E l’Occidente tornò a conoscere la paura. Non il rischio, a cui il progresso della tecnica l’aveva a lungo abituato, una condizione di insicurezza latente, sempre presente ma non presentificata, variabile nell’oggetto, sovente avvertita come distante e inattuale; qualcosa che riguarda sempre gli altri e solo marginalmente noi, vittime incolpevoli di un contagio estraneo. Perché il rischio è conseguenza della modernità, è l’obolo che le è dovuto. Il trionfo dell’uomo occidentale, il successo ininterrotto delle sue conquiste ha relegato al margine periferico il residuo perturbante della modernità. Il vaiolo, il colera, la tubercolosi sono memorie perdute, poco più che immagini del vissuto collettivo. Il rischio attuale – che si tratti di malattie degenerative, di terrorismo, di catastrofi idrogeologiche – per quanto terribile ha perduto il carattere di ineluttabilità. L’Occidente ha vissuto in questa illusione fino a gennaio, poi è iniziato un lento e drammatico risveglio. Così, «ci riscopriamo scarabocchi di una scimmia pittrice» (...). Il Direttore
Il 30 ottobre 1938, i cittadini americani sintonizzati sull’emittente CBS appresero dal notiziario delle 20.00 che negli Stati Uniti era in corso un’invasione aliena. Sebbene al termine del servizio il suo autore, Orson Welles, spiegasse che si trattava di uno scherzo ispirato al romanzo La guerra dei mondi (di H.G. Wells), il realismo con cui era stato condotto – con l’intervento di esperti, inviati sul posto, interviste ecc. – e il generale clima di tensione del Paese negli anni ’30 provocarono un panico reale. Oggi si parlerebbe di fake news. Welles, che all’epoca aveva 23 anni, si sarebbe imposto come uno dei più grandi registi del ‘900, a partire da un film del ’41 dedicato al potere dell’informazione: Quarto potere (tit. orig. Citizen Kane). Le notizie false e la loro diffusione sono sempre esistite, questo è ovvio, sin da quando esiste la comunicazione verbale, ma se fino a un tempo relativamente recente le informazioni erano veicolate attraverso canali ufficiali e regolari, o comunque centri circoscritti di diramazione, la situazione attuale è quella di un policentrismo anarchico (...). Il Direttore
Il senso del peccato, il piacere nella colpa sono da sempre motivo di fascino per l’uomo. Chiamiamolo pure «male», consapevoli, però, che si tratta solo di una parola, incapace di rendere da sola tutta la complessità della dimensione cui fa riferimento. Agostino, nelle sue Confessioni, riferisce un episodio banale per noi abituati a ogni possibile fatto di cronaca ma ricco di significato nel suo ricordo di uomo ormai maturo. Una notte, quando aveva sedici anni, Agostino e i suoi compagni si avventurarono in campo vicino, dove cresceva un pero carico di frutti e decisero di rubarli, non per fame o per gola – Agostino lo scrive chiaramente, le pere non avevano un aspetto allettante –, ma per il gusto di commettere un atto che sapevano contrario alla legge. Un crimine per quanto odioso come l’omicidio può avere delle motivazioni e delle attenuanti – la paura, la fame, la vendetta. Agostino sceglie l’episodio delle pere proprio perché la sua ordinarietà consente di cogliere l’estetica del comportamento criminoso: il desiderio del male per il male (...). Il Direttore
Il XX secolo ha fornito una definizione inedita della crudeltà individuale e di massa. Per il «crimine senza nome» perpetrato dalla Germania nazista, Churchill nel ‘44 non riusciva a trovare nella lingua inglese un appellativo appropriato. Un giurista ebraico di origini polacche, Raphael Lemkin, coniò il termine di genocidio, dal prefisso greco gen- («stirpe») e dal suffisso latino -cidium (da caedere, «uccidere»), per designare l’annientamento pianificato dell’identità nazionale, etnica e culturale di popoli come polacchi, ebrei ed armeni. Non ancora inserito nel diritto internazionale, il crimine di genocidio non poté figurare tra i capi di imputazione del processo di Norimberga, che impiegò invece quelli di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. La nozione di genocidio non è presente nella sentenza del tribunale militare internazionale di Norimberga. Le condanne sono comminate per crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l’umanità (...). Il Direttore
Scriveva Nietzsche: «L’uomo invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante». A differenza dell’uomo, l’animale non è schiacciato dal peso del passato. Nietzsche era ossessionato dal tempo, in un’epoca a suo avviso strabordante di storia; noi invece viviamo come se non avessimo memoria. Ogni anno, a partire dal 2005 celebriamo il 27 gennaio il giorno della memoria, ma questo basta a tenere in ordine le nostre coscienze? C’è memoria e memoria. Noi sicuramente ricordiamo e commemoriamo il 27 gennaio, ma lo sentiamo come nostro, ne abbiamo autenticamente memoria? Riusciamo a rivedere, chiedo, nella sua tragicità la nostra stessa umanità offesa e mutilata? Ne dubito. Della memoria è rimasto solo un ricordo. L’olocausto non è un semplice evento nella storia; non è un punto nella linea del tempo. Dopo Auschwitz, dichiarò Hans Jonas, parlare dell’onnipotenza di Dio è diventato impossibile. Allora, ogni presa di parte, ogni tentativo di appropriazione politica brucia come l’ennesima ferita a una memoria già violata (...) Il Direttore
Cos’è un muro? La domanda risulta banale. È ovvio cosa sia un muro. Basta indicare con un gesto una delle tante pareti che ci circondano e proclamare «Questo è un muro!». Ma un muro non è soltanto un cumulo di mattoni e calce. Il muro di mattoni e calce è l’esecuzione materiale di un progetto, e che dunque il muro esisteva ancora prima che esistesse il muro. Con questo intendo cosa? Che il muro fisico, tangibile, non è altro che la proiezione di qualcos’altro di ben più profondo e radicato. Parliamo allora del muro di Berlino prima del muro di Berino. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nello scenario di un mondo sull'orlo della distruzione atomica, la città venne tagliata in due da un reticolo di filo spinato che separò, talvolta per sempre, genitori e figli, fratelli, amici e amanti. L'operazione, tanto inattesa quanto fulminea, riuscì grazie alla perfetta efficienza con cui fu compiuta. Lo scopo dichiarato di Walter Ulbricht, il leader della DDR che l'aveva ordinata, era porre fine al continuo esodo di popolazione verso la parte occidentale della città (...). Il Direttore.
«Che cos’è una regola?». Con questa domanda inizia l’intervento di Gherardo Colombo al Palagio di Pescia. Poi si toglie la giacca, afferra il microfono e si mischia nella platea. A comporla è una delegazione di ragazzi degli istituti superiori della città. Gherardo Colombo, simbolo della magistratura italiana. Il suo nome è legato alle indagini sul delitto Ambrosoli, sulla Loggia P2, sul lodo Mondadori ma è da tutti associato in primo luogo all’inchiesta Mani pulite. Il suo intervento al Palagio è stato un dialogo, non una lectio magistralis. Ha invitato pazientemente, senza sottrarsi all’ironia e allo scherzo, a rispondere e riflettere alla domanda. Dai videogame a Don Rodrigo, dalla ricetta della torta di mele alla discriminazione del «lei» e del «tu». La regola non è un’imposizione, ha detto. L’imposizione priva l’individuo della responsabilità. La regola è un aiuto, uno strumento che ci consente di giungere all’obiettivo: «Se vuoi fare la torta di mele deve usare gli ingredienti. È necessario. Se vuoi diventare libero è necessario seguire la Costituzione». A questo serve dunque la Costituzione, a comprendere le regole al fine di essere liberi. (...) Il Direttore.
È notizia di queste ore che la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, dal 2018 affittuaria dell’ex-Ilva di Taranto, ha ritirato la sua offerta di acquisto. Non si discuterà qui delle gravissime ripercussioni politiche ed economiche, né si affronteranno i temi, seppur fondamentali dell’ambiente e della salute legati all’acciaieria di Taranto. Il nostro scopo è invece una riflessione a partire dalle ripercussioni occupazionali della vicenda: a rischio ci sono circa 10.000 posti di lavoro. Si è usato l’aggettivo «occupazionale» ma forse sarebbe stato più adeguato «esistenziale». Sì, perché il lavoro non è solo un’occupazione, è la vocazione dell’essere umano a rendere da un lato il mondo più abitabile per la sua comunità, dall’altro a realizzare se stesso e le sue aspirazioni. In teoria. Mi vengono in mente le pagine iniziali del Piccolo principe, che forse alcuni di voi hanno letto. Vi si descrive l’atteggiamento dei «grandi» che giudicano le compagnie giuste per il figlio in base all’abitazione e al lavoro dei genitori. Ed è per sfuggire a questo modo di oggettivare il mondo che il piccolo principe intraprende il suo viaggio (...). Il Direttore