Accade talvolta che i sentieri tortuosi che il destino ci pone dinanzi siano occasione di un nuovo inizio. In siffatte circostanze spetta a noi ricostruirne i percorsi interrotti. Persino nel baratro della prigionia qualcuno ha trovato salvezza, e dalla prigionia in cui siamo stati costretti in questi mesi – una prigionia che ha riguardato le nostre persone e il nostro lavoro – ci aspettavamo che qualcosa sarebbe cambiato, che, almeno una volta, la storia potesse essere effettivamente «maestra di vita». Ci aspettavamo, forse ingenuamente, che in quest’anno drammatico che non è ancora giunto al termine, il pensiero calcolante della burocrazia lasciasse respiro alla vocazione autentica dell’istituzione scolastica. Siamo stati confortati, in questi mesi, dai messaggi istituzionali che insistevano sulla necessità di una didattica inclusiva, di nuovi metodi di apprendimento e di classi dotate degli spazi adeguati. Nell’ultima conferenza stampa di venerdì 26 giugno, il presidente del Consiglio dei ministri e il ministro dell’istruzione hanno pronunciato parole nobili e condivisibili: «scuola sicura, moderna e inclusiva», «no a classi pollaio», «percorsi personalizzati per i ragazzi», «assunzioni fino a cinquantamila persone», «investimenti nell’edilizia scolastica».
È pertanto giunta come una sorpresa la decisione dell’USP di Pistoia, ufficializzata la settimana scorsa, di modificare l’assetto di quattro classi del Liceo Carlo Lorenzini, due attuali seconde dell’indirizzo scientifico e due delle scienze umane. Sui criteri in base ai quali operare è stata lasciata ‘libertà’ di azione all’Istituto. La decisione di procedere a un accorpamento, nell’attuale emergenza sanitaria, risulta difficilmente conciliabile con la posizione ufficiale del governo e richiederebbe quantomeno una delucidazione in merito che non è mai giunta: le classi in oggetto devono essere rimodulate – cioè smembrate – , in modo che da quattro se ne formino tre, di cui una articolata scienze umane/scientifico. Diciamo «classi», utilizzando il linguaggio spersonalizzante della burocrazia, ma intendiamo persone che per due anni hanno lavorato e vissuto insieme, che sono cresciute insieme. Una classe, val la pena ricordarlo, non è un astratto spazio geometrico: lo spazio, sia fisico che umano, non è indifferente al processo educativo; al contrario ne è parte fondante.
Eravamo certi che l’epoca in cui gli individui erano ridotti a cifre fosse tramontata. Temiamo, adesso, di essere stati smentiti dai fatti. Decidere di accorpare classi di indirizzi differenti per una logica, che in assenza di risposte ufficiali, possiamo supporre di natura economica, equivale a un tradimento della missione educativa della Scuola e di una didattica puerocentrica. Tale operazione, oltre allo smembramento di gruppi già consolidati, comporterebbe una didattica separata per le materie di indirizzo, con un risparmio complessivo per le casse dello Stato di appena quindici ore settimanali, nemmeno uno stipendio mensile. Se dunque, il ragionamento, ammesso che di ragionamento si possa parlare, è di natura economica, ben si comprende come il risparmio sia minino. Sembra essersi imposto ormai da anni anche nella scuola un modello aziendale. Ebbene, pur adottando questa prospettiva, a nostro avviso limitata e limitante, non si potrà non convenire che un’azienda – sempre che la scuola sia un’azienda – funziona solo se investe sapientemente. Nel libero mercato dell’istruzione, un istituto scolastico risulta tanto più competitivo quanto più sa investire nel campo che gli è proprio, la formazione. Il Liceo Lorenzini garantisce per tradizione classi dai numeri contenuti, anche per gli spazi della struttura, che ricordiamo è un palazzo storico gestito, peraltro, dalla provincia. Proprio la sua struttura e conformazione avrebbero garantito al Lorenzini di proseguire anche quest’anno, più agevolmente rispetto ad altre realtà, quell’opera di formazione che nel tempo gli ha garantito reputazione e prestigio; prestigio che la Scuola non è disposta a perdere. Il bacino d’utenza sceglie la qualità del nostro servizio pur avendo a disposizione soluzioni più comode e facilmente raggiungibili. Di fronte alla prospettiva dell’accorpamento e di altre misure non ancora chiarite, nonostante l’approssimarsi di settembre, come il doppio turno o lo svolgimento delle lezioni in spazi alternativi, si fa concreta la possibilità che in molti optino per l’iscrizione in istituti alternativi.
Anche cedendo alla tentazione di considerare gli alunni come numeri, non possiamo non ammettere che non tutti i numeri sono uguali. Lo sono forse su un conto fatto a mano o sul display della calcolatrice, ma non nella realtà. Questi «numeri», i nostri ragazzi, hanno bisogni specifici, in alcuni casi molto delicati e i cui diritti sono garantiti dalle disposizioni vigenti in materia di inclusività e integrazione. La normativa prevede che le classi con alunni tutelati dalla Legge 104/92, non siano composte da più di venti alunni, e su questo punto la decisione dell’USP è senza dubbio legittima, tuttavia, si tratta, a nostro avviso, e soprattutto nella situazione attuale, di una logica che non fa onore alla Scuola.
Non siamo così arroganti da pretendere di poter comprendere la ratio sottile che muove le fila di decisioni più grandi di noi, del resto siamo solo insegnanti delle Superiori. Ma proprio perché impegnati nella scuola comprendiamo il valore dell’insegnamento e siamo pertanto pronti ad apprendere le motivazioni di questa decisione. Ma che siano dette pubblicamente e ad alta voce, così che tutti possano comprendere e fugare ogni sospetto. Che ci sia spiegato cosa ne è dell’inclusione; cosa della sicurezza e del distanziamento, a meno che sicurezza e distanziamento non siano che parole d’ordine da esibire in vetrina. Ci venga spiegato come sia possibile garantire il rispetto delle norme sanitarie se anziché procedere a un miglioramento e ampliamento delle strutture esistenti, a nuove assunzioni, all’adeguamento del personale ATA, si punta a una strategia del risparmio sconfessata dalle dichiarazioni d’intenti.
Lo spettro che si annida tra le righe dei provvedimenti che in questi giorni colpiscono le scuole italiane parrebbe quello della didattica a distanza. Sin dall’inizio della pandemia è stata presentata ufficialmente come una soluzione equivalente e ben rodata alla didattica tradizionale. Non è né l’una né l’altra. A parte in qualche proclama ufficiale, e negli sforzi isolati di singoli docenti e dirigenti scolastici, la didattica a distanza prima del 5 marzo non esisteva. È esistita e ha funzionato perché, come la sanità, ma con molta meno presenza nell’informazione, si è fondata sul senso di responsabilità dei singoli – docenti, studenti, famiglie. Che abbia funzionato potrebbe spingere il legislatore a considerarla, improvvidamente, come mezzo alternativo curricolare e a costo zero, come risposta a ogni eventuale critica o perplessità, come alibi per giustificare la mancanza di interventi strutturali nella scuola. Lo diciamo chiaramente: la didattica a distanza non è didattica. È stata uno strumento di emergenza, per garantire la continuità del diritto allo studio nella pressoché totale assenza di chiare direttive istituzionali. Che nessuno pensi di poter utilizzare questo strumento come panacea. Questa non è la Scuola. Non è quantomeno la scuola che noi e i nostri studenti vogliamo. Non è la scuola dei nostri padri; non è la scuola dei nostri figli.
L’emergenza sanitaria poteva essere un’occasione per rivedere la mission aziendale in cui viene costretta l’istituzione scolastica. Temiamo che sia l’ennesima occasione sprecata. La sicurezza è ancora una volta sacrificata in nome di logiche che, pur appellandosi caparbiamente al linguaggio delle norme, non sembrano nei fatti tenere in debito conto le esigenze reali dei discenti né la razionalità richiesta al diritto. In linea con la politica ministeriale, la responsabilità di gestire concretamente la situazione è interamente demandata alla singola scuola. «Hinc Pilatus lavat manus», così Pilato si lavò le mani. Il consiglio di Istituto del Liceo Lorenzini si rifiuta di deliberare i criteri con cui effettuare lo smembramento e il successivo accorpamento delle classi. Non siamo macchine né anelli di un abaco. Che decida chi vuole un modello di Scuola che non è il nostro.
I docenti e i genitori degli alunni del Liceo Carlo Lorenzini di Pescia