Joker

La dimensione patologica del male

Regista: Todd Phillips

Genere: Drammatico

Paese: USA

Durata: 122 min

Data di uscita: 03/11/2019

Il senso del peccato, il piacere nella colpa sono da sempre motivo di fascino per l’uomo. Chiamiamolo pure «male», consapevoli, però, che si tratta solo di una parola, incapace di rendere da sola tutta la complessità della dimensione cui fa riferimento. Agostino, nelle sue Confessioni, riferisce un episodio banale per noi abituati a ogni possibile fatto di cronaca ma ricco di significato nel suo ricordo di uomo ormai maturo. Una notte, quando aveva sedici anni, Agostino e i suoi compagni si avventurarono in campo vicino, dove cresceva un pero carico di frutti e decisero di rubarli, non per fame o per gola – Agostino lo scrive chiaramente, le pere non avevano un aspetto allettante –, ma per il gusto di commettere un atto che sapevano contrario alla legge. Un crimine per quanto odioso come l’omicidio può avere delle motivazioni e delle attenuanti – la paura, la fame, la vendetta. Agostino sceglie l’episodio delle pere proprio perché la sua ordinarietà consente di cogliere l’estetica del comportamento criminoso: il desiderio del male per il male.

È chiaro, la dimensione del male è commisurata all’età e la sua celebrazione, o condanna, all’epoca. Così, il furto delle pere di Agostino è l’atto di teppismo di un sedicenne, ma si pensi alla grandiosità del Lucifero di Milton, immagine esemplare del ribelle all’epoca della guerra civile inglese; o a Dorian Gray, simbolo dell’estetismo decadente. Anche l’inferno, verrebbe da dire, ha i suoi eroi. Noi abbiamo Joker.

Il Joker interpretato da Joaquin Phoenix, nell’omonimo film di Todd Philips, è simbolo delle paure e delle ansietà della società contemporanea. La sua follia e malvagità sono patologiche. Non è un esteta sadico come Jack Nicholson nel Batman di Tim Burton, né un ribelle nichilista come Heath Ledger ne Il cavaliere oscuro di Nolan, né l’eccentrico e romantico Jared Leto di Suicide Squad. Il film ha il pregio di non presentare una figura stereotipata del cattivo o un’esaltazione provocatoria del male come modello di anarchismo politico.

Arthur Fleck, il futuro Joker, è un infelice. La povertà e la magrezza segnano come una cicatrice tutta la pellicola. Phoenix, in una superba prova d’attore, rappresenta con il suo corpo il disagio, la disillusione, il fallimento di una vita che non poteva non risultare fallita, perché originata dall’abuso e dalla menzogna; la vita come una gara truccata sin da principio, solo per alcuni, come se Dio o il fato si divertissero a barare, predestinando gli uomini al successo o all’insuccesso senza alcuna considerazione dei meriti personali, ma solo per un divertimento perverso.

La storia è ambientata negli anni ’80. Arthur Fleck è un aspirante comico che lavora come clown. È solo, emarginato, oggetto di disprezzo, vittima di violenze. Parla ma non viene ascoltato. Come nei fumetti della DC e negli adattamenti cinematografici precedenti, anche qui Joker consegna un biglietto: non però l’iconica carta da gioco, ma una nota che informa i presenti della sua condizione patologica che lo porta a ridere smodatamente come reazione nervosa allo stress. A parte un breve inserto della storia parallela della famiglia Wayne, questo Joker potrebbe essere chiunque. Nessuno è buono, nemmeno Thomas Wayne, da sempre filantropo e padre modello. Anzi, la classica dicotomia buono/cattivo risulta del tutto assente.

Gotham City è la New York grigia e disperata di Scorsese. Chiari i riferimenti di Philips a Taxi Driver – ad esempio il monologo con la pistola in mano, non allo specchio ma davanti alla tv – e a Re per una notte (King of Comedy), storia di un comico fallito (Robert de Niro) che frustrato dai continui rifiuti sequestra un noto presentatore televisivo (Jerry Lee Lewis), alla stessa presenza di De Niro, protagonista di entrambi i film. Ed è proprio in una delle battute finali con il personaggio interpretato da De Niro (Murray Franklin) che Joker rivela l’origine del male: «Cosa accade quando ti imbatti in uomo solo e malato di mente, abbandonato dalla società e trattato come immondizia?». Questa è una domanda che non dovremmo mai smettere di porci. Cosa succede quando isoliamo gli altri, quando non vediamo il disagio o, peggio, quando lo vediamo e ciononostante decidiamo di passare oltre se non di approfittarne? Di certo niente di buono. Basterebbe chiederlo a Thomas Wayne.

Arthur Fleck è diventato Joker una notte, in metropolitana, quando ha deciso di dire «no». No all’umiliazione, no alla sofferenza, no all’anonimato. E la sua protesta, non premeditata, diventa quella della città intera secondo un meccanismo mimetico tristemente noto nelle società massificate. In tempi di demagogia e rabbia sociale la maschera del clown diventa il simbolo, e l’innesco, dell’odio interclassista. Non si possono non udire, in sottofondo, gli echi delle rivolte in Iran, a Hong Kong, in Cile. È allora, quando Joker si strappa di dosso la maschera che la vita gli ha fornito e indossa quella che ha scelto, che il bambino cacciato dal paradiso diventa il Lucifero ribelle.

GS