«Disagio», una parola semplice e non ricercata, che sfugge tuttavia a ogni tentativo di definizione, tanto ramificata è la varietà delle sue accezioni. È come uno specchio in frantumi, nei cui riflessi, distorti e parziali, ci siamo noi, tutti noi.
L’emergenza sanitaria ha palesato, drammaticamente, quanto questa frammentazione ci caratterizzi, come singoli e come comunità. Certezze consolidate sono state spazzate via, abitudini ordinarie sono state vietate, il nostro modello occidentale si è scoperto inerme di fronte alla calamità.
Se realtà metropolitane soffrono per vittime, sovraffollamento delle strutture sanitarie, blocco delle attività economiche, che dire di quelle comunità che da sempre, in Italia, sopravvivono al confine tra due mondi? Eppure la vita delle comunità montane non ha l’onore delle cronache.
Quelle stesse roccaforti, nate in tempi lontani come garanzia di salvezza nei momenti più difficili, a lungo contese per il dominio delle vallate sottostanti, giacciono oggi in sconsolante desolazione abbandonate al loro destino, vittime dell’esodo degli abitanti e dell’oblio delle istituzioni. Quello che un tempo era stato un borgo vitale si è trasformato in un paese fantasma in cui gli edifici cadono a pezzi, a volte senza che i loro proprietari – residenti per lo più altrove – ne vengano tempestivamente a conoscenza.
L’esodo di quella che Sismondi ha ribattezzato «Svizzera pesciatina», iniziato nel secondo dopoguerra, non è mai cessato. I pochi rimasti hanno visto le case legate alla loro memoria svuotarsi, i campi riempirsi di sterpaglie, le piccole attività su cui si fondava la loro economia chiudere, finché non è rimasto loro un eremo isolato dalla modernità
Ma gli abitanti non si lamentano tanto di queste mancanze, sanno che vivere in montagna ha i suoi svantaggi. Ciò che non possono sopportare è la distruzione di quei legami che si erano intessuti, matrimoni che incrociavano i destini delle varie famiglie, spartizioni di terreni che creavano alleanze lavorative. Questo labirinto di parentele ormai mostra i segni del tempo. Il paese muore non tanto strutturalmente ma interiormente. L’enorme abisso che è andato formandosi tra la città e i borghi montani ha portato via i più giovani con la speranza di miglior vita e così nel paese non rimangono che i più temerari o i più anziani ormai interamente appartenenti a quel territorio. Con il passare degli anni il la struttura sociale è collassata e le persone sono rimaste sole.
Questi borghi però sono l’emblema dell’unione indissolubile tra l’uomo e la natura, quell’unione che da d è decenni è sacrificata in favore dell’artificiale. L’uomo in questi paesi ha imparato a rispettare i boschi ma anche a domarli. E ora? Ora gli animali distruggono ciò che con fatica era stato eretto e non di rado attaccano le stesse persone, i boschi hanno riconquistato con rovi e spine ciò che era stato loro sottratto. Qualcuno potrebbe vederci una rivincita della natura, ma se si pensa a quegli individui abbandonati lassù sulla cima delle montagne che ogni giorno devono far fronte a problemi che per i loro nonni o bisnonni erano impensabili, come ad esempio i cinghiali che scorrazzano per le vie del paese, costruite con fatica e pietra, non si può non sperare in un intervento che migliori la loro vita.
Chi non ha mai sentito parlare dei tornanti delle strade di montagna? Ma se a queste inevitabili curve si aggiungono buche che non fanno che dilatarsi a ogni passaggio e che diventano impossibili da evitare, la vegetazione che si allunga oltre il margine nascondendo alla vista altri mezzi; tra uno scossone e un altro arriva l’inverno e con esso la pioggia e la neve. Si aggiungano alberi che cadono e bloccano il passaggio, frane che travolgono la strada portando con sé parti di quello che resta della montagna. Queste catastrofi naturali sono dovute all’abbandono dei boschi.
Entrati in paese, la situazione non è migliore. Le farmacie sono lontane e molto spesso manca un ambulatorio; l’ambulanza non sempre arriva in tempo e alla gente del luogo non resta che sperare di non ammalarsi o trasferirsi altrove.
Con il passare degli anni l’elettricità è arrivata anche sulla cima delle montagne ma alle volte sembra di essere tornati all’epoca delle lampade a olio, perché un albero o una frana abbatte i cavi della corrente. Quindi non resta che accendere una candela e aspettare che venga risolto il problema. Anche se la scoperta di Edison ha fatto la sua comparsa in questi borghi, scarseggia ancora il suo impiego nell’illuminazione pubblica. Con il calare delle tenebre queste fortezze divengono dei labirinti oscuri in cui dietro l’angolo si cela una brutta caduta o qualche animale; al buio, gli automobilisti si fidano più della memoria che della vista.
Nelle strade dove un tempo si udiva il vociare degli ambulanti, le urla giocose dei bambini, dove ardeva il calore delle sagre di paese, ora alberga il silenzio. Un silenzio figlio del calo demografico e dello spopolamento ma non solo.
Le istituzioni negli anni hanno abbandonato questi paesi perché, bisogna ammetterlo, trovare soluzioni non è semplice; non è nemmeno remunerativo, né in termini economici né di guadagno elettorale; è tuttavia necessario. Occorre tornare all’uomo. Lo dimostrano i movimenti recenti di lotta e di protesta contro la devastazione ambientale, la ricerca sempre più pressante di un rifugio dall’inquinamento e dal disagio della modernità, anche per una semplice passeggiata; lo ha dimostrato il COVID 19, lo ha dimostrato a tutti noi.
Secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, i paesi fantasma in Italia sono circa un migliaio, se si escludono stazzi e alpeggi. Il giornalista Antonio Mocciola ne ha descritti ottantadue nel suo libro Le belle addormentate. La regione che detiene il primato è la Toscana con ben diciannove borghi; seguono il Piemonte, la Liguria e la Sardegna, ma ogni regione – e questo è il dato forse più sconsolante – ne possiede almeno uno. Questi numeri sono destinati a crescere se non si interverrà.
Organizzare manifestazioni sportive consentirebbe il recupero degli antichi sentieri. Con l’incasso delle iscrizioni si potrebbe investire nella cura del bosco che ospiterà la competizione e nella segnaletica e nella mappatura di percorsi che ormai, nascosti dalla vegetazioni, rimangono intatti solo nella memoria degli abitanti più anziani. La regolarità di iniziative analoghe consentirebbe la loro preservazione.
Non si può immaginare, tuttavia, di rivitalizzare un antico borgo se prima non si tutela la sicurezza. Per le strade c’è poco da fare, serve un’attenzione costante e soprattutto il rifacimento dell’asfalto che ormai è d’obbligo visto il crescente numero di casi di incidenti dovuto al fondo stradale. Inoltre appena prima dell’inverno bisogna disporre, lungo il tragitto, il sale. I margini della strada invece richiedono molto più impegno, con il cambiamento climatico e il conseguente aumento di eventi estremi e atipici associati poi alla scarsa cura del terreno boschivo hanno reso necessario un intervento drastico come ad esempio l’installazione di reti metalliche contenitive per evitare la caduta dei massi. Questi interventi però avvengono troppo spesso dopo l’evento, «meglio prevenire che curare» se i proverbi non sono morti insieme agli antichi paesi è bene eseguire questi lavori prima che la montagna crolli.
E per le persone? Mantenere un ambulatorio in paese è troppo dispendioso? Si possono trovare soluzioni di compromesso, creando postazioni sanitarie lungo il versante della montagna, a metà strada tra la città e il borgo così da favorire la rapidità degli interventi, aumentare anche la disponibilità dei farmaci e la possibilità di consultazione del medico. E per i servizi essenziali, alimentari e postali innanzitutto, e per il commercio al dettaglio?
La concessione agevolata di edifici pubblici o privati ad aspiranti imprenditori, oltre che a contribuire alla necessaria ripresa economica nazionale, potrebbe consentire un recupero della vitalità di queste comunità. D’altronde le attività che coinvolgono la montagna non mancano: associazioni di runners, circoli di ciclisti o gruppi scout, tutti hanno bisogni di posti di ristoro. Poi si sa, gli Italiani per il buon cibo sono disposti a fare chilometri, quindi un ristorante caratteristico, magari nel contesto di un borgo storico ristrutturato, costituirebbe una buona opportunità di investimento.
Non si tratta di soldi, né di guadagno. È in gioco la tradizione del nostro Paese, la sua storia, il suo futuro. Un futuro senza un passato è cieco. L’economia è lo strumento. Basterebbe un piccolo segno di interesse, di aiuto e la passione per il posto delle origini si riaccenderebbe; gli abitanti troverebbero le forze dopo anni di quiescenza di far rivivere il loro territorio. Del resto, ciò di cui tutti abbiamo più bisogno è la comunità. Aiutiamoci a ricostruirla.
Diana Papi