È notizia di queste ore che la multinazionale franco-indiana ArcelorMittal, dal 2018 affittuaria dell’ex-Ilva di Taranto, ha ritirato la sua offerta di acquisto. Non si discuterà qui delle gravissime ripercussioni politiche ed economiche, né si affronteranno i temi, seppur fondamentali dell’ambiente e della salute legati all’acciaieria di Taranto. Il nostro scopo è invece una riflessione a partire dalle ripercussioni occupazionali della vicenda: a rischio ci sono circa 10.000 posti di lavoro. Si è usato l’aggettivo «occupazionale» ma forse sarebbe stato più adeguato «esistenziale». Sì, perché il lavoro non è solo un’occupazione, è la vocazione dell’essere umano a rendere da un lato il mondo più abitabile per la sua comunità, dall’altro a realizzare se stesso e le sue aspirazioni. In teoria. Mi vengono in mente le pagine iniziali del Piccolo principe, che forse alcuni di voi hanno letto. Vi si descrive l’atteggiamento dei «grandi» che giudicano le compagnie giuste per il figlio in base all’abitazione e al lavoro dei genitori. Ed è per sfuggire a questo modo di oggettivare il mondo che il piccolo principe intraprende il suo viaggio.
Hegel, uno dei capisaldi del pensiero occidentale, che se proseguirete gli studi sarete destinati (o condannati, a seconda del punto di vista) a studiare, pone il lavoro alla base della civiltà umana. Immagina che l’uomo fondamentalmente non sia un essere socievole, ma che abbia dentro di sé la necessità di affermare il proprio diritto a esistere e a prendersi ciò che vuole. In questa sua teorica conquista di tutto è però costretto a scontrarsi con un altro uguale a sé, ogni altro essere umano, che è uguale a lui e possiede lo stesso diritto naturale. Ne nasce uno scontro che porta alla sottomissione di un individuo all’altro. Da questo scontro nasce la prima forma di organizzazione sociale: la servitù. L’individuo che ha vinto è il padrone, l’altro è naturalmente il servo. Ora ci immagineremmo che il padrone sia tra i due il più beato, e forse in un primo momento è così. Il tempo, però, rivela la verità, e cioè che il padrone dipende dal servo, il quale provvede a tutto attraverso il lavoro. È proprio il lavoro a costituire lo strumento di emancipazione del servo. Attraverso la disciplina e la fatica, attraverso la sua inventiva il servo si scopre non solo padrone del padrone, ma anche della natura, nel senso che può modificarla, imprimerle le sue forme, trasformarla. Questo momento segna il passaggio alla società moderna.
Ho fatto quest’esempio non per ricostruire – impresa impossibile e noiosa – tutta la storia dell’affrancamento del lavoro e della nascita del movimento operaio, ma per introdurre un aspetto fondamentale del lavoro, tutelato dalla nostra Costituzione. La Costituzione italiana descrive il lavoro come qualsiasi attività umana che contribuisca ad accrescere il benessere materiale e spirituale della società; lo considera sia un diritto sia un dovere di ogni cittadino (art. 4). La Costituzione italiana è l’unica a porre il lavoro come suo fondamento. L’art. 1 sancisce, infatti, che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro: questo è il cosiddetto principio lavorista, che pone al centro della vita economica e politica del Paese il lavoro dei suoi cittadini, non il possesso ereditario della terra, non la nascita illustre (il lavoro dei genitori di cui parla il Piccolo principe). Il lavoro rende possibile il progresso della collettività e l’uguaglianza, e permette a ciascuno di raggiungere la propria autonomia e indipendenza. Il diritto al lavoro è esplicitamente affermato all’art. 4: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro». Il fatto è che tale diritto, non si traduce nel dovere automatico per lo Stato di fornire un’occupazione a tutti i cittadini; esso descrive, piuttosto, un indirizzo fondamentale che la Costituzione dà all’azione del legislatore: l’impegno dello Stato a intervenire al fine di generare occupazione. Ciò avviene principalmente attraverso sostegni alle imprese, incentivi, programmi di opere pubbliche, contrattazioni come nel caso dell’ex Ilva. Nel 2017 l’Arcelor Mittal si aggiudica la gara d’appalto bandita dal ministero dello Sviluppo economico. Lo scopo perseguito dal governo era il salvataggio del polo industriale di Taranto, del suo indotto, e delle migliaia di lavoratori. Il risultato è evidente. Non si tratta di una critica al governo. Il problema è strutturale e probabilmente riguarda l’esercizio del diritto, o forse ancora meglio la cultura del diritto. La Costituzione non può essere considerata un «libro» o un monumento cartaceo dell’epoca in cui fu sconfitto il fascismo. Se non applicata è morta, e a ucciderla siamo noi, non le multinazionali estere, noi. Come la uccidiamo? Svalutando il lavoro. Siccome non ho intenzione di farne un discorso politico altro, confesso che non sarei capace, mi interessano i suoi risvolti comunitari. Quando riceviamo un pagamento in nero, quando sottopaghiamo i dipendenti, quando accettiamo di essere sottopagati, quando diciamo «è colpa del governo» o ancora «è lo stato» siamo affetti da una schizofrenia politica perché il governo è nostra espressione popolare e lo Stato, beh lo Stato siamo noi.
Piero Calamandrei, che di Costituzione se ne intendeva, scriveva che nel periodo di gestazione della Repubblica qualcuno avrebbe voluto dare alla Costituente non solo il compito di ricostruire in forma repubblicana le strutture fondamentali dello Stato, ma anche quello di deliberare misure fondamentali di carattere economico-sociale che avviassero una trasformazione della società in senso progressista. «Ma questa idea non fu accolta – commenta Calamandrei – o meglio fu accolta a metà, per dare l’impressione ai suoi sostenitori che non fosse stata respinta del tutto». Fare quello che serve per il Paese, formula così spesso ripetuta da aver perso ogni riferimento alla realtà, comporterebbe scelte coraggiose, anzi incoscienti dal punto di vista politico: la perdita del consenso elettorale, la lotta ai poteri forti – altra espressione di uso molto comune – ecc. Per farlo occorrerebbero una stabilità politica, un indirizzo ideale e una fermezza di intenti che raramente il nostro Paese ha saputo mostrare. Non questa legislatura, non quella precedente né quella ancora prima. Si tratta di una tara che ci portiamo dall’origine e che riguarda il nostro modo di affrontare le cose in generale.
Se pensavate che alla fine avrei proposto una soluzione o impartito lezioni ai governanti, vuol dire che non avete letto bene sin dall’inizio. Non ho soluzioni né consigli, solo pensieri e la certezza del diritto. Le riflessioni a volte sono così, girano in circolo, e ci trasportano, almeno con la mente, non molto lontano dal punto di partenza, spazialmente; quanto alle idee che possiamo formulare nel tragitto sono infinite. Forse alla fine del nostro girare in torno abbiamo appreso qualcosa, anche se il mondo fuori procede come prima. Ma è così che nascono i cambiamenti, sempre che nascono: da noi. I cambiamenti nascono dalle idee che maturiamo girando in circolo.