Antonio Gramsci
(1891-1937)
(1891-1937)
Figlio di Francesco Gramsci (1860-1937) e di Giuseppina Marcias (1861-1932), Antonio era il quarto dei loro sette figli.
La famiglia paterna di Gramsci era di origine albanese. Il nonno di Antonio, nato a Plataci, comune arbëresh della Calabria, colonnello della gendarmeria sotto i Borboni, era diventato carabiniere dopo l'unità d'Italia. Mantenendo il suo grado, sposò la figlia di un noto avvocato napoletano e si stabilì a Gaeta. Dopo la sua morte, l'ultimo dei suoi cinque figli, Francesco, abbandonò gli studi di giurisprudenza e divenne controllore dell'anagrafe di Ghilarza, un grosso paese sardo dell'Oristanese. Qui, contro il parere della sua stessa famiglia, sposò Giuseppina Marcias, figlia di un impiegato delle imposte.
Nel 1898, Francesco fu arrestato per appropriazione indebita e falso. La teoria, ormai classica, secondo cui avrebbe subito una rappresaglia da parte dell'allora uomo forte della Sardegna, Francesco Cocco Ortu, per aver sostenuto l'avversario di Cocco Ortu alle elezioni del 1897, è oggi difficilmente difendibile. Sembra che il padre di Antonio non sia stato sempre irreprensibile nelle sue attività professionali. Tuttavia, nel 1900 fu condannato a 5 anni di carcere.
Giuseppina dovette crescere da sola i suoi sette figli (il maggiore, Gennaro, aveva 14 anni quando il padre fu arrestato, Antonio ne aveva 7). Accolse un inquilino e cucì in casa con l'aiuto delle figlie maggiori. Quando Antonio termina la scuola elementare a 12 anni, deve lasciare la scuola per lavorare. Per alcuni mesi lavora come impiegato all'ufficio del catasto.
La malattia di cui avrebbe sofferto per il resto della sua vita lo colpì durante il terzo anno. Antonio soffriva del morbo di Pott, una forma di tubercolosi ossea che gli fu diagnosticata solo molto tardi, nel 1933, mentre era in carcere. È a questa malattia (per la quale all'epoca non esisteva una cura conosciuta) che deve la sua schiena deforme, la bassa statura e la salute cagionevole.
Quando il padre, uscito di prigione all'inizio del 1904, fu riabilitato e trovò lavoro presso l'ufficio del catasto, Antonio poté riprendere gli studi presso la scuola secondaria del vicino villaggio di Santu Lussurgiu. Nel 1908 ottenne la licenza ginnasiale, che gli permise di accedere al liceo Dettori di Cagliari. Divide l'appartamento con il fratello maggiore Gennaro, che lavora in una fabbrica di ghiaccio ed è un attivista socialista. Antonio inizia a leggere la stampa, in particolare gli articoli di Gaetano Salvemini e Benedetto Croce.
Al secondo anno di ginnasio, il suo insegnante è Raffa Garzia, un uomo radicale e anticlericale, direttore de L'Unione Sarda, che si interessa a lui e gli dà un tesserino da giornalista per l'estate del 1910. Gramsci pubblicò il suo primo articolo nel luglio di quell'anno.
I buoni risultati ottenuti alla maturità gli consentono di partecipare al concorso per la borsa di studio Carlo Alberto, riservata agli studenti liceali sardi meritevoli e destinata a consentire loro di proseguire gli studi all'Università di Torino.
Gramsci riceve una borsa di studio dalla Fondazione Carlo Alberto e si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino. I primi mesi nella grande città del Nord furono difficili. Il sussidio di 70 lire al mese, più le piccole somme che il padre gli mandava irregolarmente, era appena sufficiente a garantirgli vitto e alloggio; sopportava a fatica il freddo dell'inverno torinese e la sua salute si stava deteriorando. Infine, era terribilmente isolato.
Queste difficoltà lo perseguitano per gran parte della sua vita studentesca; malato o troppo debole, spesso non può sostenere gli esami, il che gli impedisce di conseguire la laurea.
Gramsci era comunque uno studente che si distingueva dalla massa; la sua curiosità era ampia e seguì numerosi corsi in discipline diverse da quelle in cui era iscritto, come diritto, economia e filosofia. Il suo interesse principale era la linguistica: ebbe un forte e profondo rapporto intellettuale con il suo maestro Matteo Bartoli, che si rammaricò sempre che Gramsci avesse scelto la vita del militante piuttosto che quella del brillante linguista che avrebbe potuto essere.
Stringe inoltre una stretta amicizia con un'altra figura di spicco della vita intellettuale torinese dell'epoca, Umberto Cosmo, professore di letteratura italiana che con il suo insegnamento al Liceo D'Azeglio e all'università ha segnato un'intera generazione di studenti. Cosmo fu spesso in aiuto di Gramsci, attraverso il quale fece alcuni dei suoi incontri più importanti, come quello con Piero Sraffa.
Prima di stabilirsi a Torino, Gramsci fu vicino ai movimenti autonomisti sardi. Fu l'incontro con i circoli dei giovani socialisti, grazie ad Angelo Tasca, a fargli cambiare direzione. A Torino, la città dell'industria automobilistica, si convinse che il conflitto sociale non era tra i contadini sardi da una parte e il mondo industriale del nord dall'altra (operai e padroni insieme), ma tra padroni e proletari, in un movimento che poteva essere liberatorio anche per i contadini poveri del Sud Italia.
È a questo punto che stringe amicizia con quelli che saranno a lungo i suoi compagni più stretti: oltre a Tasca, Palmiro Togliatti e Umberto Terracini. Nel 1913 inizia a scrivere per la stampa socialista.
Il primo vero articolo politico lo pubblica su Il Grido del Popolo, settimanale socialista torinese, il 31 ottobre 1914, nell'ambito del dibattito suscitato dalla presa di posizione di Mussolini, direttore de L'Avanti! (nella foto a lato la redazione del Grido del popolo nel 1916: Gramsci è a destra). L'editoriale di Mussolini era in contrasto con la posizione ufficiale del PSI, che chiedeva la “neutralità assoluta” dell'Italia, e fu criticato da Tasca sulle pagine del Grido del popolo. Lo stesso Gramsci rispose a Tasca, difendendo cautamente Mussolini e, soprattutto, l'idea che la “neutralità attiva e operativa” dovesse sostituire la “neutralità assoluta”. È il primo scontro tra Tasca e Gramsci, la cui fama di “interventista” sarà a lungo un peccato originale.
L'Italia entra in guerra nel maggio 1915. Gramsci, a causa della sua salute cagionevole, non fu mobilitato, a differenza dei suoi compagni più vicini. Dall'autunno 1915 è giornalista del Grido del popolo e dell'edizione torinese de L'Avanti! Nella sua rubrica “Sotto la Mole”, racconta l'attualità dell'Italia in guerra, da Torino e dal punto di vista delle classi sociali dominanti. Con brio, coniuga irriverenza verso tutto ciò che è istituzionale, rapide intuizioni che stonano con la propaganda bellica ufficiale e onnipresente, e analisi politiche serrate, sempre inquadrate in una filosofia della storia che deve ancora molto a Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Si occupò anche di attività culturali, soprattutto teatrali, e fu particolarmente aperto al teatro d'avanguardia di Pirandello.
Nel 1917 fondò un circolo di educazione culturale (Il circolo di vità morale), che riuniva un manipolo di giovani lavoratori, e si cimentò come redattore pubblicando un numero speciale del Grido del Popolo destinato a “educare e formare i giovani socialisti”: “la città futura”. Infine, si trova in prima fila durante l'insurrezione operaia di Torino dell'agosto 1917.
Su Il Grido del popolo del 5 gennaio 1918 pubblicò il secondo articolo politico che lo avrebbe reso famoso, dal titolo provocatorio “La rivoluzione contro il capitale”. In esso elogia la rivoluzione appena avvenuta in Russia. L'approccio dogmatico della Seconda Internazionale era che la rivoluzione socialista dovesse avvenire nei paesi capitalistici più sviluppati e non in un paese come la Russia, ancora in parte feudale. Ma, scriveva Gramsci, “i fatti hanno superato le ideologie. Essi infransero gli schemi critici entro i quali la storia russa avrebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico". Per Gramsci, i bolscevichi furono in grado di costruire una volontà collettiva e di darle l'unica forma politica, il socialismo, in grado di risolvere i problemi sociali che la guerra aveva trasformato in tante catastrofi. Contro la teoria che era diventata dogma, hanno fatto la storia.
All'indomani della guerra, il gruppo composto da Gramsci, Tasca, Togliatti e Terracini si riunì per dare vita a una nuova rivista, L'Ordine nuovo, una “rivista di cultura socialista”, che si proponeva di fornire ai lavoratori una formazione politica e culturale e di metterli in grado di costruire una propria cultura. Sotto la guida intellettuale di Gramsci, la rivista propugnava una nuova linea politica basata sul ruolo dei “consigli di fabbrica”. In un articolo intitolato “Democrazia operaia” pubblicato nel giugno del 1919, che egli stesso definì in seguito un “colpo di mano editoriale” contro Tasca, Gramsci sviluppò l'idea che le “Commissioni interne” in vigore nelle grandi aziende italiane, strutture elette esclusivamente dai membri del sindacato, dovessero essere trasformate in Consigli di fabbrica, Le Commissioni dovevano essere trasformati in consigli di fabbrica, eletti da tutti gli operai, compresi i non iscritti al sindacato, e in grado di occuparsi della produzione stessa, oltre alla classica difesa sindacale degli interessi dei lavoratori, diventando così le strutture di base del futuro stato socialista.
Il ruolo dei consigli di fabbrica fu messo alla prova nella vita reale durante i movimenti di occupazione delle fabbriche del 1920 e, più in particolare, durante i grandi scioperi di settembre, che si conclusero con una sconfitta per gli operai torinesi a causa della mancanza di sostegno da parte della dirigenza del PSI e dei sindacati, e con la diffusione del movimento a tutto il paese.
La priorità per la corrente “ordinovista” di Gramsci, come per tutta l'ala sinistra del PSI, unita dietro il leader napoletano Amedeo Bordiga, era quella di rompere con la corrente riformista che guidava il partito e di creare un partito comunista che soddisfacesse le condizioni poste dall'Internazionale Comunista nell'estate del 1920. Già nella primavera del 1920, Gramsci, convinto che l'incapacità delle organizzazioni operaie di conquistare il potere politico avrebbe provocato una terribile reazione da parte del padronato, aveva redatto un testo in tal senso per la sezione torinese del PSI, che era stato notato e accolto da Lenin.
Insieme a Tasca, Togliatti e Terracini, Gramsci partecipò alla fondazione del Partito Comunista d'Italia al Congresso di Livorno del gennaio 1921 e sostenne l'azione di Bordiga, pur non identificandosi pienamente con essa, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di strutture come i consigli di fabbrica.
Nel maggio 1922, dopo aver vissuto a Torino per 11 anni, Gramsci fu nominato delegato del Partito Comunista d'Italia (PCD'I) presso l'Internazionale Comunista e partì per Mosca.
Quando arriva a Mosca nel maggio del 1922, Gramsci è esausto e soffre di crisi nervose che preoccupano chi gli sta vicino. Fu mandato in una casa di riposo alla periferia di Mosca dove conobbe Eugenia Schucht. Era la figlia di Apollon Schucht, un ufficiale che aveva combattuto contro lo zarismo a fianco dei narodniki negli anni Ottanta del XIX secolo, era stato condannato agli arresti domiciliari in Siberia e poi era fuggito con la famiglia in Svizzera, poi in Francia e infine in Italia. Apollon Schucht fece campagna elettorale con Alexander Ulyanov, fratello maggiore di Lenin. Lenin fu padrino di una delle figlie di Schucht.
Tre delle figlie di Apollon Schucht ebbero un ruolo decisivo nella vita di Gramsci: Eugenia, Giulia (nella foto a fianco) e Tatiana. Erano state educate in Svizzera e in Italia e parlavano perfettamente l'italiano. Prima di ammalarsi, Eugenia aveva lavorato con la moglie di Lenin, Nadejda Kroupskaia. Tra lei e Antonio si sviluppa un rapporto che va oltre la semplice amicizia, ma nel settembre 1922 presenta a Gramsci la sorella Giulia, con la quale il militante sardo stringerà un legame molto stretto. Giulia era nata in Svizzera nel 1896, aveva studiato musica al Conservatorio di Roma e, quando Gramsci la conobbe, insegnava musica a Ivanovo.
L'Internazionale Comunista (IC) cercò di realizzare una fusione tra il piccolo PCd'I e il PSI, guidato all'epoca dai "terzini", o “massimalisti”, cioè i militanti socialisti che avevano ottenuto la maggioranza al Congresso di Livorno e che avevano aderito all'Internazionale Comunista, ma si erano rifiutati di lasciare il vecchio PSI per unirsi al PCD'I. Bordiga e la dirigenza del PCd'I, compreso Gramsci, si opposero con veemenza al progetto di fusione, che secondo loro rischiava di snaturare il partito nato dalla scissione di Livorno. Solo l'ala “destra” del partito, guidata da Tasca, era favorevole. L'IC insistette e fece valere tutto il suo peso. Bordiga era disposto a spingersi fino alla rottura con l'Internazionale. Gramsci, tuttavia, era consapevole dei limiti dell'azione del leader napoletano, il cui settarismo tagliava il partito fuori dalle masse. Incontra Lenin nell'ottobre del 1922 e, a partire dalla primavera del 1923, rassicurato dal fallimento del tentativo del PSI di fondere il partito dopo il suo rifiuto, inizia gradualmente a opporsi a Bordiga. L'arresto di Bordiga nel febbraio 1923, insieme a quello di gran parte della dirigenza del PCd'I, lo spinse in prima linea. Con l'appoggio dell'IC, propose la creazione di un giornale, concepito come quotidiano di massa, da chiamare L'Unità. Nel dicembre 1923, Gramsci, incaricato di organizzare un centro di informazione per l'IC, lasciò Mosca per Vienna. Il suo compito principale era quello di riorganizzare il PCd'I secondo le linee dell'ampia mobilitazione delle forze operaie voluta dall'IC. Quando lasciò Mosca, Giulia era incinta e non poté accompagnarlo a Vienna.
Alle elezioni del maggio 1924, Gramsci fu uno dei 19 deputati eletti nelle liste comuniste. Protetto dall'immunità parlamentare, poté tornare in Italia. In agosto, poco dopo il suo ritorno e il suo insediamento a Roma, nasce a Mosca il suo primo figlio, Delio.
La leadership di Bordiga nel PCd'I, che aveva rotto con l'IC, viene confermata poco dopo il ritorno di Gramsci durante un'importante riunione clandestina dei quadri del partito.
Poche settimane dopo il suo ingresso in parlamento, Gramsci si trovò ad affrontare la crisi scatenata dall'assassinio da parte dei fascisti del deputato socialista Giacomo Matteotti. La strategia dell'“Aventino”, che consisteva nel rifiuto dei deputati di sinistra di occupare il loro seggio, fu un fallimento e portò al definitivo consolidamento del fascismo con l'adozione delle “leggi fascistissime” nel 1925 e nel 1926. Gramsci denunciò la passività e la pusillanimità dei parlamentari socialisti su L'Unità.
Dall'autunno del 1924 in poi, Gramsci viaggiò molto in tutta la penisola italiana per incontrare i militanti e dissuaderli dalla linea bordighiana. Un viaggio in Sardegna gli offre l'opportunità di vedere per l'ultima volta i suoi a Ghilarza.
Le Tesi di Lione, redatte da Gramsci e Togliatti e ampiamente approvate al Terzo Congresso del PCd'I tenutosi a Lione nel gennaio 1926, nascono da queste riflessioni e discussioni con i militanti. Bordiga, già isolato all'interno dell'IC, era ora in minoranza anche nel partito italiano, dove Gramsci stava diventando il leader indiscusso.
Le Tesi di Lione furono un tentativo di “tradurre l'esperienza sovietica in Italia”. In esse Gramsci delinea una “bolscevizzazione” del PCd'I in linea con le risoluzioni dell'IC, ma conferendole caratteristiche del tutto specifiche della società italiana. In particolare, egli pone l'accento sull'alleanza operai-contadini, che in Italia, al di là della sua dimensione sociale, mette in gioco quella che, dall'unità del 1861, viene chiamata “questione meridionale”.
Nel marzo 1925, Gramsci partecipò al V Congresso dell'Esecutivo allargato dell'IC a Mosca e vide per la prima volta suo figlio Delio, di pochi mesi. Poche settimane prima aveva incontrato la cognata Tatiana Schucht, rimasta in Italia dopo il ritorno della famiglia in Russia. Giulia e Delio, accompagnati da Eugenia e poi dal suocero di Gramsci, Apollon, si trasferirono a Roma nell'ottobre 1925. Giulia, di nuovo incinta, tornò a Mosca all'inizio dell'estate del 1926, presto seguita dal resto della famiglia. Gramsci non li rivide mai più. Non conobbe mai il suo secondo figlio, Giuliano, nato in agosto.
Nell'ottobre del 1926, poco prima dell'arresto, scrive il saggio sulla “Questione meridionale”, Alcuni temi della quistione meridionale", che riprende alcune idee espresse nelle Tesi di Lione e in vari discorsi. Il testo di Gramsci diventerà un classico e contiene i semi di concetti sviluppati in seguito nei Quaderni del carcere, come il “blocco storico” e gli “intellettuali organici”.
È sempre alla vigilia del suo arresto che Gramsci prende le distanze da Togliatti. La violentissima lotta ai vertici del Partito Comunista Russo dopo la morte di Lenin, tra Stalin e Bukharin da una parte e Trotsky, Zinoviev e Kamenev dall'altra, preoccupa i militanti italiani e l'Ufficio Politico decide di inviare al Comitato Centrale del Partito Comunista Russo una lettera, scritta da Gramsci, in cui si invitano i dirigenti sovietici a non scoraggiare e disperare il proletariato degli altri paesi. Togliatti, rappresentante del PCd'I nell'esecutivo dell'IC, decise di non inoltrare la lettera. Lo spiegò all'Ufficio politico e in una lettera a Gramsci, che nella sua risposta mise in dubbio il “burocratismo” di Togliatti. L'arresto di Gramsci impedì lo sviluppo di discussioni tra i due leader, ma Gramsci non cercò mai di ristabilire legami personali con Togliatti, nonostante i tentativi di quest'ultimo.
L'8 novembre 1926 Gramsci fu arrestato, insieme agli altri deputati socialisti e comunisti, nonostante l'immunità parlamentare.
Gramsci trascorre due settimane in isolamento nel carcere romano di Regina Coeli, prima di essere condannato a cinque anni di deportazione sull'isola di Ustica, al largo della Sicilia. Qui si riunisce con alcuni compagni di partito, tra cui Bordiga, con cui condivide l'alloggio e organizza una scuola per gli altri prigionieri.
Nel novembre 1926, nell'ambito delle “leggi fascistissime”, fu creato dal regime il “Tribunale speciale per la sicurezza dello stato”; fu presentata una nuova accusa contro Gramsci per portare lui e altri dirigenti comunisti davanti a questo tribunale. Nel gennaio 1927 Gramsci fu trasferito da Ustica al carcere di San Vittore a Milano. Il viaggio da Ustica a Milano durò tre settimane e fu estremamente duro per la salute del prigioniero. Gramsci rimase a San Vittore per tutta la durata del processo.
22 comunisti, tra cui Terracini e Scoccimarro oltre a Gramsci, furono processati a Roma dal 28 maggio al 4 giugno 1928. Gli imputati erano accusati di cospirazione, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all'odio di classe. Di questo “processone” i posteri ricordano in particolare la frase con cui il pubblico ministero Michele Isgrò, parlando di Gramsci, avrebbe concluso la sua requisitoria: “Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per 20 anni”. Terracini lesse una famosa dichiarazione a nome di tutti gli imputati, in cui ironizzava a spese del regime: “il semplice fatto dell'esistenza del Partito Comunista è sufficiente, di per sé, a costituire un pericolo grave e imminente per il regime”. Ecco dunque lo stato forte, lo stato protetto, lo stato totalitario, lo stato iperarmato!
Le condanne inflitte furono pesantissime: 20 anni, 5 mesi e 4 giorni per Gramsci e Scoccimarro, e 2 anni in più per Terracini, che pagò per il suo ruolo durante il processo.
Su richiesta della sorella Teresina, Gramsci fu inviato in un carcere per detenuti malati e il 19 luglio 1928 arrivò al carcere di Turi, in Puglia. Vi rimase fino al novembre 1933. Fu lì che iniziò a scrivere i Quaderni del carcere nel febbraio 1929.
Due persone giocarono un ruolo essenziale nella vita di Gramsci in carcere: la cognata Tatiana Schucht (nella foto a lato) e Piero Sraffa. È attraverso di loro, in particolare, che si mantenne un fragile legame tra il prigioniero e la dirigenza del PCd'I, che si era rifugiata a Parigi. In quanto cognata di Gramsci, Tatiana Schucht era la persona autorizzata a fargli visita ed è a lei che sono indirizzate molte delle “Lettere dal carcere”. Tania - come la chiamava Gramsci - copiava queste lettere e le inviava a Piero Sraffa, che poi le inoltrava alla direzione del PCd'I a Parigi.
Tatiana Schucht nacque a Samara, in Siberia, nel 1888. Aveva 6 anni quando la sua famiglia si trasferì a Ginevra e 20 quando arrivò a Roma nel 1908. Non seguì la sua famiglia quando tornò in Russia e per diversi anni ebbe solo contatti occasionali con loro.
Quando Gramsci tornò in Italia nel giugno del 1924, gli fu chiesto dalla famiglia Schucht di ritrovare Tatiana. Gli ci vollero 8 mesi per trovarla. Insegnava francese alla Scuola Crandon, un istituto privato per ragazze.
Dopo l'arresto di Gramsci, si prese cura di lui. Si trasferì a Milano nel 1927-1928, quando Gramsci fu imprigionato a San Vittore mentre si svolgeva il suo processo, e poi si recò regolarmente a Turi per fargli visita. Vi rimase anche per molto tempo. Dopo il ricovero di Gramsci a Formia e poi a Roma, rimase al suo fianco fino alla fine.
Fu lei a tenere il più possibile in contatto Gramsci e Giulia, cercando di risolvere le incomprensioni tra loro, aiutandoli a superare lo sconforto e impedendo a Gramsci di rompere, come intendeva fare nel 1932, nel momento peggiore della sua prigionia.
La devozione di Tatiana per il cognato non era un atto militante: non era realmente interessata alla politica e, come le sorelle e il padre, non fu mai una vera “bolscevica”. Eppure è sempre stata presente per Gramsci, anche quando lui la trattava con durezza, sfogando su di lei le frustrazioni causate dalla sua situazione, dai tentativi falliti di liberazione, dalla malattia, dai disaccordi politici e dalla mancanza di contatti regolari con Giulia.
Fu lei a far sì che Gramsci accettasse di chiedere il trasferimento in una clinica. Infine, fu lei ad accompagnarlo nei suoi ultimi momenti, a organizzare il funerale e a recuperare e custodire, con l'aiuto di Sraffa, i Quaderni del carcere. La madre di Gramsci la chiamava “Quella santa creatura” e in seguito fu soprannominata “Antigone” di Gramsci.
Dopo aver vissuto in Italia per 30 anni, tornò in Russia nel 1938, non solo per ricongiungersi con la sua famiglia, ma anche per supervisionare il destino dei Quaderni.
Nel 1941, con l'avanzata tedesca e l'evacuazione di Mosca, la famiglia si rifugiò a Frunze, in Kirghizistan, nell'Asia centrale, e poco prima di tornare a Mosca nel 1943, Tania fu colpita dal tifo, che le tolse la vita in pochi giorni. Aveva 55 anni e non avrebbe assistito alla “scoperta” di Gramsci dopo la guerra.
Un'altra persona che fu molto vicina a Gramsci durante la sua prigionia fu Piero Sraffa (nella foto a lato), che nel dopoguerra divenne un rinomato economista.
Era stato presentato a Gramsci da Umberto Cosmo nel 1919.
Tornò a Cambridge nel 1927, in fuga dal fascismo e chiamato da John Maynard Keynes. Vi rimase fino alla morte, avvenuta nel 1983.
Sraffa non fu mai ufficialmente un membro del PCd'I, ma piuttosto un “compagno di viaggio”. Dal gennaio 1927 fu molto attivo nell'aiutare Gramsci. Aprì un conto illimitato per Gramsci presso la libreria Sperling e Kupfer di Milano, andò a trovarlo quando si trovava a Milano, conobbe la famiglia russa di Gramsci durante un soggiorno in URSS e lo incoraggiò a scrivere, fornendogli quello stimolo intellettuale che ebbe un ruolo nella stesura dei Quaderni. Infine, fece intervenire lo zio materno Mariano D'Amelio, presidente della Corte di Cassazione, per ottenere il trasferimento di Gramsci in una clinica.
Sraffa era il vero anello di congiunzione tra Gramsci e il suo partito. Tania gli inviava copia delle lettere che il prigioniero gli inviava, che spesso contenevano riflessioni politiche espresse in un linguaggio più o meno codificato. Sraffa stesso inviava queste lettere alla direzione del PCd'I a Parigi.
Non gli fu mai permesso di visitare Gramsci a Turi, ma quando Gramsci fu rinchiuso in una clinica a Formia e poi a Roma, andò spesso a trovarlo. Fu a lui, nella sua ultima visita del marzo 1937, che Gramsci affidò il compito di trasmettere ai compagni la convinzione della necessità di costituire un'assemblea costituente una volta caduto il fascismo.
Gramsci aveva a lungo sperato di riacquistare la libertà in seguito a uno scambio di prigionieri tra lo stato italiano e quello sovietico. Le sue speranze furono sempre deluse.
Furono fatti tre tentativi, nel 1927, nel 1933 e nel 1934. In ogni caso, l'obiettivo era quello di organizzare uno scambio di Gramsci tra lo stato italiano e quello sovietico con persone detenute in Unione Sovietica, in particolare sacerdoti cattolici. Questi tentativi, tutti falliti, furono accompagnati da campagne di stampa internazionali che denunciavano le condizioni di detenzione di Gramsci, campagne che Mussolini considerò sempre come una causa decisiva degli insuccessi: nel contesto creato da esse, la liberazione di Gramsci appariva necessariamente come una sconfitta del fascismo, che Mussolini non poteva accettare. Resta il fatto, però, che se la campagna del 1933 fu un ostacolo alla liberazione di Gramsci, senza dubbio contribuì anche all'accettazione da parte del regime del suo trasferimento in un istituto di cura.
In realtà, le ragioni principali del fallimento dei tentativi di liberazione di Gramsci risiedono altrove. Nel fatto, ad esempio, che Mussolini condizionò sempre la liberazione di Gramsci a una richiesta ufficiale di grazia, che Gramsci, che la considerava “una forma di suicidio”, non accettò mai di soddisfare.
La liberazione dei prigionieri, Gramsci e Terracini da un lato e i sacerdoti cattolici detenuti in URSS dall'altro, non fu mai una priorità né per il governo sovietico né per la gerarchia cattolica, che nel 1927 era impegnata nelle trattative per gli accordi lateranensi e, successivamente, voleva soprattutto preservare i rapporti con il governo fascista.
Il governo sovietico, pur accompagnando i tentativi, non li avviò mai e non cercò di sfruttare tutte le strade possibili per ottenere la liberazione di Gramsci - che dopo il 1926 non era più in odore di santità con il PC russo e l'Internazionale comunista - preferendo non rischiare di compromettere i rapporti stabiliti con il governo italiano al momento della firma del patto di non aggressione nel 1933.
Il morbo di Pott spiega i problemi di salute che Gramsci ebbe per tutta la vita, ma la vita che condusse contribuì in larga misura ad aggravarli: la povertà e la precarietà durante i primi anni a Torino, l'iperattività e lo stress di una vita da attivista semiclandestino e le condizioni della vita in carcere in seguito.
Nel 1928, una visita medica effettuata nel carcere di Milano, su richiesta della sorella Teresina, dimostrò che era affetto da uricemia e portò al suo trasferimento nel cosiddetto carcere “sanitario” di Turi, in Puglia. In realtà, non ricevette alcuna cura speciale e le sue condizioni peggiorarono molto rapidamente.
Nell'agosto del 1931, Gramsci ebbe il primo grave attacco, durante il quale tossì molto sangue. Le emicranie e l'insonnia peggiorarono. Nel marzo 1933 ebbe un secondo attacco, con allucinazioni e incapacità di camminare per diversi giorni.
Fu in seguito a questo attacco che Tania riuscì finalmente a far visitare Gramsci da uno specialista, il professor Arcangeli, che diagnosticò il morbo di Pott, di cui Gramsci soffriva fin dall'infanzia, e notò che soffriva anche di arteriosclerosi con pressione alta, che probabilmente aveva contratto lo scorbuto e perso molti denti, e che era molto magro e non sarebbe stato in grado di sopravvivere a lungo nelle condizioni in cui era imprigionato.
Quando, in seguito alla relazione di Arcangeli, Gramsci fu trasferito nella clinica del dottor Cusumano a Formia nel novembre 1933, era troppo tardi e continuò a indebolirsi irrimediabilmente. Nel giugno 1935 le sue condizioni di salute peggiorano improvvisamente. Nell'agosto 1935 fu trasferito alla clinica Quisisana di Roma, dove morì per un'emorragia cerebrale il 27 aprile 1937.
Gramsci fu rilasciato due giorni prima della sua morte. Fu sepolto nel cimitero di Roma riservato ai non cattolici. (nella foto a destra i due figli di Gramsci con la madre Giulia).
Nel 1947 ricevette postumo il Premio Viareggio, assegnato dall'amico Leonida Rèpaci, presidente della giuria, anche se di norma può essere assegnato solo a una persona vivente.
Vent'anni dopo, nel 1957, il poeta Pier Paolo Pasolini rese omaggio a Gramsci pubblicando Le ceneri di Gramsci, edito da Garzanti a Milano. Scrive Pasolini: “Gramsci è sepolto in una piccola tomba nel Cimitero degli Inglesi, tra Porta San Paolo e Testaccio, non lontano dalla tomba di Shelley. L'unica iscrizione sulla lapide è Cinera Gramsci, seguita dalle date".
Gramsci scrisse più di 30 quaderni durante la sua prigionia. Questi scritti, noti come Quaderni del carcere, contengono le sue riflessioni sulla storia italiana, nonché idee sulla teoria marxista, sulla teoria critica e sulla teoria dell'educazione, come ad esempio:
L'egemonia culturale
La necessità di incoraggiare lo sviluppo di intellettuali provenienti dalla classe operaia, quello che lui chiamava “intellettuale organico”.
L'educazione dei lavoratori
La distinzione tra società politica e società civile
Storicismo assoluto (o umanesimo)
Critica del determinismo economico
Critica del materialismo “volgare” o “metafisico”
Gramsci cercò di spiegare l'assenza della rivoluzione prevista da Marx e il rafforzamento delle istituzioni capitalistiche: la borghesia domina con la forza ma anche con il consenso, in particolare attraverso la sua egemonia culturale che fa sì che il proletariato faccia propri gli interessi della borghesia. La Chiesa cattolica è un esempio di questa egemonia. Il dominio è consenso corredato da coercizione. Non si tratta quindi di pura violenza o di puro dominio culturale, ma dell'articolazione dei due livelli.
Gramsci si interessò molto al ruolo degli intellettuali nella società. In particolare, affermava che tutti gli uomini sono intellettuali, ma che non tutti hanno la funzione sociale degli intellettuali. Egli avanzava l'idea che gli intellettuali moderni non producessero semplicemente discorsi, ma fossero coinvolti nell'organizzazione delle pratiche sociali. Producono il senso comune, in altre parole, ciò che viene dato per scontato. Gli intellettuali che lavorano a fianco della classe operaia avrebbero svolto un ruolo importante nel produrre prove che avrebbero distrutto il senso comune borghese.
Egli distingue inoltre tra una “intellighenzia tradizionale” che si considera (a torto) una classe separata dalla società, e i gruppi di intellettuali che ogni classe genera “organicamente”. Questi intellettuali organici non si limitano a descrivere la vita sociale in termini di regole scientifiche, ma esprimono esperienze e sentimenti che le masse non potrebbero esprimere da sole. L'intellettuale organico non si limita a comprendere la vita del popolo attraverso la teoria, ma la sente anche attraverso l'esperienza.
La necessità di creare una cultura operaia è legata alla richiesta di Gramsci di un tipo di educazione che permetta l'emergere di intellettuali che condividano le passioni delle masse lavoratrici. I sostenitori dell'educazione adulta e popolare vedono in Gramsci un punto di riferimento in questo senso.
La teoria dell'egemonia di Gramsci è inseparabile dalla sua concezione dello stato capitalista, che secondo lui governa con la forza e il consenso. Gramsci distingue due parti principali: la “società politica”, il luogo delle istituzioni politiche e del controllo costituzionale-giuridico (la polizia, l'esercito, la magistratura); e la “società civile”, il luogo delle istituzioni culturali (l'università, gli intellettuali) che diffondono l'ideologia esplicita o implicita dello stato, il cui scopo è ottenere l'accettazione dei valori accettati dalla maggioranza. Il primo è governato dalla forza, il secondo dal consenso. Gramsci sottolinea, tuttavia, che questa distinzione è principalmente concettuale e che le due sfere spesso si sovrappongono.
Gramsci sostiene che, nel capitalismo moderno, la borghesia può mantenere il suo controllo economico permettendo alla società politica di concedere una serie di richieste ai sindacati e ai partiti politici di massa. Così facendo, la borghesia si impegna in una “rivoluzione passiva” facendo concessioni sui suoi interessi economici immediati, concessioni che in realtà si rivelano essere modifiche delle forme della sua egemonia. Gramsci vede movimenti come il fascismo, il riformismo, il taylorismo e il fordismo come esempi di questo processo.
Per Gramsci, il partito rivoluzionario è la forza in grado di far emergere un'intellettualità organica ai lavoratori, uno strumento che permetterà di sfidare l'egemonia della classe dominante sulla società civile. La natura complessa della società civile moderna rende impossibile sconfiggere l'egemonia borghese e condurre al socialismo senza una “guerra di posizione”. Per Gramsci, l'avvento del socialismo non è principalmente una questione di putsch o di scontro diretto, ma di questa lotta culturale contro gli intellettuali della classe dominante. Questa guerra di posizione sarebbe resa necessaria dal quadro ideologico dello stato borghese moderno (istruzione, stampa, chiese, cultura popolare). Infatti, mentre nei regimi dittatoriali è soprattutto la società politica a essere fonte di oppressione, egli ritiene che nelle società occidentali la società civile sia una componente importante del dominio e debba quindi essere oggetto di lotta.
Sebbene sia difficile tracciare una linea di demarcazione netta tra “società politica” e “società civile”, Gramsci mette in guardia dal culto dello stato che nasce dall'identificazione tra le due, come fanno, a suo avviso, giacobini e fascisti.
Come il giovane Marx, Gramsci era un fervente sostenitore dello storicismo. Secondo questa prospettiva, ogni significato deriva dal rapporto tra l'attività umana pratica (o “prassi”) e i processi socio-storici oggettivi di cui è parte. Le idee, la loro funzione e la loro origine, non possono essere comprese al di fuori del loro contesto storico-sociale. I concetti con cui organizziamo la nostra conoscenza del mondo non derivano principalmente dal nostro rapporto con le cose, ma piuttosto dalle relazioni sociali tra gli utenti di questi concetti. Di conseguenza, non esiste una “natura umana” inalterabile, ma solo variazioni storiche. Inoltre, la scienza non “riflette” una realtà indipendente dall'uomo; è vera solo nella misura in cui esprime il processo in corso in una determinata situazione storica. La maggior parte dei marxisti, ad esempio, dava per scontato che la verità è verità indipendentemente dal luogo e dal momento della sua conoscenza, e che il sapere scientifico (compreso il marxismo) è storicamente accumulato e quindi non appartiene alla sfera, considerata illusoria, della sovrastruttura.
Per Gramsci, tuttavia, il marxismo è “vero” solo in senso pragmatico-sociale, nel senso che, articolando la coscienza di classe del proletariato, esprime la “verità” del suo tempo meglio di qualsiasi altra teoria. Questa posizione antiscientifica e antipositivista è stata attribuita all'influenza di Benedetto Croce, probabilmente il più rispettato intellettuale italiano del suo tempo. Va ricordato, tuttavia, che Gramsci insistette sul suo “storicismo assoluto”, rompendo con il contenuto idealista ed hegeliano del pensiero di Croce e con la sua propensione a mantenere una sintesi metafisica nel “destino storico”. Sebbene Gramsci si difendesse, la sua concezione storicista della verità poteva essere accusata di relativismo.
In un articolo scritto prima della sua incarcerazione e intitolato “La rivoluzione contro il capitale”, Gramsci sosteneva che la Rivoluzione in Russia invalidava l'idea che la rivoluzione socialista non potesse aver luogo prima dello sviluppo totale delle forze di produzione capitalistiche. Questo si riferiva alla concezione di Gramsci del marxismo come filosofia non deterministica. Gramsci insisteva sul fatto che affermare il primato causale dei rapporti di produzione significava fraintendere il marxismo. I cambiamenti economici e culturali sono espressioni di un processo storico di base ed è difficile dire quale elemento abbia il primato sull'altro. La convinzione fatalistica, diffusa nei primi movimenti socialisti, di un trionfo inevitabile dovuto a “leggi storiche” era, secondo Gramsci, il prodotto delle condizioni storiche di una classe oppressa ridotta alla difesa. Questa convinzione dovette essere abbandonata quando i lavoratori furono in grado di prendere l'iniziativa.
La “filosofia della prassi” non può considerare le “leggi storiche” come agenti o motori del cambiamento sociale. La storia dipende dalla prassi umana e quindi implica la volontà umana. Tuttavia, la volontà non può avere successo in ogni situazione: quando la coscienza dei lavoratori ha raggiunto il livello di sviluppo necessario per l'azione, le circostanze storiche saranno favorevoli. Non c'è alcuna inevitabilità storica nella realizzazione di questo o quel processo.
Ritenendo che la storia umana e la prassi collettiva determinino la rilevanza di questa o quella questione filosofica, il punto di vista di Gramsci si oppone a quello che egli considera il materialismo metafisico di Engels (che tuttavia Gramsci non cita esplicitamente) o di Plekhanov. Per Gramsci, il marxismo non si preoccupa di una realtà esistente da sé e per sé indipendentemente dall'umanità. Il concetto di un universo oggettivo esterno alla storia e alla prassi umana è, a suo avviso, analogo alla fede in Dio e rientra nella confutazione del materialismo da parte di Kant; la storia naturale ha senso solo in relazione alla storia umana. Il materialismo filosofico come senso comune è il frutto di una mancanza di pensiero critico e non può, contrariamente all'affermazione di Lenin, opporsi alla superstizione religiosa. Nonostante ciò, Gramsci era rassegnato all'esistenza di questa forma più rozza di marxismo: lo status del proletariato come classe dipendente significava che il marxismo, la filosofia della classe operaia, poteva spesso esprimersi sotto forma di superstizione popolare e di senso comune. Tuttavia, è necessario sfidare efficacemente le ideologie delle classi colte, e per farlo i marxisti devono presentare la loro filosofia in una forma più sofisticata e impegnarsi in un autentico confronto con le opinioni dei loro avversari.
Gramsci ritiene che lo stato sia molto più di una banda di uomini in armi al servizio della borghesia. A suo avviso, lo stato è diventato un campo di battaglia per il progresso sociale. Inoltre, lo stato è diventato più forte, con un sistema educativo che insegna, tra le altre cose, l'obbedienza. Ha anche una forza di polizia e un esercito grandi e ben equipaggiati, addestrati all'uso delle armi. La prospettiva di una presa di potere dello stato, come nella guerra di posizione, stava svanendo. La rivoluzione bolscevica di Lenin non era più possibile. Rimaneva la possibilità di aprire molteplici fronti in politica, diritto e cultura (ideologia) e di avanzare in trincea come nella guerra di movimento.
Dopo l'ondata rivoluzionaria seguita alla Prima guerra mondiale, la situazione globale non era più rivoluzionaria e l'Internazionale comunista sviluppò strumenti tattici per incoraggiare la lotta di classe, come il fronte unito e il governo dei lavoratori. Sorsero molti dibattiti sull'analisi del fallimento dell'Ottobre tedesco del 1923. Trotsky sosteneva che mancava soprattutto un partito comunista determinato e capace di ispirare fiducia alle masse. Al contrario, molti altri comunisti ritenevano che Trotsky sopravvalutasse le possibilità rivoluzionarie. Gramsci era uno di loro e scrisse che Trotsky era un “teorico dell'offensiva”, contrapponendolo a Lenin, che sarebbe stato in grado di vedere il cambiamento di periodo.
Nel 1925-1926, Gramsci svolse un ruolo importante nell'allineare il PCd'I alla leadership stalinista dell'IC. Quando alla fine del 1926 scoppiò la battaglia tra Stalin e l'Opposizione Unita, Gramsci non si schierò e invitò il partito russo all'unità.
Nel 1932-1933, Gramsci scrisse che Trotsky aveva sbagliato ad accusare Stalin di nazionalismo.
Durante il “Terzo periodo” del Comintern, quando la socialdemocrazia veniva analizzata come un “socialfascismo” più pericoloso del fascismo, Gramsci, imprigionato, cercò di convincere il popolo dell'inutilità di questa strategia.
I trotskisti hanno scritto delle convergenze e delle divergenze tra Gramsci e Trotsky.
A Gramsci è attribuita la frase: “È necessario combinare il pessimismo dell'intelligenza con l'ottimismo della volontà”. La citazione esatta è: “Sono pessimista per intelligenza, ma ottimista per volontà”; è tratta da una lettera al fratello Carlo scritta in carcere il 19 dicembre 1929. La citazione è spesso indicata come un prestito da Romain Rolland, senza citare la fonte, ma riecheggia l'aforisma di Alain: “Il pessimismo è l'umore, l'ottimismo è la volontà”, dalle sue Propos sur le bonheur (1928), Tuttavia, nel suo articolo Discorso agli anarchici, pubblicato su Ordine Nuovo nel numero 3-10 aprile 1920, collega chiaramente l'uso di questa espressione a Romain Rolland, scrivendo: “La concezione socialista del processo rivoluzionario è caratterizzata da due tratti fondamentali che Romain Rolland ha riassunto nella sua parola d'ordine: Pessimismo dell'intelligenza, ottimismo della volontà”.
Antonio Gramsci ha definito la crisi con la famosa citazione: “La crisi consiste precisamente nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: durante questo interregno si osservano i più svariati fenomeni morbosi”. La seconda parte della citazione è spesso tradotta come “Il vecchio mondo sta morendo, il nuovo mondo tarda ad apparire, e in questo chiaroscuro emergono i mostri”.