I figli dell’onda

I rischi di un’amnesia dilagante

Scriveva Nietzsche: «L’uomo invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante». A differenza dell’uomo, l’animale non è schiacciato dal peso del passato. Nietzsche era ossessionato dal tempo, in un’epoca a suo avviso strabordante di storia; noi invece viviamo come se non avessimo memoria.

Ogni anno, a partire dal 2005 celebriamo il 27 gennaio il giorno della memoria, ma questo basta a tenere in ordine le nostre coscienze? C’è memoria e memoria. Noi sicuramente ricordiamo e commemoriamo il 27 gennaio, ma lo sentiamo come nostro, ne abbiamo autenticamente memoria? Riusciamo a rivedere, chiedo, nella sua tragicità la nostra stessa umanità offesa e mutilata? Ne dubito. Della memoria è rimasto solo un ricordo.

L’olocausto non è un semplice evento nella storia; non è punto nella linea del tempo come la seconda guerra punica o l’invasione normanna delle isole britanniche. Dopo Auschwitz, dichiarò Hans Jonas, parlare dell’onnipotenza di Dio è diventato impossibile. Allora, ogni presa di parte, ogni tentativo di appropriazione politica brucia come l’ennesima ferita a una memoria già violata. Per giustificare prese di posizione dettate unicamente dalla convenienza elettorale si è detto, nelle settimane scorse, che ci sono stati al mondo altri stermini, che anche «dall’altra parte» hanno avuto luogo genocidi; si è persino rievocato, ad uopo, un genocidio a lungo dimenticato e contestato, quello armeno. Indubbiamente il mondo è pieno di ferite, ma perché ridurre tutto a una macabra gara di disgrazie? Non è forse che ricordando l’olocausto ricordiamo al tempo stesso il punto più alto della volontà di sterminio occidentale e quindi in quei morti celebriamo tutti gli altri morti? In questo senso siamo tutti ebrei, così come siamo tutti armeni, rom, omosessuali, malati di mente. Solo che ce ne dimentichiamo.

Siamo le creste inconsapevoli di un’onda, il cui moto, iniziato molto tempo addietro, è per noi così abituale che non lo notiamo nemmeno. È da decenni che il 25 aprile è diventato «divisivo», che anche i giovani nazifascisti avevano le loro ragioni, che la proposta di una commissione anti odio promossa da una donna scampata ad Auschwitz diviene motivo di scontro politico, per non parlare della Legge Scelba, da sempre violata in nome di una pretestuosa libertà di espressione. Poi spuntano sulle pagine di cronaca servirsi o trafiletti dedicati a librerie bruciate, a cellule neonaziste, all’esistenza di un premio di bellezza «miss Hitler», ma come l’animale di Nietzsche ci dimentichiamo non appena voltiamo pagina.Si dirà che si tratta di sparute minoranze, che il passato nazifascista non può tornare e forse si dirà il vero, ma non bisogna dimenticare che anche i primi nazionalsocialisti che si riunivano nella Hofbräuhaus di Monaco erano un’insignificante compagine di abbevazzati. Condividiamo, in quanto genere umano, l’umanità; condividiamo pertanto anche la responsabilità di ciò che siamo collettivamente. Si comincia sempre da sussurri, da parole proibite bisbigliate al buio, che poi diventano urla roboanti in un oceano di folla.

Nel 1947 esce a Dresda un’opera oggi semi ignorata, il diario di un filologo di origine ebraica, Viktor Klemperer, vittima delle leggi razziali, che racconta se stesso e il nazismo attraverso i mutamenti occorsi nel vocabolario: La lingua del terzo Reich (Lingua tertii imperii). Termini un tempo neutri assumono una connotazione precisa e contribuiscono a creare un mondo nuovo. «Le parole – scrive Klemperer nelle pagine iniziali del diario – possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico».

Nel 1947 esce a Dresda un’opera oggi semi ignorata, il diario di un filologo di origine ebraica, Viktor Klemperer, vittima delle leggi razziali, che racconta se stesso e il nazismo attraverso i mutamenti occorsi nel vocabolario: La lingua del terzo Reich (Lingua tertii imperii). Termini un tempo neutri assumono una connotazione precisa e contribuiscono a creare un mondo nuovo. «Le parole – scrive Klemperer nelle pagine iniziali del diario – possono essere come minime dosi di arsenico: ingerite senza saperlo sembrano non avere alcun effetto, ma dopo qualche tempo ecco rivelarsi l’effetto tossico». L’ultimo film di Roman Polanski, J’accuse, nelle sale proprio in questi giorni, coglie quell’attimo di serpeggiante e mal celato antisemitismo che colpisce al cuore la Belle Epoque – era il 1894 – facendo presagire la tumultuosa esplosione di odio degli anni ’30 e ’40, che ha nei campi di sterminio il suo macrabo e osceno santuario. Oggi non abbiamo uno Zola in grado di scuotere le nostre coscienze. Dobbiamo fare da soli, partendo dai noi stessi: dobbiamo essere noi i primi destinatari del nostro j’accuse. Esiste un continuum genocida – l’espressione è dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes – , una contiguità dello sterminio di massa con le violenze quotidiane, nascoste e spesso autorizzate che si applicano negli spazi sociali: scuole, ospedali, carceri, uffici pubblici ecc., in cui gli altri sono ridotti a non-persone, se non a cose o a mostri. Sono quelle violazioni quotidiane che Franco Basaglia definiva «crimini di pace».

Che la civiltà non fosse un deterrente sufficiente contro la violenza – la stessa Germania nazista rientrava a pieno titolo tra le nazioni civili –, che per compiere il male non occorreva essere mostri divenne improvvisamente chiaro con il processo Eichmann. Adolf Eichmann, responsabile dell’organizzazione logistica della macchina genocidiaria nazista, seduto sul banco degli imputati non aveva nulla di estrinsecamente mostruoso; era un uomo e piccolo, un burocate anonimo, non un assassino come Barbie o Heydrich.

E infatti la linea difensiva di Eichmann consisteva nel presentarsi come mero esecutore di ordini. I mostri, a differenza degli ebrei dei ghetti, non indossano marchi di riconoscimento. Hannah Arendt coniò in quell’occasione l’espressione «banalità del male». Qualche mese dopo, Stanley Milgram condusse un esperimento a Yale sul rapporto tra responsabilità personale e autorità. Venne simulato un esperimento psicologico in cui un’autorità scientifica – un medico – legittimava l’uso dell’elettroshock come strumento per rafforzare l’apprendimento. La vittima è un complice dello sperimentatore, e simula dolore e implorazioni; il carnefice è veramente convinto che la leva che spinge sia elettrificata, ma lo fa ciononostante e senza nemmeno troppe pressioni, perché così gli è stato detto. La maggior parte dei 40 soggetti di studio obbedì alle direttive.

Qualche anno dopo, nel ’67, un docente di una scuola superiore di Palo Alto in California, Ron Jones, condusse un esperimento non molto diverso per far comprendere agli studenti le modalità di costruzione di un consenso totalitario. Creò un movimento, cui diede un nome, «La terza onda», un simbolo, un saluto, affidò dei ruoli, creò un’identità. In poco tempo il movimento attrasse l’adesione spontanea di oltre duecento studenti. Nel 1981 l’esperimento ispirò il romanzo di Tod Strasser – pubblicato in Italia con il titolo Il segno dell’onda. Da qui è stato tratto un film del 2008 e, nel 2019, una miniserie in sei episodi, Noi siamo l’onda. La serie, in particolare, fornisce un’immagine contemporanea di ribellismo post-ideologico – che poi, cos’è la post-ideologia se non un’altra ideologia? Il target è adolescenziale. La rivolta non è pianificata da un docente ma nasce spontaneamente da una situazione di bullismo come protesta contro la società. L’esito tuttavia è il medesimo: la nascita di un movimento totalitario nella sua manicheististica divisione tra bene e male, tra noi e loro.

Sembra che ci siano casi in cui deleghiamo ad altri la nostra autonomia decisionale, sull’onda dell’entusiamo fanatico o in conseguenza di direttive dall’alto. Milgram parlò a proposito di «eteronomia»: in certe situazioni, gli individui lasciano ad altri la responsabilità dei loro comportamenti. Ma è veramente possibile delegare la responsabilità personale? Come possiamo delegare qualcosa che appartiene intrinsecamente alla nostra persona senza cedere anche quest’ultima? Ne I sommersi e i salvati, Primo Levi parla di una «zona grigia» fatta di quei «privilegiati» – i kapo – usati dai nazisti per controllare e punire gli altri ebrei del lager in cambio di un trattamento più umano, salvo poi finire anch’essi nelle fosse comuni. Nella morale non esistono zone grigie. Un comportamento è immorale in qualunque tempo; può darsi il caso che epoche, culture e realtà politiche diverse possano legittimarlo, ma l’immorale resta tale.

Sull’onda del processo di Norimberga, Karl Jaspers pubblicò nel ’47 un breve saggio, La questione della colpa. Jaspers è in un certo senso figura speculare di Klemperer: Klemperer era un ebreo sposato a un’ariana, e per questo non subì la soluzione finale; Jaspers era un ariano sposato a un’ebrea, deportata ad Auschwitz. Jaspers distingue quattro tipi di colpa: la colpa giuridica, che si identifica con la trasgressione delle leggi; la colpa politica, che colpisce sia i capi politici di una nazione sia i cittadini che li hanno scelti come rappresentanti in libere elezioni o che ne hanno tacitamente consentito l’ascesa; la colpa morale, che riguarda la coscienza individuale; e la colpa metafisica, propria di tutti gli uomini che tollerano violenza sui propri simili, di qualunque etnia, paese, cultura, orientamento sessuale. A un certo livello siamo tutti colpevoli. Siamo tutti responsabili. Quando un ministro della repubblica impiega un linguaggio discriminatorio; quando un nostro superiore giustifica o non condanna un’offesa alla dignità e al lavoro di un collega, quando non riconosciamo la nostra corresponsabilità di Occidentali nei conflitti che esplodono in luoghi lontani da noi; quando neghiamo di accogliere la disperazione altrui; o ancora più semplicemente quando usiamo una parola con un passato discriminatorio, anche se ormai sdoganata, abbattiamo un confine, permettiamo alla barbarie di dilagare. Questa barbarie non è però estranea alla modernità, come un nemico alle porte. È insita nella modernità stessa, ne costituisce probabilmente una componente essenziale. È il doppelganger della civiltà. È come la polvere sotto il tappeto. È nostra responsabilità lasciarla lì, inerte e nascosta. Costantemente sorvegliata.

GS

6/12/2019