Nonostante il grado di sviluppo raggiunto a livello mondiale e la qualità delle nostre vite rispetto a nemmeno un secolo fa, ci troviamo in un Paese caratterizzato dal 46% della popolazione insoddisfatta della propria esistenza, quando, allo stesso tempo, in India, dove la povertà è dilagante e le condizioni di miseria tangibili, il medesimo indicatore riguarda solo il 18% degli individui. Robert Harris, scrittore e giornalista inglese, parla della nostra epoca come «età dell’ansia» e, a quanto pare, non a sproposito[1]. In Italia circa 80.000 giovani sono clinicamente depressi, e la casistica non andrà a diminuire, visto che entro il 2030 si presume che la depressione cronica sarà la malattia più diffusa fra i giovanissimi, secondo una stima dell’OMS[2].
Ma quali fattori conducono al diffondersi della patologia? Vari studi mettono in luce il legame con l’uso dilagante dei social network. La dipendenza da internet è tra le cause principali dell’isolamento: ci trasporta su un piano diverso di realtà, rinchiudendoci in una sorta di bolla in cui le cose con cui veniamo a contatto sono talmente tante e così distanti da noi da farci perdere di vista la vita vera, quella da trascorrere con chi conta veramente, fatta di impegni e attività significative per la nostra persona; una bolla da cui non vogliamo uscire perché la sua (ir-)realtà ci conforta e ci appaga, sebbene sia artificiale, o forse proprio per questo. Il risultato inevitabile è un nuovo genere di individualismo, che si maschera dietro una pretesa di autonomia: pensandoci completi abbiamo ci convinciamo di non aver bisogno ma dell’altro, ma così facendo perdiamo la familiarità con le naturali interazioni umane. Senza confronto con gli altri non c’è nessun tipo di identificazione, anzi non c’è proprio umanità. Viene meno l’ideale di una comunità basata su valori condivisi, e si perviene a una situazione di «liquidità», in cui i fondamenti unitari e collettivi sono liquefatti in una totale assenza di punti di riferimento[3].
I modelli rimasti possiedono lo stesso grado di liquidità – mutano di storia in storia o in base al numero di visualizzazioni – e di artificiosità. Accediamo a Instagram e ci troviamo davanti a infinite vite apparentemente più felici e serene delle nostre, corpi più magri, sorrisi più smaglianti, relazioni più rosee, perdendoci nell’ammirazione di ciò che vorremmo avere, senza sviluppare concretamente la nostra persona, alienandoci dalla nostra vita ed emulando aspetti dell’esistenza superficiali e che non ci appartengono. Si riferisce esattamente a questo Izi quando nei versi iniziali de Il nome della rosa canta «Ho bisogno di più spazio per cambiare pelle, come mi chiamo? Sono sazio di ‘ste tarantelle»: per cambiare se stessi occorrono nuovi stimoli e nuove esperienze di vita per evadere dalla trappola delle convenzioni e degli schemi che noi stessi, in quanto società, ci imponiamo. Pur di farne parte filtriamo le nostre foto con effetti che ci rendono «bambole giapponesi», col naso piccolo e le labbra piene e sensuali, perché niente della nostra imperfezione e insicurezza traspaia nella nostra immagine virtuale, l’unica cosa che pare consideriamo reale; i «filtri sulla pelle, filtri sulla vita» di Marracash in Tutto questo niente, brano in cui il rapper tratta del carattere effimero del denaro e della fama, e della felicità patinata che deve trasmettere in rete, quasi come obbligo contrattuale.
La condizione degli artisti è specchio del malessere di un’epoca: Izi e Marracash esprimono il disagio di una società che non ci rappresenta completamente e dunque non ci soddisfa, ma nella quale desideriamo terribilmente di esser compresi. Navighiamo nella rete cercando di non affondare nell’oblio, nel disperato tentativo di rimanere a galla ed essere riconosciuti dall’altro, chiunque egli sia. Ciononostante, ansia e scontento pervadono soprattutto i più giovani, privi degli strumenti indispensabili a scegliere la strada migliore da intraprendere e in che modo impiegare consapevolmente il proprio tempo. Conoscere e vivere l’altro anziché sbirciarne i movimenti o i pensieri tramite i post, approfondire la conoscenza anziché riempirsi di dati potrebbero essere un buon inizio per riappropriarsi della propria vita nella sua completezza e nel suo imprescindibile carattere di condivisione. Fare a meno della tecnologia è impossibile, e nemmeno auspicabile. Quel che occorre è un suo uso responsabile, affiancato da una solida consapevolezza che possa permettere di discernere il vero dal falso, ciò che può migliorarci davvero da ciò che ci distrae, in sostanza tutto ciò che può realmente renderci felici perché veri, senza filtri.
IV A Scientifico
(con il contributo della prof.ssa Pagni)
[1] R. Harris, La rivolta delle cose (traduzione di V. Rubino) su La lettura del 10.11. 2019
[2] Fonte: T. Carrer, Se l’ansia è così comune e la depressione giovanile è la malattia del secolo ci sono diversi motivi (e vanno compresi), su Elle del 23.01. 2018.
[3] Per la nozione baumiana di «società liquida» si vedano le considerazioni di U. Eco, La società liquida, in La bustina di Minerva su L’Espresso del 27.05.2015.