L’ufficiale e la spia è il secondo adattamento cinematografico di un romanzo di Robert Harris da parte di Polanski, dopo Ghostwriter nel 2010. Il film, che rappresenta fatti e persone reali, tratta il caso Dreyfus che divise l’opinione pubblica francese a partire dal 1894. Il 23 dicembre di quell’anno il capitano di origine ebraica Alfred Dreyfus venne pubblicamente accusato di alto tradimento nei confronti della sua Nazione per aver passato informazioni segrete di natura militare alle autorità tedesche. Il tema, declinato nella forma di un dramma in costume, è la triste e nota normalità dell’ingiustizia. Dreyfus subì infatti un processo militare a porte chiuse, gravato da pesanti vizi di forma, e una degradazione pubblica nel cortile della scuola militare – gli furono strappati i gradi e gli venne spezzata la spada – prima di essere condannato a vita ai lavori forzati nella colonia penale dell’Isola del Diavolo, nella Guyana francese. La sua unica colpa: essere ricco ed ebreo.
Polanski, come già Ken Russell in Prisoners of Honor, non segue il filo narrativo consueto – dal primo adattamento cinematografico di undici minuti L’Affaire Dreyfus del 1899 – incentrato sulla figura del capitano e sul suo destino di deportazione, bensì sulla coraggiosa battaglia da parte del tenente colonnello Georges Picquart (Jean Dujardin), capo dell’ufficio informazioni del controspionaggio, che scopre l’inconsistenza delle accuse che avrebbero incastrato Dreyfus (Louis Garrel), e smaschera l’ingranaggio di menzogne che sfruttava l’antisemitismo montante e individuava nel capitano ebreo la vittima ideale. Picquart, e questo è l’aspetto più originale e affascinante del personaggio, non è un «buono», non è un dreyfussiano come Zola o Proust, non è un intellettuale di sinistra indignato. È ritratto sin dall’inizio come un antisemita che discrimina il giovane Dreyfus, nei suoi giorni all’Accademia, per le sue origini. A motivarlo non è dunque una particolare simpatia umana o un’accalorata difesa dei diritti umani. A spingerlo sono l’onore, il senso di giustizia e una forse ingenua ricerca della verità.
Nonostante costituisca un aspetto essenziale della vicenda, l’antisemitismo viene solo mosso sullo sfondo del film, che si concentra più che altro sul concetto di capro espiatorio: proprio nella cultura ebraica, era il caprone sacrificato a Dio durante la festa del Kippur ed incolpato di tutti i peccati compiuti dagli esseri umani. Questa scelta consente a Polanski di rendere la vicenda esemplare di un vizio connaturato all’uomo occidentale e quindi attuale. A questo punto la domanda è: come fecero ad accusarlo senza processo, dato che era solo un capro espiatorio, e dato che nessuno poteva confermare l’accusa? La risposta si trova in un’unica parola: omertà. Tutti sapevano, ma nessuno parlava per paura di rimetterci la carriera; ed è stato così che solo la solerzia di un funzionario militare, arrivato a dirigere un ufficio dei servizi segreti, andando così a sconvolgere lo status quo esistente e scovando la verità, abbia scoperchiato il proverbiale vaso di Pandora.
Il caso Dreyfus rappresenta un crocevia della storia politica e culturale europea. Innanzitutto, perché nasce sulla scia delle tensioni tra Francia e Germania successive alla guerra del 1870 che avrebbero da ultimo condotto allo scoppio del primo conflitto mondiale. Nella storia politica francese, la vicenda smaschera il profondo antisemitismo delle gerarchie militari, e più in generale del Paese, e contribuisce a radicalizzare il confronto tra nazionalismo e socialismo. Il giornalista Theodor Herzl, corrispondente austriaco a Parigi, si ispira al processo per redigere nel 1897 Lo Stato ebraico, in cui avanza la proposta della creazione di uno stato ebraico per sottrarre gli ebrei alle persecuzioni, e che costituisce pertanto la base teorica del movimento sionista. Non è un caso che solo qualche anno dopo, nel 1903, la polizia segreta zarista abbia fabbricato un documento, i Protocolli dei Savi di Sion, che attestava l’esistenza di una fantomatica cospirazione ebraica. Sono infine del 1896 e del 1899 i due testi classici del razzismo «scientifico» – Le selezioni sociali di Lapouge e Basi del secolo XIX di Chamberlain – che fondano l’immagine, anche fisica, dell’ebreo cospiratore che troverà diffusione nella propaganda novecentesca. Le vicende giudiziarie di Dreyfus segnano, infine, l’immaginario europeo e troveranno una trasposizione letteraria grottesca e agghiacciante nel dramma di Schnitzler Professor Berbhardi (1912) e ne Il processo di Kafka (1925). L’affaire Dreyfus, scrive Hannah Arendt, ha svelato il cuore incredibilmente duro e gelido del Novecento.
La scelta registica di Polanski, fedele al suo stile, è di giocare sul confine tra falso e copia, già dalle prime battute del film. Nel dialogo ambientato al Louvre, Piquart nota una statua di Apollo e chiede se sia greca. Il suo interlocutore, l’investigatore Desvernine (Damien Bonnard) gli risponde che si tratta di una copia romana. Quando Piquart conclude che allora si tratta di un falso, Desvernine ribadisce che si tratta di una copia dell’originale, come a dire che non è falso qualcosa che è uguale al vero se nessuno conosce l’originale. In questo confronto apparentemente collaterale sta il fulcro della storia: due atteggiamenti opposti nei confronti della verità, la differenza sottile ma fondamentale tra falso e copia. Lo stesso titolo italiano del film gioca sull’ambiguità: l’ufficiale e la spia sono al tempo stesso sia Piquart che Dreyfuss, sia in coppia che individualmente. Entrambi sono accusati di tradimento, in un certo modo, ed entrambi sono ufficiali. Il tema della falsificazione è centrale anche nella rilettura che dell’episodio fornisce Umberto Eco ne Il cimitero di Praga e serve a Polanski per adattare la vicenda del processo a ogni caccia alle streghe – e presumibilmente anche alle sue note vertenze con la legge statunitense. Ma è lo stesso Polanski a essere protagonista di un processo di falsificazione consapevole. Attraverso un uso sapiente del campo lungo riproduce in alcune scene iconiche – la degradazione e la deportazione – le stampe dell’epoca. Inoltre, raffreddando i toni riesce a rendere gelidi i colori vivaci della Francia della Belle Epoque e dell’impressionismo, smascherando in questo modo il volto violento dell’Europa di fine secolo nascosto sotto la patina di una civiltà raffinata e progredita.
Lo smascheramento dell’impostura ai danni di Dreyfus non può essere condotto a termine da Piquard, che in qualche modo ha contribuito a crearla. Inconsapevolmente certo, ma comunque colpevolmente. La sua punizione sarà la perdita di credito e l’allontanamento in Algeria. Serve un intervento esterno. Decisiva sarà la mano di Émile Zola (François Damiens), che con la sua celeberrima prima pagina J’accuse – titolo originale della pellicola – sul periodico Aurore si appellerà al presidente Faure puntando il dito (con tanto di nomi e cognomi) contro coloro che avevano cercato di intralciare il faticosissimo lavoro di Piquard.
Non sorprende che j’accuse sia diventata l’espressione utilizzata per antonomasia quando si vuol intendere che qualcuno ha mosso un’accusa contro terzi, senza vergogna o paura di ripercussioni. Esempi eclatanti di J’accuse sono sempre più attuali quando parliamo dei movimenti mondiali a favore della tutela del clima – How dare you di Greta Thumberg – , in cui i potenti della Terra vengono ripresi su più punti, rimarcando la loro inadeguatezza di fronte a disastri immanenti; oppure nel caso delle manifestazioni di Hong Kong che in sei mesi hanno mosso le stremate coscienze di due milioni di persone a favore di una svolta democratica. E anche in questo caso, la parola preponderante è l’omertà di chi ha paura di rimetterci nell’ammettere le proprie colpe, cercando al contrario qualcuno su cui scaricarle. Chissà quale sarà il Dreyfus di turno che dovrà essere incolpato da chi non ama prendersi le proprie responsabilità.
Linda Quericoni