Il XX secolo ha fornito una definizione inedita della crudeltà individuale e di massa. Per il «crimine senza nome» perpetrato dalla Germania nazista, Churchill nel ‘44 non riusciva a trovare nella lingua inglese un appellativo appropriato. Un giurista ebraico di origini polacche, Raphael Lemkin, coniò il termine di genocidio, dal prefisso greco gen- («stirpe») e dal suffisso latino -cidium (da caedere, «uccidere»), per designare l’annientamento pianificato dell’identità nazionale, etnica e culturale di popoli come polacchi, ebrei ed armeni. Non ancora inserito nel diritto internazionale, il crimine di genocidio non poté figurare tra i capi di imputazione del processo di Norimberga, che impiegò invece quelli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La nozione di genocidio non è presente nella sentenza del tribunale militare internazionale di Norimberga. Le condanne sono comminate per crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Questi ultimi comprendono «l’assassinio, lo sterminio, la riduzione in schiavitù, la deportazione e qualsiasi atto inumano commesso contro tutte le popolazioni civili, prima o durante la guerra, così come le persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi». Il crimine di genocidio è riconosciuto per la prima volta dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’11 dicembre 1946 nella risoluzione 96 come una «negazione del diritto alla vita di gruppi umani» per motivi religiosi, politici e razziali. La definizione risultava troppo vasta per paesi come l’Unione sovietica colpevoli di crimini di diritto internazionale e fu pertanto limitata nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, approvata il 9 dicembre 1948. L’art. 2 definisce il genocidio come «l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso». Tale definizione è stata accolta nell’art. 6 dello Statuto della corte penale internazionale, approvato a Roma il 17 luglio 1998: «Ai fini del presente Statuto, per crimine di genocidio s'intende uno dei seguenti atti commessi nell'intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, e precisamente: a) uccidere membri del gruppo; b) cagionare gravi lesioni all'integrità fisica o psichica di persone appartenenti al gruppo; c) sottoporre deliberatamente persone appartenenti al gruppo a condizioni di vita tali da comportare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo stesso; d) imporre misure volte ad impedire le nascite in seno al gruppo; e) trasferire con la forza bambini appartenenti al gruppo ad un gruppo diverso».
Le parole, si sa, creano divisioni, e di fatto nascono a questo scopo per dividere una realtà da un’altra definendola. Ma come definire rigorosamente un orrore «senza nome»? Se da un punto di vista legale è perfettamente legittimo istituire delle norme volte a identificare un determinato crimine, meno legittimo risulta l’uso politico del termine genocidio per fissare quasi una macabra classifica degli orrori contro l’umanità. Termini alternativi come etnocidio e democidio non colgono la radice del male. Un gruppo ritenuto per un motivo qualsiasi nemico del gruppo dominante diviene oggetto di una persecuzione che ha come scopo ultimo la sua totale eliminazione. La motivazione non è primariamente economica o politica. Gli Ateniesi distrussero la città di Melo e sterminarono i suoi abitanti non per odio razziale ma per ragioni di dominio. Le popolazioni indigene delle Americhe furono sterminate perché si trovavano sulla terra rivendicata dagli Europei. È arduo, e rischioso, applicare un termine moderno a eventi distanti secoli, le cui motivazioni interiori sono per noi ormai perdute. Armeni, gli Ebrei, omossessuali e malati di mente, minoranze etniche e culturali sono state e sono tuttora oggetto di una persecuzione motivata dall’ odio per l’«altro». Eventuali motivazioni socio-economiche sono solo aggiuntive e costituiscono tutt’al più un pretesto. Tutti i genocidi sono diversi gli uni dagli altri ma in ciascuno si può identificare un gruppo vittima identificato come nemico, l’intenzionalità e la pianificazione dell’annientamento e la sua perpetrazione, sporadica, parziale o totale.
Il genocidio ebraico rappresenta tristemente un unicum nelle pratiche genocidiare contemporanee. Yehuda Bauer, fondatore dell’Istituto internazionale di studi sull’Olocausto, ha pertanto proposto negli anni ’70 una ridefinizione della categoria di genocidio basata sulla distinzione tra il genocidio propriamente detto e, per le peculiarità che lo rendono unico, l’Olocausto del popolo ebraico. La risoluzione 60/7 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite l’1 novembre 2005 ha fissato il 27 gennaio – giorno della liberazione del campo di Auschwitz da parte dell’Armata rossa – la commemorazione annuale delle vittime dell’Olocausto. Lo scopo non è la commemorazione fine a se stessa, ma l’attuazione fattiva di un monito. Negli scorsi giorni, quarantasei leader mondiali si sono riuniti a Gerusalemme per commemorare i settantacinque anni dalla liberazione del campo di Auschwitz. Duole notare come le celebrazioni siano state macchiate da vistose assenze e polemiche sulle responsabilità nazionali dell’olocausto. In contemporanea a Mondovì, in provincia di Cuneo, è comparsa la scritta Juden hier («qui ci sono ebrei») sulla porta di casa del figlio della partigiana Lidia Rolfi, deportata a Ravensbruck nel 1944. Affermare che si tratta di un gesto isolato non è sufficiente.
Il giorno della memoria diventa un alibi se rimane lettera morta. Non basta guardare un film o leggere un libro di Primo Levi una volta l’anno: in questo modo la memoria è solo ricordo di fatti lontani. Negli anni ’60 Hannah Arendt ha coniato l’espressione «banalità del male» per descrivere la normalità, la noncuranza con cui il genocidio venne preparato e attuato. Stanley Milgram e Ron Jones ne hanno descritto i caratteri simulando esperimenti sul campo. In anni più recenti, Nancy Scheper-Hughes, antropologa, ha sviluppato la nozione di «continuo genocida»: una contiguità dello sterminio di massa con le violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si applicano negli spazi sociali: scuole, ospedali, carceri, uffici pubblici ecc., in cui gli altri sono ridotti a non-persone, se non a cose o a mostri. Esiste una contraddizione profonda insita nell’uomo europeo e che risale almeno alle guerre imperialiste. Commentando lo sterminio di circa diecimila sudanesi, inermi di fronte alle armi a ripetizione britanniche nella battaglia di Omdumran del 1898, lo stesso Churchill che non trovava parole per lo sterminio ebraico rimpiangeva l’epoca in cui nella guerra vedeva soltanto «l’aspetto sportivo di uno splendido gioco».
Con i sei milioni di ebrei sono morti gli Armeni, gli omosessuali, i Sinti, i Tutzi, gli Ucraini e i kulaki, le vittime dei kmher rossi; i musulmani e i croati della ex Iugoslavia; le donne perseguitate, stuprate, sfigurate, assassinate solo per l’appartenenza di genere. Ogni volta che chiudiamo gli occhi, ogni volta che scusiamo un atto intollerabile perché «tanto è un fatto isolato» o perché «quei tempi non torneranno più», ogni volta che discriminiamo un essere umano per la sua appartenenza a una supposta categoria etnica/politica/sociale/di genere siamo complici del genocidio hitleriano. Siamo tutti ebrei.
Il Direttore