Ancona, 1920,
la rivolta
dei bersaglieri
la rivolta
dei bersaglieri
L'innesco della rivolta fu il rifiuto di un gruppo di bersaglieri di partire per l'Albania, dove il porto di Valona era occupato da un corpo di spedizione italiano che, a causa della ferma resistenza albanese e di un'epidemia di malaria, necessitava di truppe di rinforzo.
Il 26 giugno 1920 i soldati di due battaglioni dell'esercito italiano si ammutinarono e rifiutarono l'ordine di lasciare il porto per partecipare all'occupazione italiana dell'Albania, iniziata nel 1914. La polizia e i soldati fedeli furono inviati a reprimere l'ammutinamento, mentre il sindacato anarchico Unione Sindacale Italiana indisse uno sciopero generale a sostegno degli ammutinati. Il 27 giugno scoppiò una rivolta in tutta la città, quando i residenti locali e le truppe ammutinate presero il controllo dell'armeria della caserma e distribuirono armi. Isolata, la rivolta crollò entro il 30 giugno, ma nel giro di un mese le truppe italiane cominciarono a lasciare l'Albania e il governo dichiarò di rispettare l'indipendenza albanese.
La rivolta dei soldati si trasformò subito in una sommossa popolare che, pur non godendo dell'appoggio ufficiale dei partiti e dei sindacati, tenne in scacco Ancona (dove si registrarono centinaia di feriti e almeno 26 morti) per alcuni giorni diffondendosi poi, con modalità e peculiarità diverse da città a città, in altre aree del centro e del nord del paese.
L'evento, pur nella sua peculiarità, può essere inserito nel contesto del "biennio rosso", di cui costituì uno degli episodi più significativi, caratterizzato dallo scontro politico violento e armato tra opposte fazioni.
Era comune all'epoca, dato l'esiguo numero di forze di polizia, impiegare il Regio Esercito per sedare dimostrazioni e manifestazioni di masse operaie e bracciantili politicamente organizzate che rivendicavano la terra, nonché scioperi che spesso sfociavano in sanguinosi conflitti. Sebbene l'impiego di truppe per mantenere l'ordine pubblico fosse sgradito, si rivelò anche pericoloso, poiché i soldati così venivano a contatto con elementi socialisti, repubblicani o anarchici e tendevano a fraternizzare con i manifestanti. Le classi dominanti erano consapevoli che i soldati, molti dei quali reduci dalle trincee della Prima guerra mondiale, erano stanchi e desiderosi di tornare alle proprie case, e cominciarono a scegliere la via della militarizzazione della polizia e dell'istituzione della Guardia Reale di Pubblica Sicurezza.
Nel maggio-giugno 1920, in un'Italia segnata da acutissime tensioni sociali, il governo di Roma, con le sue mire espansionistiche, puntava all'acquisizione dell’arretrata e feudale Albania, con un’operazione militare iniziata già nel 1914. La situazione per le truppe d'occupazione italiane laggiù si faceva sempre più difficile. A Tirana si era formato ed insediato un Comitato di difesa nazionale, sostenuto dalla guerriglia albanese contro i 20 000 soldati del contingente italiano, che furono costretti a ritirarsi nel campo trincerato di Valona.
Nell'Albania, allora occupata dagli italiani, le cose si mettevano male per il Regio Esercito. L'offensiva albanese aveva catturato alcune delle guarnigioni degli occupanti, causando morti e feriti. Il 5 giugno migliaia di guerriglieri albanesi attaccarono gli italiani trincerati nel porto di Valona, che, peraltro colpiti anche da un’epidemia di malaria, dovettero anche fronteggiare la rivolta del quartiere musulmano della città.
In Italia il governo presieduto da Giovanni Giolitti ordinò l'invio di nuovi soldati per rafforzare il contingente di Valona, ma a Trieste un gruppo del 1º Reggimento d'assalto si rifiutò di imbarcarsi per l'Albania, con il sostegno delle forze pacifiste e anticolonialiste. I carabinieri e le guardie regie, fiancheggiati da squadre fasciste, assalirono i soldati ammutinati e i manifestanti socialisti e gli anarchici, dando vita a ore di scontri e di guerriglia urbana. Così il ministro della guerra Ivanoe Bonomi cambiò obiettivo, scegliendo di inviare in Albania i 400 bersaglieri del 33° battaglione dell'11º reggimento, comandato dal colonnello Antonio Paselli e di stanza presso la caserma Villarey di Ancona.
Ma Ancona, città operaia e portuale, era nota alle autorità per la sua forte presenza anarchica, socialista e repubblicana e aveva la reputazione di un centro ribelle e antimilitarista.
Una copertina propagandistica della "Tribuna illustrata" che favoleggia sulla fraternizzazione tra gli albanesi e gli occupanti italiani
Ancona, la caserma Villarey
I bersaglieri della Villarey, tutti reduci dalle trincee della Prima guerra mondiale, da vari indizi avevano intuito l’imminente partenza per Valona. E la maggior parte di loro, anche grazie alla propaganda di un gruppo di bersaglieri anarchici, erano determinati a rifiutarsi di essere mandati in Albania, che, tra l'altro, era ritenuta una destinazione punitiva per la malaria, per le pessime condizioni ambientali e, ora, anche per l'insurrezione dei nazionalisti albanesi, che si battevano contro l'occupazione italiana. Quando nelle prime ore della mattina del 25 giugno 1920 la notizia fu formalmente comunicata agli ufficiali e ai soldati, le reazioni furono contrastanti. Gli ufficiali, entusiasti dell'inaspettata opportunità di carriera, espressero il loro consenso, mentre i soldati, specialmente quelli più anziani, desiderosi di andare in congedo dopo quaranta mesi di servizio, si lamentarono di dover partire per un'altra guerra. Erano appena sopravvissuti a quella appena conclusa e ora rischiavano di ammalarsi gravemente di malaria o di morire sotto il fuoco delle mitragliatrici in Albania.
Perciò, nel pomeriggio, durante la libera uscita, un gruppo di bersaglieri (tra questi Monaldo Casagrande), incontrò il segretario della Camera del Lavoro della città, per chiedere il suo appoggio al fine di rifiutare la partenza. Ma il dirigente sindacale dichiarò la volontà del sindacato di non immischiarsi in un’iniziativa che definì “politica”, e suggerì ai militari di rivolgersi ai repubblicani, agli anarchici ed ai socialisti, molto forti (soprattutto i primi due) nella città.
Così, durante la notte tra il 25 e il 26 giugno del 1920, un gruppo di bersaglieri armati scese nel cortile della caserma, disarmò e rinchiuse nelle celle i sottufficiali e gli ufficiali, si impossessò di armi e di munizioni, comprese tre mitragliatrici che posizionarono agli angoli dell'edificio, e assunse il controllo della caserma. Alcuni graduati, che non risiedevano nella caserma, accorsero per tentare, senza successo, di convincere gli ammutinati a recedere. Dopo vari tentativi di mediazione infruttuosi, il generale De Vecchi ordinò ai carabinieri di cingere d'assedio la caserma, posizionando attorno alla Villarey vari cannoni.
Ma attorno alla caserma si andava raccogliendo anche una massa di cittadini solidali con gli ammutinati, compresi donne e bambini. Tutti inneggiavano alla rivoluzione, fraternizzavano con i ribelli. Alcuni giovani riuscirono a entrare e uscirono armati di due mitragliatrici, fucili e bombe a mano che iniziarono a distribuire ai cittadini, organizzati soprattutto dai repubblicani e dagli anarchici, molto forti nella città. I bersaglieri, dopo il fallito tentativo di coinvolgere la Camera del lavoro, riuscirono a stabilire un solido rapporto con le organizzazioni politiche anarchiche, repubblicane e socialiste della città, che prontamente diffusero la sommossa nelle vie e nelle piazze della città, alzando barricate e opponendosi alle forze dell'ordine, al grido di “Via da Valona”. Dunque, alle prime luci del giorno 26 giugno, iniziarono a verificarsi scontri armati tra gli insorti e i carabinieri.
Nella mattinata del 26, all’arrivo delle notizie di quanto accaduto nella notte nella caserma Villarey, un migliaio di portuali, lavoratori dei cantieri navali, ferrovieri e tramvieri, muratori e altri lavoratori si misero in sciopero e si radunarono nel porto per dirigersi poi, crescendo di numero fino a oltre 5.000, verso la vicina sede della Camera del lavoro. I dirigenti, pur dichiarando di non voler immischiarsi in una questione che veniva definita “politica”, ma aspramente sollecitati dai manifestanti, proclamarono lo sciopero generale. Così gruppi volanti di scioperanti fecero chiudere i negozi del centro della città e cominciarono a procurarsi delle armi, sia saccheggiando alcune armerie, sia assaltando e depredando alcune installazioni militari, coinvolgendo i soldati e imprigionando gli ufficiali. Venne anche eretta una barricata presso la principale porta di accesso alla città (porta Pia) per bloccare il preannunciato arrivo di reparti militari e di polizia. Si verificarono anche i primi scontri armati, in cui i carabinieri uccisero un portuale, Lamberto Lorenzini, mentre trasportava con un carro un carico di armi.
Altri scontri si verificarono alla porta della caserma ammutinata, ormai assediata dai carabinieri e dalle guardie regie, con varie vittime tra i bersaglieri insorti, tra gli agenti e anche tra i cittadini solidali con i rivoltosi. Intanto, i militari addetti ai cannoni puntati sulla Villarey si rifiutavano di sparare sui loro commilitoni e imponevano ai comandanti di aprire una trattativa con i rivoltosi asserragliati nella caserma, che chiedevano che nessuno fosse punito e che si annullasse la partenza per l'Albania. Alle 14:00 una delegazione del comando militare entrò nella caserma per siglare l'accordo, mentre in città, soprattutto nei quartieri a ridosso del porto, continuavano gli scontri tra cittadini e carabinieri e altri reparti militari. Durante i disordini, altri reparti militari si rifiutarono di partecipare alla repressione. Ci furono anche numerose vittime, sia tra gli ufficiali sia tra i soldati di truppa, sia tra i cittadini, mentre gli scontri si estendevano verso tutta la periferia, durando tutta la giornata.
Nella successiva mattinata del 27 giugno, gli scontri continuarono, con alterne vicende, mentre il governo, che aveva constatato che le truppe di stanza in città avevano manifestato segni di fraternizzazione con i rivoltosi, faceva affluire verso la città due battaglioni di carabinieri, con dei piroscafi giunti dalla Puglia, un migliaio di guardie regie con un treno (nonostante lo sciopero nazionale proclamato dal sindacato dei ferrovieri) e una squadra di navi da guerra, composta da cinque cacciatorpediniere, che aprirono il fuoco sulla città, rinnovando il ricordo di cinque anni prima quando nel maggio 1915 Ancona fu violentemente colpita dal mare dalla flotta austro-ungarica.
Soprattutto i carabinieri, naturalmente sparando ad altezza d’uomo sui rivoltosi, riuscirono a riprendere un certo controllo della situazione mentre gran parte dei cittadini ribelli ripiegava nelle campagne.
Nel pomeriggio del 26 giugno la Camera del Lavoro della vicina cittadina di Jesi (governata dai repubblicani) proclamò lo sciopero generale e organizzò assieme alle forze della sinistra locale un comizio unitario e un imponente corteo che bloccò la stazione per impedire ai convogli militari di arrivare ad Ancona. Numerosi manifestanti, dopo essersi procurati delle armi, si autorganizzarono in un "Comitato di agitazione", definendosi “guardie rosse”. La caserma dei carabinieri, dove si erano rinchiusi i militari presenti a Jesi, venne isolata mediante il taglio dei cavi del telegrafo. Il 27 giugno Jesi era totalmente in mano ai rivoltosi, che imprigionarono nella locale sezione del Partito repubblicano gli ufficiali e quei soldati che non si era uniti alla rivolta. Ma il 28 giugno numerosi reparti di guardie regie affluirono nella cittadina, sparando anche con colpi di artiglieria sulle barricate, liberando gli ufficiali e i soldati imprigionati ed arrestando i dirigenti locali della sinistra.
Analoghi episodi, tra il 26 e il 27 giugno, si verificarono in quasi tutti i centri minori attorno ad Ancona, Osimo, Agugliano, Aspio, Chiaravalle, Falconara Marittima, Montesicuro, Monte San Vito, Morro d'Alba, Offagna, Ostra, Paterno, Polverigi, Senigallia e Torrette, ovunque con vittime da entrambe le parti. A Santa Maria Nuova si costituì un “comitato rivoluzionario” che si insediò nel municipio, assaltò la caserma dei carabinieri, ordinò la requisizione di armi e cibo ed istituì posti di blocco. A Fabriano venne proclamato lo sciopero generale il 29 giugno. Il 28 giugno fu proclamato lo sciopero generale anche nella parte più meridionale della regione, con scontri armati. A Porto Civitanova i carabinieri aprirono il fuoco sui manifestanti uccidendone uno. I rivoltosi bruciarono il ponte sul Chienti. Furono innalzate barricate a San Severino Marche.
Nelle Marche del nord, a Pesaro, il 29 giugno, venne aperto il fuoco sui manifestanti che assediavano la caserma Cialdini, per spingere i soldati ad imitare i bersaglieri di Ancona. Per vendicare le vittime della sparatoria, gli insorti incendiarono l'abitazione del comandante della caserma ed occuparono la polveriera. A Fano, il 28 giugno, i dimostranti bloccarono un treno di carabinieri diretto ad Ancona, disarmandoli.
Ancona, Porta Pia, 1920
A Forlì, il 28 giugno, dopo l’arrivo delle notizie da Ancona, si formò un corteo e le forze dell'ordine aprirono il fuoco sulla folla uccidendo un muratore. I manifestanti risposero al fuoco dopo aver razziato alcune armerie. Episodi analoghi si verificarono a Cesena e a Rimini dove la locale Camera del Lavoro aveva proclamato lo sciopero generale.
A Terni, nella serata del 26 giugno, fu bloccato un treno di guardie regie dirette ad Ancona e la locale Camera del lavoro indisse lo sciopero generale, mentre le organizzazioni anarchiche, repubblicane e socialiste organizzarono un comizio in solidarietà con i rivoltosi di Ancona e contro l'invio delle truppe a Valona. Ma poi, i socialisti ternani, su indicazione del partito nazionale, invitarono i lavoratori a rientrare al lavoro, provocando scontri con le organizzazioni repubblicane e anarchiche. Nella confusione, i carabinieri aprirono il fuoco uccidendo cinque persone. In provincia di Perugia fu bloccata la circolazione dei treni diretti ad Ancona e si registrarono duri scontri con vittime tra i manifestanti e le guardie regie.
Gli operai delle aziende della zona sud di Roma scesero in sciopero il 26 giugno, e il giorno successivo lo sciopero si diffuse in tutta la città. Ma la Camera del lavoro, con il sostegno del Partito socialista (che riteneva “improvvida e spontanea" la mobilitazione, nella notte tra il 28 e il 29 giugno propose la sospensione della mobilitazione, che comunque si spense di fronte all’aggravarsi della repressione. Altri episodi di lotta si produssero in numerose altre città del paese, sia a Nord che a Sud, con scontri, sparatorie e vittime. A Brindisi, un gruppo di arditi palermitani, in procinto di imbarcarsi per Valona, decise di ribellarsi scontrandosi con i carabinieri, sia nel porto che nelle vie del centro. In molti centri si proclamarono scioperi e manifestazioni di massa per sostenere il rifiuto dei bersaglieri di partire per l'Albania e per ottenere il rimpatrio dei soldati già inviati. Si volevano anche bloccare le forze dell'ordine che il governo stava inviando ad Ancona, e per questo motivo vennero bloccate le linee ferroviarie.
I processi che seguirono, presso il Tribunale d'Assise di Ancona, nonostante le accuse fossero gravissime, ebbero sentenze in genere miti, di otto mesi per 13 bersaglieri ammutinati, e di sei anni per il bersagliere Monaldo Casagrande detto Malatesta, ritenuto uno degli organizzatori, arrestato a Genova mentre stava per imbarcarsi per l'America. La condanna più dura, a venti anni, fu comminata al bersagliere Orciani, mitragliere, ma lui riuscì a scampare alla prigione fuggendo clandestinamente in Argentina. I magistrati, per non inasprire il clima accesissimo del momento, e per la paura di scatenare nuove sommosse, adottarono la formula del "reato collettivo", non imputabile ai singoli. Nessun civile fu condannato.
Negli anni successivi, di fronte all’ascesa fascista, Ancona continuò ad essere luogo di scontri durissimi fra gli squadristi e gli Arditi del Popolo, anarchici, repubblicani, socialisti, comunisti.
Per cancellare il ricordo della secessione anconetana e per recidere i rapporti tra i militari e le organizzazioni della sinistra, l'11° reggimento bersaglieri fu trasferito a Cormons, in Friuli. I nomi dei caduti furono incisi su una lapide posta all'interno della questura di Ancona, ma negli anni '80, quando, dopo il terremoto del 1972, la polizia si trasferì in un'altra sede, la lapide fu rimossa e tutto fu dimenticato.
Ma quanto avvenuto in quelle giornate non rimase senza conseguenze. Convinse Giolitti e il suo governo che il clima del paese doveva far accantonare almeno per il momento le mire espansionistiche e l'occupazione dell'Albania. Così Giolitti, poco più di un mese dopo i fatti di Ancona, il 2 agosto, stipulò con il governo provvisorio albanese il "protocollo di Tirana", che riconosceva la sovranità albanese e imponeva il ritiro delle truppe di occupazione e concedeva all'Italia solo il controllo dell'isolotto di Saseno di fronte a Valona.