Credere o sapere

La nostra è una società arrogante. E' arrogante perché convinta di aver sconfitto la schiavitù, arrogante perché pensa di aver debellato il germe del razzismo, arrogante perché crede che mai, nella storia umana, ne sia mai esistita una più aperta, più dotta, più evoluta. Ma soprattutto, mi pare, si mostra in tutta la sua arroganza quando dichiara d'aver superato il dogmatismo e l'oscurantismo e di essere in possesso di una lente, il metodo scientifico, capace di leggere qualsiasi cosa in modo chiaro e distinto.

Nelle conferenze pubblicate nel ’49 con il titolo La fede filosofica, Karl Jaspers, che di questa arroganza della tecnica era stato tristemente testimone, definì «fede» quel tipo di conoscenza legata indissolubilmente all'individuo che la detiene, e dunque che nasce, muta e si dissolve con lui, mentre chiamò «sapienza» l'oggetto che, come una quercia secolare osserva perire e risorgere le infinite stirpi delle foglie, se ne sta su un piano separato rispetto all'osservatore, raggiungibile da chiunque tramite logiche dimostrazioni. Ebbene, siamo fedeli o sapienti?

Nei primi tempi seguenti al suo trionfo in epoca seicentesca, la scienza, dipinta quale prometeica salvatrice dell'uomo dal fanatismo della Chiesa, si sostituì semplicemente a quest'ultima, continuando a dispensare verità assoluta, solo di altro genere. Le storiche smentite che hanno seguito portarono la comunità scientifica a ritrattare, costretti non dal tribunale dell'inquisizione ma da quello dei fatti, ed ad adottare un metodo che ammettesse ammissioni d'errore e riformulazioni, accettando di essere latrice se non del «vero», almeno del «molto probabile». Le certezze dei modelli fisico-matematici hanno subito colpi particolarmente duri nell'ultimo secolo, spingendo ad aspre critiche al perno della «Scienza Dura», il sistema basato sugli aspetti quantitativi, come quella di Husserl. A tale proposito è utile fare un parallelismo con la posizione di D'Holbach verso il deismo, reo di privare l'uomo del piacevole e rozzo antropomorfismo religioso che riusciva a soddisfarlo, senza però risolvere veramente i problemi che i numerosi difetti di quel primitivo culto dei santi e delle reliquie provocavano.

Anche Jaspers sostiene che la sapienza non è incondizionata, ma può variare in base dalle premesse e dai metodi di cui l'osservatore si serve per ottenerla. Ma qual è, dunque, la differenza tra una conoscenza oggettiva, che può però essere letta in modi differenti, ed una, più schiettamente, soggettiva? In che modo può essere scollegato dalla storia, e dunque universalmente valido, qualcosa la cui enunciazione e comprensione è strettamente subordinata a chi tenta di comprenderla ed enunciarla? Per Epicuro, il sole era grande quanto il suo piede. Per Tolomeo, invece, esso ruotava attorno alla Terra. Entrambi questi uomini erano convinti di avere ragione e di essere supportati da logiche inattaccabili, ed in effetti lo erano, almeno finché ciò che prima pareva inattaccabile, in realtà si espugnò facilmente non appena le contingenze mutarono. Oggi il sole è solo una delle tante stelle in una galassia che è solo una di tante galassie, ma domani chissà cosa la mente umana, lo farà diventare, fingendo che sia qualcosa più di qualche speculazione, di qualche calcolo su un foglio. Sapremo mai cosa sia veramente? Ne dubito.

Da Aristotele in poi la logica è parsa l'unica possibile via per descrivere una realtà assoluta, ma ha soddisfatto le aspettative? Evidentemente no: basti pensare al suo impiego più ambizioso, ed anche quello più spettacolarmente fallimentare, nella ricerca di una dimostrazione dell'esistenza di Dio della scolastica medievale, spazzato via da Ockham ed il suo rasoio. Che qualche uomo, prima che la nostra specie inevitabilmente si dissolva, possa riuscire a comprendere ed ad essere sapiente in un limitato ambito dello scibile è plausibile, seppur indimostrabile, e dunque, peraltro, costituente, in modo paradossalmente ironico, un atto simile a quello di fede. Ritengo tuttavia più opportuno analizzare la possibilità di conoscenza della nostra razza su un piano universale, giacché, del resto, quello era l'iniziale sogno della scienza, creare una società libera da paura e superstizione, una società migliore, non solo più tecnicamente evoluta ma anche più felice.

Ebbene, anche tralasciando l'importante dubbio, che pure è un grave problema per gli apologeti del meccanicismo perfetto, che il poligono di Cusano possa un giorno coincidere con la circonferenza in cui è inscritto, ovvero che sia per noi teoricamente raggiungibile una spiegazione assoluta dell'universo, tuttavia resta il grande scoglio del comunicarla, questa spiegazione, al resto dei poveri umani i quali, o per mancanza o per fatalità, non l'hanno ancora conquistata. Basti, a titolo di esempio, prendere una nozione, quella di forza di gravità, che è apparentemente accettata e compresa da ognuno: dei moltissimi che, senza neanche rifletterci, addurrebbero, per reminescenza liceale, come causa della caduta di una mela la suddetta legge fisica, quanti sarebbero in grado di esprimerne l'esatta equazione o prodursi in una più profonda lettura del fenomeno, che certo si trova in qualche aula universitaria o su qualche trattato di cinetica, ma di sicuro non nelle parole della gente comune?

Come specie, purtroppo, dubito che giungeremo mai ad una vera conoscenza, sia per limiti metafisici, quelli della dubbia conoscibilità di certi aspetti dell'essere, sia pratici, come quelli dell'evidente limitatezza delle capacità di alcuni individui. Tale considerazione può trovare facile riscontro osservando come la nostra civiltà, guardata nella sua totalità, si rapporti con l'idea di verità: dal 2016 nell'Oxford English

Dictionary è presente l'espressione post-truth, rozzamente traducibile come «postverità», ovvero l'atteggiamento assunto nei confronti delle notizie, poi rivelatesi false, che nonostante la loro provata erroneità non vengono ignorate né eliminate, visto che, anche se qualcosa non è vero, «sarebbe potuto essere vero». Credo che la nostra civiltà, pur autocelebrandosi paladina dell'oggettività e dissolutrice del primitivo dogmatismo, sia in ultimo una civiltà di fedeli, che non conoscono davvero, ma che sono talmente legati alla speranza, o all'utopia, di essere sapienti, da non rendersi conto di quanto questa sia, e sempre sarà, tragicamente irraggiungibile.

Di Giovanni Parrillo

IV A Classico