Cos’è un muro? La domanda risulta banale. È ovvio cosa sia un muro. Basta indicare con un gesto una delle tante pareti che ci circondano e proclamare «Questo è un muro!». Ma un muro non è soltanto un cumulo di mattoni e calce. Il muro di mattoni e calce è l’esecuzione materiale di un progetto, e che dunque il muro esisteva ancora prima che esistesse il muro. Con questo intendo cosa? Che il muro fisico, tangibile, non è altro che la proiezione di qualcos’altro di ben più profondo e radicato. Parliamo allora del muro di Berlino prima del muro di Berino. Nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961, nello scenario di un mondo sull'orlo della distruzione atomica, la città venne tagliata in due da un reticolo di filo spinato che separò, talvolta per sempre, genitori e figli, fratelli, amici e amanti. L'operazione, tanto inattesa quanto fulminea, riuscì grazie alla perfetta efficienza con cui fu compiuta. Lo scopo dichiarato di Walter Ulbricht, il leader della DDR che l'aveva ordinata, era porre fine al continuo esodo di popolazione verso la parte occidentale della città.
Tra il 1949 e il 1961 erano stati circa 2 milioni e mezzo i tedeschi che avevano lasciato la Repubblica democratica tedesca. Non si trattava ancora del muro in cemento che ricordiamo, quello abbattuto nel 1989. La sua natura mediana di non-ancora-muro servirà a rispondere alla mia domanda iniziale. Innanzitutto la divisione tra le due Germanie, o meglio tra i due mondi, occidentale e sovietico, era un dato di fatto dalla fine della guerra. L’accordo siglato a Postdam, a pochi chilometri da Berlino, nel 1945 divideva la Germania in quattro zone di occupazione. Anche Berlino fu divisa in quattro zone, ma essendo la città all'interno della porzione di Germania occupata dai sovietici i settori statunitense, britannico e francese, poi conosciuti come Berlino Ovest, formarono un'exclave di quella che poi sarebbe stata la Repubblica Federale Tedesca all'interno del territorio della Germania Est. Di fronte alla decisione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti di unificare i settori da loro controllati, l’Unione sovietica rispose bloccando, nel 1948, bloccando gli accessi a Berlino Ovest e la fornitura di energia elettrica. Da qui il ponte aereo che per 462 giorni scavalcò il ‘muro’ sovietico paracadutando sulla città provviste e medicine. Ma già nel ’46, durante un discorso in Missouri, Churchill aveva fatto ricorso alla metafora del muro per descrivere la situazione di scontro che si era creata dopo la guerra: «Da Stettino nel Baltico a Trieste nell'Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente».
Prendiamo in considerazione l’altra parte, la parte occidentale e democratica, così da verificare se la questione della barriera sia una questione di parte, relegata a una parte di mondo priva di spirito democratico. Due anni dopo l’erezione del muro di Berlino, e appena un anno dopo la crisi missilistica di Cuba che portò il mondo sull’orlo di un conflitto nucleare, John F. Kennedy pronunciò un discorso a Berlino. La frase «Io sono un berlinese» (Ich bin ein Berliner) è diventata lo slogan della lotta per la libertà e per la democrazia. Il muro è una offesa non solo contro la storia, ma contro l'umanità, separa famiglie, divide i mariti dalle mogli, ed i fratelli dalle sorelle, divide un popolo che vorrebbe stare insieme. Berlino Ovest è il simbolo di una resistenza durata 18 anni, un avamposto della lotta per i diritti. Tutti gli uomini liberi sono in questo senso berlinesi. «La libertà è indivisibile – dichiara Kennedy a conclusione del discorso – e quando un solo uomo è reso schiavo, nessuno è libero». Parole elevate e condivisibili. Tuttavia, spiegando il ruolo della città in questa lotta di frontiera, Kennedy usa un’espressione su cui vorrei riflettere insieme a voi: «voi vivete in una isola difesa di libertà». Berlino Ovest è un’isola libera: è un’isola perché si trova in territorio sovietico, è libera perché è difesa dalle armi degli Stati Uniti. In questa frase così semplice sono presenti ben due muri. Innanzitutto, un’isola non è forse una barriera? In quanto protetta dall’acqua è staccata, isolata appunto, dal resto. E poi il riferimento alla difesa: una seconda barriera, quella delle armi. Quindi a dividere Berlino non è solo un muro ma almeno due. Il muro del socialismo e quello della democrazia occidentale. Certamente c’è una differenza di sostanza tra i due, ma non di forma. Pare che non possiamo ragionare, noi uomini, se non in termini di barriere, di limiti.
È chiaro, a questo punto, come il muro edificato nel ’61 non sia stato altro che un’ulteriore manifestazione di un confine da lungo esistente. Avrei potuto procedere a ritroso con la genealogia del muro di Berlino all’infinito, dalla nascita dell’Unione sovietica allo scoppio della prima guerra mondiale, dai conflitti tra Prussia e Russia nel XVIII sec. alle crociate dei cavalieri teutonici nell’Europa dell’Est, dalle conquiste mongoliche al sacro romano impero germanico, probabilmente fino al primo stanziamento di homo sapiens in Europa. Questo perché non sono i muri a creare divisioni, è esattamente l’opposto. Se bastasse abbattere un muro, allora dopo l’89 non avremmo più dovuto conoscere divisioni di sorta. Se la storia fosse davvero maestra allora il muro che separa il Messico dagli Stati Uniti, la «chiusura di Sicurezza» costruita da Israele lungo il confine con la Cisgiordania, le barriere erette da Ungheria, Bulgaria e Grecia contro i migranti non avrebbero ragione di esistere. Non serve, poi, il cemento per edificare un muro: cos’altro è diventato il Mediterraneo negli ultimi anni? Eppure di buone ragioni se ne trovano sempre: proteggere i propri cittadini, contrastare l’illegalità, combattere il terrorismo. Ciascuna delle barriere che ho citato, come nel caso del muro di Berlino, sono il segno di una divisione secolare.
Uno dei maggiori giuristi novecenteschi, Carl Schmitt, la cui fama di giurista è stata oscurata dal suo sostegno al regime nazista, scrisse con estrema chiarezza che la politica come tale nasce dalla divisione tra amico e nemico. Cioè, la politica non è altro che la gestione di uno spazio ritenuto come nostro da un altro ritenuto estraneo. Non importa che l’estraneo sia effettivamente una minaccia; ciò che importa è che sia percepito come tale. Ricordate la parola «percezione» perché è fondamentale e infatti ci torneremo tra poco. Basta che l’altro esista. In questa prospettiva il muro è l’essenza della politica.
Andiamo indietro nella storia della cultura occidentale, e in questo caso andare indietro vuol dire cercare il fondamento, precisamente nel libro VII della Repubblica di Platone, in cui è narrato il mito della caverna. In quel mito, lo riassumo brevemente, si parla di prigionieri che sin dalla nascita si trovano incatenati mani e piedi sul fondo di una caverna costretti per tutta la vita a guardare le ombre proiettate sulla sua parete estrema. Ecco, questa è la madre di tutti i muri. Questa è la risposta alla mia domanda iniziale. Sulla parete di fronte a loro, i prigionieri sono costretti a guardare le ombre di oggetti che sono proiettati alle loro spalle. Questo loro non possono saperlo, lo sappiamo noi lettori. I prigionieri vedono solo le ombre, non sanno niente del resto; non potendosi voltare non sanno che alle loro spalle, a una certa distanza, ci sono uomini che protetti da un muro trasportano delle aste alla cui sommità sono legate sagome di animali, di persone, di oggetti. C’è un fuoco che arde, al di là del muro, ma nemmeno di questa luce i prigionieri possono rendersi conto.
Il fuoco serve solo a inscenare la rappresentazione e a proiettare l’ombra della marionette. Ho detto marionette, perché i portatori inscenano un vero e proprio spettacolo, con tanto di voci e dialoghi. Ma, ancora, i prigionieri sono ignari; vedono solo il muro davanti a loro e collegano le voci alle ombre. Quando uno dei personaggi del dialogo domanda «Chi sono questi uomini?», Socrate risponde «Siamo noi». Cosa vuol dire «Siamo noi»? Vuol dire che tutti noi, tutto il genere umano, anche se ritiene di aver raggiunto un grado di civiltà e consapevolezza elevato, anche se coltiva le scienze e le arti, è proprio in quanto parte del genere umano un prigioniero con gli occhi fissi su un muro. L’emancipazione da questa situazione. Il mito prosegue ipotizzando che uno dei prigionieri venga liberato e inizi così la sua risalita verso la luce. In questo percorso scopre gradualmente la realtà, come un bambino che impara a conoscere il mondo per la prima volta, e si rende conto di come il sapere che prima gli sembrava così certo – le ombre – fosse in realtà ignoranza e come tutto sia in realtà una catena progressiva di conoscenze, di grado in grado fino all’uscita della caverna. Il mito è ricco di significati che qui sono costretto a ignorare; mi concentro solo su quello che ci interessa nello specifico. Una volta fuori all’aria aperta, l’ex prigioniero potrebbe godersi la libertà e la sua nuova visione delle cose, però c’è qualcosa in lui, una voce interiore che lo spinge per spirito di fratellanza a tornare nella caverna e mostrare ai suoi ex compagni come quelle immagini riflesse non siano reali. Ma non può. Non ne è in grado. Probabilmente nessuno lo sarebbe. Perché i prigionieri non hanno visto quello che ha visto lui, non hanno condiviso il suo percorso: sono rimasti davanti a un muro. La sua descrizione del mondo esterno appare loro come una farneticazione. Nel mondo dell’oscurità il cieco è chi ha visto la luce, e per questo verrà deriso e addirittura ucciso. Il mito si conclude quindi con l’immagine dell’incomunicabilità umana e con la necessità di avere un muro da guardare. È comodo pensare quello che ti dicono di pensare; è comodo vedere immagini senza la responsabilità di averle scelte. E di nuovo, come nel dialogo, vi chiedo «A chi sono simili quei prigionieri»?
Non sono forse simili a quanti danno la caccia allo straniero, quasi per sentito dire, per una tacita accettazione di un sentimento comune, perché abbiamo bisogno di qualcuno da odiare. Non sono simili a coloro che riempiono le pagine di twitter e facebook di commenti sessisti? Non sono gli stessi uomini che mortificano l’umanità quando non condannano manifestazioni chiaramente neofasciste, giustificandosi dicendo che il fascismo non esiste più o trincerandosi dietro un’inaccettabile libertà di espressione? Non voglio dare l’impressione che io e voi siamo dalla parte giusta, che siamo esenti da ogni peccato. Come scrive Platone quei prigionieri siamo tutti noi. Guardiamo tutti la realtà attraverso un muro.
5/11/2019
GS