Sekiro: shadows die twice

il Grand Guignol dell'esistenza

«Uno shinobi dovrebbe conoscere la differenza tra onore e vittoria». Con questa sentenza, pronunciata al termine di un duello che il giocatore non può vincere, inizia l’avventura di Sekiro, ultimo gioco della From Software di Hidetaka Miyazaki, uscito il 22 marzo e premiato lo scorso 12 dicembre come gioco dell’anno. Protagonista è uno shinobi del periodo Sengoku, l’epoca di anarchia che insanguinò il Giappone feudale tra il XV e il XVII secolo; il giuramento di fedeltà prestato al suo signore Kuro Hirata– l’erede divino –, un ragazzo che suo malgrado porta in sé il seme dell’immortalità è come il marchio che Dio impose su Caino. L’onore è maledizione ma è anche essenza.

Il protagonista non ha nome, è semplicemente «Il lupo» e, nel progredire della storia, «Il lupo con un braccio solo» (sekiro), il che significa che non ha individualità. È definito dalla sua funzione, perdere la funzione equivale a perdere la sua essenza. Quando lo incontriamo, all’inizio, segregato in una grotta per una colpa che ci è ancora ignota, non occorrono i ceppi per impedirgli la fuga, è sufficiente il suo senso di inadempienza. È un uomo spezzato. In una notte perduta nell’oblio, il suo signore è stato rapito. Fuori dall’onore non c’è più libertà né vita. Solo la speranza di reintegrazione lo riporterà nel mondo degli uomini, ma ancora una volta, dopo aver ritrovato Kuro, dovrà conoscere il fallimento.

Il fallimento è parte fondante della storia e dell’esperienza di gioco. Il fallimento è regresso, perché risale a un passato dimenticato, ma è anche il rito di iniziazione che il giocatore dovrà affrontare dopo i primi minuti di gioco scontrandosi con Genichiro, erede del clan Ashina, deciso a sfruttare l’immortalità del ragazzo per evitare l’inevitabile annientamento del suo clan. In un campo di miscanto illuminato dalla luna avremo il primo assaggio della qualità artistica del gioco e della sua poetica. Non è fuori luogo parlare di poetica a proposito di Miyazaki e di una sua opera. Se anche il giocatore riuscisse, per ventura, a sconfiggere Genichiro, nulla cambierebbe nella sequenza narrativa: lo scontro si conclude ugualmente con la mutilazione di Sekiro.

È come se Miyazaki non riuscisse a concepire l’uomo se non come un essere mutilato, e questa mutilazione, che è innanzitutto interiore, si riflette inevitabilmente sul corpo. La causa è l’abbandono di uno stato di grazia originario che seppur involontario è in se stesso colpevole. L’uomo ha su di sé il peso della responsabilità collettiva ancora prima che di quella individuale. Il lupo non è direttamente responsabile delle vicende che hanno portato alla fine della casata Hirata, ma al tempo stesso lo è perché non ha impedito l’inevitabile. Che l’evento in sé non potesse essere evitato non rende l’uomo meno colpevole. La tradizione cristiana racchiude questa interpretazione della storia umana nella nozione di peccato originale. La fatalità dell’evento rivela inoltre che lo splendore originario era tale solo in apparenza, perché conteneva già in nuce i germi della sua dissoluzione. In Dark Souls, l’opera che ha consacrato Miyazaki, si fa riferimento a una perduta epoca d’oro – l’era del fuoco – dominata da Gwyn, dio della luce e dei fulmini; un’epoca in cui dei e uomini prosperavano, è vero, ma nell’inganno. Nella mitologia di Dark souls la luce è un tradimento dell’oscurità originaria; ne consegue che il mondo luminoso di Gwyn è un’illusione che necessariamente si estinguerà, come l’ultima brace di un fuoco da campo. In Bloodborne, i sapienti di Byrgenwerth hanno ingannato per secoli la morte e la malattia sfruttando il sangue dei Grandi Esseri; ma la maledizione del sangue ha infestato la città di Yarhnam mutando i suoi abitanti in bestie.

Seppur sconfitto Sekiro sopravviverà. Al posto dell’arto mutilato riceverà da un misterioso scultore buddista una protesi che gli consentirà di raggiungere luoghi altrimenti inaccessibili e di apprendere nuove tecniche di combattimento grazie agli strumenti prostetici . Attraverso il rampino, la dimensione di gioco di Sekiro acquista una verticalità sconosciuta agli altri titoli From Software. Eliminate le tradizionali statistiche dei GDR, il sistema di combattimento è basato unicamente sull’abilità del giocatore e sulla sua capacità di spezzare la postura nemica, indicata da un’apposita barra. Ciò conferisce agli scontri con la katana un’eleganza e un tecnicismo elevati. Il level design è vario e ben congeniato: tutte le aree di gioco sono collegate tra loro ed è sempre possibile percorrere la via inversa. Innovativa la dinamica stealth, che Sekiro eredita da Tenchu, titolo della Namco di cui originariamente doveva rappresentare il rebooth. Il frame rate si assesta tra i 40 e i 60 frame al secondo, con cali a 30 nei segmenti più concitati e densi di elementi. In controtendenza con i videogiochi del momento, che si adattano alle esigenze del mercato per essere fruiti dalla maggior parte degli utenti proponendo diversi livelli di difficoltà, Miyazaki impone caparbiamente i suoi standard e la sua autorialità. La difficoltà di Sekiro è quasi proibitiva e ogni insuccesso sarà punito con la perdita dell’esperienza e dei sen accumulati, necessari per lo sviluppo del personaggio. Sekiro può sfruttare il dono della resurrezione che condivide con Kuro, e risorgere se sconfitto, ma il suo uso eccessivo risulterà ancora una volta punitivo per il giocatore: il male del drago, la maledizione del sangue immortale, si diffonderà impedendo agli npc di interagire con Sekiro.

Stupisce come un titolo così complesso, forse il più complesso degli ultimi anni, abbia conquistato i Game awards 2019. Stupisce meno se si prendono in considerazione l’elevata qualità artistica del gioco e i nuovi standard imposti al genere action. Lo si vede già in Jedi: fallen order, uscito il 15 novembre, un gioco molto lontano dal genere souls, ma che ne riprende tuttavia dinamiche ed elementi narrativi adattandoli al franchise mainstream di Star Wars. Ma è soprattutto la filosofia di gioco a rendere Miyazaki tra i più geniali art director della sua generazione. Non è casuale la sua collaborazione G.R.R. Martin nell’atteso Elden ring. Morte, rinascita e punizione sono le tre componenti chiave della visione di Miyazaki, ma su tutte domina la dimensione ciclica del tempo. Tempi reali o solo possibili si intrecciano, in una serie di rimandi che per lo più rimangono senza spiegazione, come senza spiegazione, del resto, rimane buona parte degli accadimenti che si verificano nel corso della nostra esistenza. Un ciclo che si reitera non solo a livello di narrazione, ma nella stessa pratica di gioco: sia la difficoltà sia l’esplorazione dell’intera mappa rendono necessario ricominciare più volte. Inoltre, come nelle opere precedenti, anche in Sekiro sono presenti finali multipli, a seconda delle scelte consapevolmente ma soprattutto inconsapevolmente compiute dal giocatore. Il destino di Sekiro è un destino ineluttabile che si dispiegherà, nelle sue pieghe di dolore e rinascita, tra le mani del giocatore che ne erediterà la missione di redenzione, in un Giappone storico ma trasfigurato dal sogno. Una fiaba nera, una fiaba tragica che racconta dell’uomo, di ogni uomo, e del suo essere sospeso tra dovere e libertà, tra onore e disgrazia, tra coraggio e follia.

1 gennaio 2020

Il Direttore