitazione dei trasporti... È difficile stimare tutti i risparmi energetici e di inquinamento che la pianificazione socialista potrebbe generare (secondo alcune valutazioni una pianificazione di questo tipo potrebbe generae un 6% in meno dei gas serra).
Le delocalizzazioni sono semplicemente un'estensione di questa tendenza all'internazionalizzazione dei mercati. Vengono spesso citati esempi di beni tipici che viaggiano intorno al mondo più volte durante la loro produzione, come un paio di jeans che può percorrere fino a 65.000 km prima di essere venduto.
Alcune fasi comportano necessariamente il trasporto (il cotone non può essere coltivato ovunque), ma solo la logica del profitto capitalista impone che il cotone venga filato in Turchia, tinto in Bulgaria, che il tessuto venga tessuto a Taiwan, che i jeans vengano assemblati con bottoni e rivetti in Tunisia... La globalizzazione del commercio ha reso le persone interdipendenti e ha esaltato i comuni interessi del proletariato globale. Ma attualmente si tratta di un processo cieco, con effetti caotici e che non lascia ai lavoratori di tutto il mondo alcun controllo sui frutti del loro lavoro.
I mezzi di trasporto "pesanti" (barche, chiatte, treni, ecc.) hanno iniziato ad essere abbandonati a favore dei camion, a partire dal dopoguerra, in un contesto di strade e stazioni di servizio diffuse e di petrolio a basso costo.
Questa tendenza ha subito un'accelerazione a partire dagli anni '80, quando capitalisti e stati hanno risposto al calo dei tassi di profitto con la "svolta neoliberista". La produzione just-in-time si è diffusa: per massimizzare il ritorno sul capitale, le scorte vengono ridotte al minimo e i trasporti devono quindi essere i più flessibili possibile. In questo modo, i percorsi vengono adattati il più possibile alla domanda, che fluttua in base alla volatilità del mercato. Così, in Europa negli ultimi 30 anni sono stati costruiti 1.200 km di strade all'anno, mentre sono stati chiusi 600 km di linee ferroviarie.
In molti settori, per ridurre al minimo il rischio di perdite cicliche e ottenere risparmi sui costi attraverso salari più bassi, intere fasi della produzione sono state esternalizzate.
La stessa logica si applica alla forza lavoro: i datori di lavoro hanno esternalizzato numerose posizioni (personale addetto alle pulizie e alla manutenzione, ecc.) per evitare di assumere personale e pagare solo per i servizi resi. In tutti i casi, ciò genera spostamenti e quindi emissioni di gas serra evitabili.
Esiste una tendenza generale all'obsolescenza dei prodotti. Questa può essere addirittura "pianificata": i capitalisti sono tentati di ridurre la durata di vita dei loro beni per incoraggiare acquisti più frequenti. Tuttavia, la concorrenza limita questo fenomeno: i produttori che non si trovano in una posizione di monopolio o di cartello non possono limitare liberamente la qualità dei loro prodotti senza che ciò favorisca gli acquisti dei concorrenti.
Le cause dell'obsolescenza sono principalmente strutturali. Ad esempio, l'elevato numero di articoli incompatibili (dai cavi elettronici alle lamette da barba) contribuisce all'impossibilità di ripararli. Di conseguenza, solo il 20% dei dispositivi fuori garanzia che si rompono viene effettivamente riparato. A ciò si aggiunge l'effetto dell'aumento del costo della manodopera rispetto al costo dei beni – e della complessità tecnologica di questi beni – che sta rovinando i piccoli riparatori indipendenti che un tempo se la cavavano da soli. Ma un approccio socializzato alla riparazione potrebbe certamente essere preso in considerazione, direttamente collegato alla produzione: parti soggette a usura progettate per una facile sostituzione, schemi e manuali tecnici liberamente accessibili, formazione facilitata dalla standardizzazione... Tuttavia, tutto ciò si scontra frontalmente con il capitalismo, e in particolare con i segreti commerciali dei concorrenti .
Il capitalismo non solo promuove l'obsolescenza, ma ha anche generato un numero enorme di prodotti progettati specificamente per essere "usa e getta".
Imballaggi eccessivi e imballaggi monouso: in media, ogni europeo produce quasi 180 kg di rifiuti di imballaggio all'anno. Gli imballaggi sono tra i principali prodotti ad impiegare materiali vergini: il 40% della plastica e il 50% della carta utilizzate nell'UE sono infatti destinati agli imballaggi.
Anche la gestione dei rifiuti sta diventando più difficile: i produttori e le varie aziende del settore dei rifiuti stanno scaricando la responsabilità del miglioramento dei processi… Ad esempio, oggi si ricicla pochissima plastica, principalmente perché ne esistono di diverse composizioni, rendendo quasi impossibile la selezione nei centri di riciclaggio. Per quanto riguarda il vetro, i parabrezza vengono raramente riciclati perché il loro smantellamento è variabile e richiede molta manodopera, generando in definitiva scarsi profitti. Va anche notato che, con poche eccezioni locali, il mercato capitalista ha ucciso il sistema di deposito cauzionale delle bottiglie.
Ogni processo produttivo genera impatti ambientali e rischi di incidenti. È un dato di fatto: il rischio zero non esiste. Ma numerosi scandali ambientali rivelano anche che i capitalisti spesso corrono rischi deliberati per massimizzare i profitti. E il più delle volte, non sono loro a pagarne il prezzo (l'inquinamento è universalmente ritenuto un "fattore esterno").
Nel trasporto marittimo, ciò si traduce, ad esempio, in fuoriuscite di petrolio: sia incidenti (navi della spazzatura, con personale marittimo ridotto e stremato da turni massacranti, pressione per sottovalutare i rischi di tempesta...) sia svuotamento illegale della zavorra (che rappresenta altrettanti, se non maggiori, scarichi di idrocarburi) per evitare di pagare in porto.
Nel campo del trattamento dell'inquinamento dell'aria e dell'acqua, sappiamo come realizzare filtri molto efficienti che prevengono la maggior parte dell'inquinamento, ma sono pochissime le industrie che utilizzano le tecniche più efficienti (e più costose): c'è bisogno di pressione pubblica/ambientale, di normative...
Nel settore nucleare si può parlare dell’assurdità delle centrali costruite in zone sismiche (Fukushima…), ma anche della nuova ipocrisia sulla “sicurezza" del nucleare di ultima generazione: norme di sicurezza presumibilmente rigide… che peraltro non si applicano.
Quando c’è sovrapproduzione, questo a volte porta gli (agro)industriali a distruggere semplicemente alcuni beni per aumentare i prezzi. Certo, tale distruzione non è così frequente, ma è un simbolo dello spreco del sistema capitalista.
Nel settore della distribuzione, accade sempre più spesso che merci ancora in buone condizioni vengano buttate via. Le ragioni possono essere diverse:
Aziende come Amazon realizzano i loro profitti vendendo la maggior quantità di beni nel più breve tempo possibile. Pertanto, qualsiasi merce che vende meno bene occupa spazio nei loro magazzini che potrebbe essere utilizzato per altri beni più desiderabili, dando ad Amazon un incentivo a smaltirla come rifiuto.
Per lo stesso motivo, molti supermercati buttano via prodotti in buone condizioni o leggermente danneggiati (un prodotto che ha subito un urto, una confezione strappata, ecc.). Ciò che è particolarmente scioccante è il caso del cibo che viene buttato via mentre è ancora commestibile (ad esempio, frutta e verdura che potrebbero non sembrare del tutto fresche il giorno dopo, quando arriva la consegna successiva). Questo accade mentre molte persone povere hanno fame e rovistano nei bidoni della spazzatura in cerca di cibo. Come se non bastasse, molti supermercati erano soliti versare candeggina nella spazzatura per scoraggiare i poveri dal rovistare. In Italia, nel 2016 è stata approvata una legge contro lo spreco alimentare (legge Gadda), che proibisce specificamente queste pratiche, ma alcuni supermercati lo fanno ancora.
Nel settore editoriale è più economico produrre libri in grandi quantità e distruggere le copie invendute (anch'esse in grandi quantità) piuttosto che produrre ciò che serve.
A volte i marchi di lusso distruggono i prodotti invenduti, per impedirne la vendita a prezzi ridotti e perché non vogliono che le loro scorte invendute finiscano sul mercato dell'usato, facendo scendere i prezzi e "svalutando" la loro immagine di marca.
Il capitalismo ha un bisogno strutturale di pubblicità. Ogni capitalista cerca di incrementare le vendite dei propri beni (a spese di quelli altrui). La pubblicità è anche un mezzo per controllare la linea editoriale dei media: quando un quotidiano pubblica qualcosa di sgradevole per un marchio, quel marchio taglia ogni contributo pubblicitario. Allo stesso modo, l'enorme volume di pubblicità per le automobili limita la capacità di criticare l'impatto ambientale di questo importante settore industriale.
Nel 2005, le aziende manifatturiere francesi (esclusi i produttori di energia) hanno speso 18,2 miliardi di euro in marketing, di cui quasi 10 miliardi di euro per i soli produttori alimentari. Nel 2006, l'industria farmaceutica ha speso in marketing la stessa cifra investita in ricerca e sviluppo, circa 30 miliardi di dollari.
L’assalto pubblicitario è un consumo costante ed eccessivo: vetrine illuminate tutta la notte, stampa, trasporto e affissione di manifesti, inserti sui giornali, riprese di video musicali… In Italia la spesa pubblicitaria ammonta a non meno di 20 miliardi di euro all’anno e vengono distribuiti circa 17 kg di volantini nella posta per ogni abitante. Tra le categorie merceologiche che hanno guidato il mercato italiano, il settore automobilistico ha dominato con una spesa stimata di 239 milioni di euro.
Un numero significativo di pubblicazioni settimanali e mensili è costituito, per quasi il 50% del suo contenuto, da semplici inserti pubblicitari.
A partire dalla svolta neoliberista, molti settori che in precedenza erano monopoli pubblici (soprattutto perché erano monopoli naturali), come il settore energetico, sono stati liberalizzati in nome dell'"efficienza" del settore privato, spacciato per superiore.
Questa liberalizzazione non solo ha peggiorato la situazione per i consumatori, ma ha anche eliminato leve di azione per la transizione energetica. Nel mercato dell'elettricità, per i fornitori, le emissioni di carbonio in base al metodo di produzione sono considerati puri "fattori esterni"...
Per tutte queste ragioni, il capitalismo è strutturalmente dannoso per l'ambiente. Ciò ha portato a un'accelerazione di vari squilibri ecologici (ecosistemi sconvolti, che minacciano di portare alla morte di molti esseri umani), che può essere vista come una crisi ecologica globale, strettamente correlata al capitalismo. Ecco perché possiamo parlare di Capitalocene.
L'inquinamento (dell'acqua, dell'aria, del suolo) minaccia la salute umana e quella di molte specie vegetali: stiamo assistendo all'estinzione di numerose specie viventi (collasso della biodiversità), che minaccia anche l'umanità attraverso le numerose interdipendenze indirette (meccanismi ecosistemici). Anche lo sfruttamento eccessivo dell'acqua in determinate regioni e in determinati periodi dell'anno può portare a crisi (siccità, ecc.).
Tra gli inquinanti atmosferici bisogna distinguere due tipologie: gli inquinanti che portano a problemi locali (problemi respiratori o aumento del rischio di cancro...), e un inquinante particolare, l'anidride carbonica (CO2), che non ha un impatto diretto sulla salute, ma che accentua l'effetto serra atmosferico, provocando il cambiamento climatico.
Il cambiamento climatico è senza dubbio il problema più preoccupante all'interno della crisi ecologica globale che stiamo vivendo, per due motivi:
Minaccia l'umanità non a livello locale ma globale: crollo accelerato della biodiversità, perversione dell'agricoltura e dell'allevamento, aumento del rischio di malattie, innalzamento del livello del mare...
Il capitalismo si basa sull'abbondanza di energia, che finora è stata ottenuta attraverso la dipendenza dai combustibili fossili, che rilasciano grandi quantità di CO2. È un fatto provato che le normative sono state in grado di limitare o risolvere alcuni problemi di inquinamento locali, e persino alcuni globali (buco dell'ozono, piogge acide, ecc.). Tuttavia, nonostante decenni di prese di posizione, il problema del cambiamento climatico non è affatto sulla buona strada per essere risolto dalle classi dirigenti.
Di fronte a tutta la retorica che si limita a parlare di "responsabilità dell'umanità", è importante sottolineare le enormi differenze di responsabilità, perché l'umanità non agisce – al momento – come un'entità unitaria e consapevole. Da un certo punto di vista, non è affatto governata, poiché la stragrande maggioranza degli effetti delle attività umane è il prodotto di un sistema economico "cieco". Ciononostante, si può affermare che le classi dominanti e i paesi imperialisti hanno una responsabilità schiacciante. A livello mondiale, il 10% più ricco è responsabile della metà delle emissioni di CO2 (vedi il grafico a lato, fonte OXFAM).
Storicamente, i vecchi paesi imperialisti sono responsabili di emettere 100 volte più CO2 rispetto ai paesi dominati, cosa che sono costretti a riconoscere tacitamente negli accordi internazionali ("responsabilità comuni ma differenziate"). Inoltre, i poveri subiscono una doppia penalizzazione: mentre sono meno responsabili, sono anche coloro che subiscono le conseguenze più violente delle crisi ecologiche.
Nei paesi ricchi, lo sviluppo della società dei consumi richiede un cambiamento globale. La semplice riduzione dei consumi da parte degli ultra-ricchi non sarà sufficiente a risolvere la crisi ecologica. Tuttavia, le responsabilità rimangono fortemente diseguali e le classi lavoratrici nutrono un risentimento in parte legittimo nei confronti della "morale eco-civica" predicata da certi "radical chic", che in realtà hanno un impatto ecologico maggiore. In pratica, ci sono molte differenze tra le persone raggruppate sotto il termine onnicomprensivo di "radical chic", e l'impatto ecologico non è sempre quello che si potrebbe pensare:
una piccola minoranza di cittadini in realtà ha un impatto molto negativo, soprattutto perché prendono molti aerei;
un certo numero di persone che vivono in aree rurali o periurbane, per lo più uomini e benestanti, hanno uno stile di vita piuttosto energivoro, usando molto l'auto;
le categorie della classe media urbana, prevalentemente femminile, sono quelle con gli stili di vita più rispettosi dell’ambiente.
Non può esserci una trasformazione ecologica radicale senza lotta di classe (la socializzazione permetterebbe la riconfigurazione dell'apparato produttivo, rompendo l'influenza della pubblicità, ecc.). È quindi necessario combattere contro il discorso dei politici borghesi che riducono l'ecologia a piccoli gesti, mentre gli ultra-ricchi mantengono uno stile di vita catastrofico, che in realtà serve da modello ideale per molte persone.
In alcuni circoli della classe operaia, c'è spesso il desiderio di mostrare il successo attraverso il consumo ostentato. Tuttavia, a parità di reddito, altri gruppi sociali consumano meno. Si tratta spesso di gruppi con maggiore capitale culturale, che cercano, in parte, meno mezzi materiali di affermazione sociale. Il comunismo consentirebbe anche una trasformazione delle mentalità, mitigando alla radice la necessità di consumare eccessivamente per migliorare il proprio status.
Dopo la sua elezione, Trump ha ritirato il suo paese dall'"Accordo di Parigi" e Bolsonaro ha facilitato la deforestazione dell'Amazzonia.
Molti politici e grandi dirigenti (soprattutto tra i lobbisti dei combustibili fossili o di altre industrie inquinanti) stanno tenendo discorsi apertamente anti-ambientalisti, mescolando negazionismo scientifico (scetticismo climatico...) e demagogia rivolta all'elettorato piccolo-borghese dei paesi ricchi che non vuole che il proprio stile di vita venga messo in discussione.
Tuttavia, sia all'interno delle classi dirigenti che nell'opinione pubblica in generale, questo tipo di posizione è diventata una visione minoritaria. C'è un consenso maggioritario sul fatto che "bisogna fare qualcosa", che "bisogna fare degli sforzi", e così via.
Per i politici che sfruttano maggiormente questa posizione, usare le figure reazionarie più caricaturali (come Trump o Bolsonaro) come antagonisti è un modo comodo per presentarsi come leader "illuminati" e mascherare il fatto che la loro retorica porta a pochissime conseguenze pratiche. (nella foto a lato, due noti negazionisti: Jair Bolsonaro e Donald Trump)
Naturalmente, misure politiche possono essere adottate dagli stati borghesi, soprattutto se sotto la pressione dei movimenti operai e ambientalisti. Ma l'esperienza degli ultimi decenni, e in particolare il cambiamento climatico, dimostra l'inefficacia di queste misure. Ecco perché parlare di "capitalismo verde" è principalmente un'ingannevole ideologia borghese volta a rendere il capitalismo più appetibile.
Il "grado zero" di questa ideologia borghese del capitalismo verde è quello delle campagne di puro marketing volte a far apparire tale ciò che non è "ecologico". Questo è ciò che gli ambientalisti critici chiamano greenwashing, noto anche come "eco-whitewashing" o "greening". Ha il vantaggio di consentire a questi capitalisti di capitalizzare sulla "consapevolezza ecologica" dei consumatori e quindi di posizionarsi in una nicchia che spesso giustifica prezzi leggermente più alti.
È interessante notare che gli ideologi puristi del liberalismo economico detestano fortemente il discorso che spesso accompagna il greenwashing, quando porta a presentare l'azienda come guidata da motivazioni diverse dal profitto. Infatti, poiché il liberalismo afferma che è perseguendo solo il profitto che i capitalisti ottengono la migliore allocazione possibile degli investimenti, puntare a qualsiasi tipo di interesse generale è già considerato un'eresia. Come disse Milton Friedman:
"Poche cose mi fanno più male allo stomaco che guardare queste pubblicità televisive, in particolare quelle di alcune compagnie petrolifere, che ci fanno credere che il loro unico scopo sia la salvaguardia dell'ambiente".
Ma ciò che domina nel discorso per metà ingenuo e per metà ipocrita sul capitalismo verde è l'idea che tenere conto dell'ambiente sia una situazione vantaggiosa per le aziende. Il greenwashing trasforma l'ambientalismo per certe aziende da un problema in un business.
È innegabile che esistano diverse tecniche che migliorano sia la redditività che l'impatto ambientale. Questo vale per tutto ciò che riguarda l'efficienza energetica dei processi o, più in generale, l'efficienza in termini di riduzione delle materie prime consumate per una determinata produzione.
Tuttavia, queste tecniche richiedono investimenti significativi in processi tecnologicamente più avanzati (a elevato capitale fisso). Tuttavia, quando i margini di profitto sono bassi, questo tipo di investimento risulta meno attraente per i capitalisti. Ciò è particolarmente vero a partire dagli anni '80 nei vecchi paesi imperialisti, che sono impantanati in una grave sovraccumulazione di capitale.
Di conseguenza, l'innovazione è meno stimolata e, soprattutto, le migliori tecniche disponibili vengono adottate solo molto lentamente. A parte i nuovi stabilimenti o rami di produzione, l'infrastruttura industriale sta invecchiando ovunque, il che ha conseguenze sulla sicurezza e sull'efficienza e quindi sul consumo di energia e risorse. Negli Stati Uniti, alcune raffinerie hanno più di 70 anni, come quella esplosa in Texas nel 2005, che non aveva ricevuto praticamente alcuna manutenzione.
Nella produzione di energia elettrica, sebbene si possano realizzare turbine a vapore con un'efficienza del 60%, la maggior parte delle centrali termoelettriche, soprattutto nei paesi poveri, ha turbine con un'efficienza di circa il 30%.
In molti settori, ciò che è considerato rifiuto può tecnicamente essere riutilizzato in un altro ambito produttivo, a patto che vengano effettuati determinati investimenti.
In molti casi, un'opzione meno dannosa per l'ambiente potrebbe essere redditizia, ma gli investimenti non vengono effettuati perché i capitalisti ritengono che il ritorno sull'investimento sia troppo lontano, o che l'economia sia troppo debole, o che abbiano troppa incertezza sulla futura situazione economica e preferiscano i profitti immediati agli investimenti.
Turbina a vapore di ultima generazione
Nei vecchi paesi imperialisti , la pressione dei movimenti sindacali e ambientalisti ha portato generalmente all'adozione di normative a tutela dell'ambiente e della salute pubblica. Con l'arricchimento dei grandi gruppi capitalisti di questi paesi, è diventato legittimo, anche agli occhi dei riformatori borghesi più moderati, imporre che una parte di questi profitti fosse destinata alla prevenzione dei rischi.
I paesi meno industrializzati, d' altro canto, concentrano tutte le loro energie nel recuperare il loro "divario di sviluppo", con molta meno attenzione all'ambiente e alla salute. I lavoratori più poveri subiscono maggiori pressioni per accettare condizioni di lavoro anche pericolose, purché ricevano un salario. Nei paesi con i regimi più autoritari, gli attivisti ambientalisti vengono repressi allo stesso modo dei sostenitori di migliori condizioni di lavoro (queste due questioni spesso si sovrappongono), al fine di proteggere i profitti aziendali.
Gli stati capitalisti e i datori di lavoro di questi paesi hanno posseduto quindi un vantaggio che ha consentito loro di beneficiare parzialmente della globalizzazione (principalmente guidata dalle multinazionali): il dumping sociale e ambientale. Salari più bassi e minori normative ambientali riducono i costi di produzione, il che può attrarre aziende straniere e fornire un vantaggio competitivo.
Questo è uno dei motivi principali per cui si spiegano le numerose delocalizzazioni avvenute a partire dagli anni '90 in paesi come la Cina. Di conseguenza, la maggior parte dell'industria globale si trova ora in paesi con una minore tutela ambientale e una produzione energetica a più alta intensità di carbonio. La Cina è arrivata a centralizzare una parte significativa della produzione industriale mondiale... in un paese in cui gli standard ambientali sono deboli.
Pertanto, nel perseguire la massimizzazione del profitto, i capitalisti tenderanno anche a massimizzare le emissioni di CO2, trasferendole da un paese all'altro e annullando l'effetto di qualsiasi politica climatica attuata dai paesi sviluppati. È inoltre degno di nota che in Cina l'intensità energetica, cioè la misura dell'inefficienza energetica del sistema economico di unpaese, si sia ridotta di quattro volte tra il 1971 e il 2006: pur partendo da una base inferiore, l'efficienza della produzione di energia cinese sta aumentando grazie a significativi investimenti nel settore produttivo.
In una certa misura, si può generalizzare quanto segue: i paesi in rapida crescita hanno alti tassi di profitto e l'accumulazione di capitale avviene a un ritmo frenetico, con elevati volumi di produzione e bassa, ma crescente, efficienza energetica; i paesi in cui il tasso di profitto è diminuito si ritrovano con un'elevata efficienza energetica (con processi più tecnologici e una forte composizione organica del capitale), ma gli investimenti produttivi vengono trascurati a favore dei paesi "nuovi". Gli effetti del tasso di profitto e dell'invecchiamento del capitalismo sono contraddittori, ma sono sempre effetti perversi che impediscono una via d'uscita dalla crisi ecologica globale.
Il segreto industriale e il sistema di proprietà intellettuale al servizio del capitalismo hanno un effetto direttamente anti-ecologico. Infatti, ostacolano l'adozione diffusa delle migliori tecnologie disponibili. Queste tecnologie sono, infatti, più sviluppate nei vecchi paesi imperialisti, e questi paesi proteggono i loro segreti e brevetti, il che conferisce loro un vantaggio competitivo (l'alta tecnologia compensa parzialmente gli effetti dei salari più alti: un'ora di lavoro umano costa di più ma produce più plusvalore). Naturalmente, i trasferimenti di tecnologia avvengono comunque, sia attraverso la scadenza dei brevetti, sia attraverso accordi tra aziende (ad esempio, la Cina ha acquisito sufficiente influenza per richiedere trasferimenti di tecnologia alle aziende occidentali che vogliono delocalizzare nel suo territorio), sia attraverso lo spionaggio industriale, ecc. Ma questo costituisce ancora un ostacolo incredibilmente assurdo dal punto di vista dell'interesse pubblico.
Al contrario, la transizione verso un'economia comunista potrebbe consentire un trasferimento diffuso e sistematico delle migliori tecnologie.
Alcuni economisti e ambientalisti pro-capitalisti sostengono che possiamo gradualmente muoverci verso una forma di capitalismo che non gravi più sulle risorse naturali. Evidenziano fattori consolidati, come i progressi nell'efficienza energetica e una diminuzione dell'"intensità materiale della crescita" (la quantità di risorse consumate per un aumento di un punto percentuale del PIL), e prevedono un "disaccoppiamento" tra crescita e impronta ecologica. Ciò porterebbe a una "crescita verde", a un'"economia dematerializzata" e così via.
Un aereo preso singolarmente consuma sempre meno carburante per lo stesso volo, ma il numero di voli aerei sta aumentando troppo rapidamente perché questo fattore possa portare a una diminuzione dei consumi nel settore dell'aviazione.
Il settore digitale è diventato un simbolo, e negli ultimi decenni sono emerse tutta una serie di teorie sull'"economia della conoscenza", sul "capitalismo cognitivo", sulla "nuova economia", sull'"economia postindustriale", e così via. Innanzitutto, va notato che il settore digitale è tutt'altro che efficiente dal punto di vista energetico: consuma il 10% dell'elettricità prodotta sul pianeta. Inoltre, anche se è vero che la tecnologia digitale consente una forma di relativa dematerializzazione rispetto a una grande quantità di "beni digitali" con il loro equivalente materiale (100 film guardati in video on demand consumano meno energia di 100 DVD fisici prodotti), il capitalismo ha una caratteristica notevole: i nuovi settori tendono principalmente ad aggiungersi a quelli esistenti. Non esiste una gestione razionale degli usi, e il capitalismo favorisce una produzione caotica e il consumo più sfrenato possibile.
Questo vale per tutti i settori: è vero che un'auto nuova consuma meno energia di un modello più vecchio, ma se ne producono sempre di più, quindi la situazione è in continuo peggioramento (aumento del consumo di petrolio, aumento delle carcasse di auto che finiscono negli sfasciacarrozze, ecc.); ogni nuovo modello di aereo consuma meno carburante del precedente, ma il numero di aerei batte un nuovo record ogni anno; le tecniche di riciclaggio e le leggi anti-spreco stanno facendo lenti progressi, ma la quantità di rifiuti prodotti sta aumentando freneticamente. Mentre un punto percentuale del PIL può gradualmente costare leggermente meno energia, l'aumento del PIL supera di gran lunga questo. È un dato empirico innegabile che il consumo di energia e le relative emissioni di gas serra non stanno diminuendo, nonostante l'urgente necessità di agire.
Già nel 1860, l'economista William Stanley Jevons osservò che ogni nuovo modello di macchina a vapore era più efficiente del precedente e che era necessario meno carbone per raggiungere lo stesso livello di produzione. Rimase quindi sorpreso nel vedere che la domanda globale di carbone continuava ad aumentare. Questo è il famoso "paradosso di Jevons" o "effetto rimbalzo".
Inizialmente, le conseguenze ecologiche della produzione capitalista erano in gran parte sconosciute e le questioni di sostenibilità non venivano quasi mai sollevate. Durante la Rivoluzione Industriale, attività consolidate accelerarono e divennero più incisive. Nuovi settori, come la produzione di energia elettrica a carbone, vissero un boom e questa dinamica di crescita concentrò rapidamente le attività inquinanti, portando a disastri ecologici e sanitari: avvelenamento dell'aria urbana, delle acque fluviali e delle falde acquifere ...
I primi economisti borghesi presumevano che la natura fosse una risorsa illimitata. Jean-Baptiste Say, il principale economista francese di fine Settecento-inizio Ottocento di espresse così: "Le risorse naturali sono inesauribili, perché altrimenti non le otterremmo gratuitamente. Poiché non possono essere moltiplicate o esaurite, non sono oggetto della scienza economica".
Già nel 1840, scienza e tecnologia si interessarono alle loro conseguenze. Ad esempio, Justus von Liebig cercò di tracciare la transizione tra agricoltura di sfruttamento e agricoltura rigenerativa (il suo lavoro interessò profondamente Marx). Nel suo opuscolo del 1885 sulle riserve energetiche e il loro utilizzo al servizio dell'umanità, Rudolf Clausius lanciò l'allarme sulla "questione del carbone": "Stiamo consumando queste riserve proprio ora e ci comportiamo come eredi che dilapidano".
Tuttavia, questi numerosi progressi hanno richiesto molto tempo per essere, almeno parzialmente o anche solo verbalmente, presi in considerazione dalla teoria economica. Nel corso del XX secolo, gli economisti hanno finalmente teorizzato l'esistenza di "fattori esterni" di cui il mercato non tiene conto: ad esempio, "esternalità positive" (se un apicoltore lavora vicino a un frutteto, la sua attività porterà un beneficio gratuito al frutteto grazie all'impollinazione delle api) o "esternalità negative" (un'azienda di autotrasporti non deve pagare per le conseguenze dell'inquinamento dei suoi camion).
Oggi i riformatori, che agiscano in buona fede o meno, adottano una visione in cui si dovrebbero trovare meccanismi per garantire che i fattori esterni (implicitamente ridotti al minimo, considerati eccezionali) siano presi in considerazione dal mercato.
L'approccio più moderato è quello di monetizzare l'inquinamento, creando un "segnale di prezzo" che il mercato può integrare. L'esempio classico è il sistema cap-and-trade, cioè i limiti quantitativi all'inquinamento che non si potrebbero superare. Questo tipo di incubo burocratico è stato implementato in molti paesi, senza alcun effetto sulla riduzione dei gas serra.
La versione leggermente più critica (perché attribuisce un ruolo più attivo allo stato e si basa su una minore fiducia nell'autoregolamentazione del mercato) è quella delle misure di tipo carbon tax: tassare i beni in base alle emissioni di gas serra necessarie per produrli o trasportarli. L'obiettivo è "rendere gli stakeholder più responsabili", incoraggiare i produttori a produrre più beni "verdi" e i consumatori a "consumare responsabilmente". Questo tipo di misura si scontra con una profonda contraddizione: per avere un effetto significativo, la tassa dovrebbe essere elevata. Ma se è elevata, ha sia un effetto antisociale (come tutte le imposte indirette, colpisce più duramente le classi meno agiate) sia un effetto dirompente su alcuni settori capitalistici, che faranno pressioni contro di essa. Poiché i politici non vogliono irritare troppo i loro amici nel mondo degli affari e degli azionisti, né diventare troppo impopolari, stabiliscono importi molto bassi per queste carbon tax. Queste tasse sono quindi destinate ad avere un'efficacia estremamente bassa.
Altri ecologi sostengono che, fondamentalmente, i costi ecologici sono incommensurabili con i valori economici. Vale a dire, è impossibile assegnare un valore corretto alle risorse naturali e che il loro vero valore sarà noto solo alle generazioni future. Questa è in particolare la tesi di Joan Martinez Alier e Klaus Schlüpmann, così come quella di William Kapp e di Georgescu-Roegen.
Gli economisti eterodossi, compresi i keynesiani, tendono a enfatizzare le cause ideologiche per spiegare l'inazione climatica (cifre sottostimate per l'impatto del cambiamento climatico...), mentre anche questi fattori sono sovradeterminati dall'infrastruttura economica. Dare priorità alle cause ideologiche in modo idealistico oscura la questione cruciale della proprietà privata dei mezzi di produzione .
Gli stati hanno adottato diverse norme. Talvolta le leggi esistono, ma non viene effettuato alcun controllo, per mancanza di risorse o in una logica di "autoregolamentazione da parte dell'industria", "fiducia", ecc.
In Europa sono in atto numerosi controlli. In vari paesi, sotto diverse denominazioni esistono degli "ispettorati ambientali" (ad esempio nelle ASL, nelle ARPA, in alcuni reparti dei carabinieri). Questo contribuisce certamente a prevenire alcuni tipi di inquinamento (ad esempio, la qualità dell'aria e dell'acqua migliora in alcune aree). Tuttavia, questo sistema soffre di profondi limiti strutturali:
Il numero di ispettori è insufficiente (austerità) rispetto a quanto necessario; devono ispezionare siti con tecnologie molto diverse e non riescono a comprendere correttamente le questioni scientifiche in tutti i casi.
Gli industriali conoscono la propria fabbrica molto meglio degli ispettori, il che consente loro di ingannare o omettere ciò che è illegale.
Gran parte del controllo viene delegato (e sempre più spesso) a società private, pagate dai produttori per venire a svolgere i controlli, creando una situazione di conflitto di interessi.
Anche con individui ben intenzionati, la segmentazione e l'esternalizzazione dei servizi, esacerbate dalla svolta neoliberista, aumentano la complessità dei processi. Quando il produttore non controlla realmente l'intera filiera, i limiti del controllo statale diventano evidenti.
Negli Stati Uniti, i controlli governativi sono spesso meno sviluppati e meno frequenti. Tuttavia, quando un produttore viene colto in flagrante a mentire o falsificare i dati, le sanzioni sono spesso più severe che in Europa.
Negli ultimi decenni si è sviluppato anche un vero e proprio dibattito sulla "finanza verde", che consiste principalmente nel greenwashing all'interno del settore finanziario.
In genere, ciò include strumenti quali i mercati dei permessi di inquinamento e la tassazione verde (tassa sul carbonio, ecc.).
L'esistenza del debito costringe molti paesi poveri a vendere le proprie risorse naturali a prezzi stracciati per ripagarlo. Sulla base di questa realtà, alcune ONG ambientaliste riacquistano una parte del debito a prezzi ridotti. Le banche creditrici trovano questo vantaggioso, poiché consente loro di ridurre al minimo le "perdite" su debiti che alla fine sono irrecuperabili, e beneficiano anche di agevolazioni fiscali. Questo è noto come "scambio debito-natura".
In un'epoca in cui lo sfruttamento globale da parte dell'imperialismo ha assunto in gran parte una forma finanziaria, l'ambiente naturale di questi paesi sta entrando in un circuito simile a quello del mercato azionario.
Da quando gran parte della borghesia ha iniziato a fare greenwashing, è nata la moda delle grandi conferenze internazionali, in cui i capi di stato e il loro entourage viaggiano su jet privati verso resort circondati dalla polizia, per vantarsi delle loro azioni (cosmetiche) a favore del "pianeta" (facendo dimenticare che il 20% della popolazione consuma da solo l'80% della ricchezza del pianeta).
Il primo grande evento di questo tipo fu il Summit della Terra del 1992, tenutosi a Rio de Janeiro, da cui i bambini di strada furono brutalmente espulsi (o addirittura uccisi dalla polizia). Erano presenti più di cento capi di stato e di governo, oltre a industriali e diverse centinaia di ONG, migliaia di giornalisti e vari altri partecipanti. L'obiettivo era quello di raggiungere un'attività di costruzione del consenso su larga scala. Diverse ONG "verdi" formularono proposte convergenti con quelle dell'industria, puntando al massimo consenso e a un approccio win-win. La Convenzione sulla Diversità Biologica che fu firmata conferisce agli stati dei paesi in via di sviluppo il diritto di richiedere royalties dalle industrie che sviluppano un prodotto derivato dalle risorse naturali dei loro paesi (simili alle royalties pagate dalle principali compagnie petrolifere).
Negli anni '90, riunioni di questo tipo sono diventate istituzionalizzate, con i vari firmatari di diverse convenzioni (su clima, biodiversità, desertificazione, ecc.) tenuti a fare il punto periodicamente in occasione delle Conferenze delle Parti (COP). Le COP più note sono quelle sul clima, in particolare la COP3 (che ha firmato il Protocollo di Kyoto), la COP21 (Accordo di Parigi) e altre. Nel frattempo, le estinzioni di massa continuano a decimare la biodiversità, le emissioni di CO2 continuano ad aumentare, e il capitalismo continua a fare affari come al solito.
Inoltre, l'ambiente è diventato un nuovo tipo di alibi per un'altra forma di interferenza da parte dei paesi ricchi: "l'interferenza ecologica".