Avverso controverso diverso

«Ah, essere diverso – in un mondo che pure è in colpa- significa non essere innocente» scrive Pasolini in Serata Romana. La diversità fa spesso, antropologicamente, da capro espiatorio, sia che si tratti di violenze vere e proprie sia che ci si limiti a sussurri maligni e amare ipocrisie – «E subito va la fama – scrive Virgilio – di cui nessun’altra peste è più rapida». Mi ha colpito vedere, la settimana scorsa, in un servizio televisivo un’adunata elettorale a Castelnovo ne’ Monti, sull’appennino reggiano. C’era uno striscione che ripeteva l’ormai logoro slogan «Porti chiusi». Dev’essere un problema particolarmente sentito per la piccola comunità montana dato che il porto più vicino si trova a La Spezia, a più di ottanta chilometri. Cos’è questo timore generalizzato verso il diverso, lo straniero?

Si parla di xenofobia, «paura dell’estraneo». È ironico constatare come cambi nel tempo il significato delle parole. Nella Grecia omerica Xenia era la dea dell’ospitalità, protetta da Zeus: il rapimento di Elena da parte di Paride viola le regole di Xenia – Paride era ospite di Menelao, marito di Elena – e provoca la guerra di Troia; Glauco e Diomede si rifiutano di combattere l’uno contro l’altro a causa dei rapporti di ospitalità intercorsi tra i loro antenati.

In seguito, quando la potenza e l’orgoglio dei Greci crebbe, xenos fu sostituito da barbaros, che letteralmente vuol dire «balbuziente». L’altro, lo straniero, non è più un forestiero da accogliere ma un individuo la cui inferiorità è palesata dalla sua ignoranza del greco e il cui idioma natio risulta un balbettio intollerabile e incomprensibile. I popoli che Odisseo incontra nelle peregrinazioni successive alla caduta di Troia si distinguono in civili e incivili proprio in base all’atteggiamento nei confronti dello straniero: sono civili i Feaci, che accolgono come ospite Odisseo; sono incivili i Lestrigoni e i Ciclopi che violano le regole di accoglienza.

Quando lo straniero diventa barbaro si verifica il rovesciamento dei valori che avevano unito in una grande rete tutti gli uomini del Mediterraneo: il barbaro è il nemico cui si poteva negare l’ospitalità e che, addirittura, come insegna Aristotele, poteva essere ridotto in schiavitù. Ovidio esiliato a Tomis sul Mar Nero, nell’attuale Romania, evoca nelle Tristezze la sua nuova patria come un mondo alla rovescia: il gelo consente di camminare sull’acqua senza bagnarsi, la guerra è costante e l’agricoltura stessa, simbolo tangibile di civiltà, è assente. Il sentimento di superiorità nei confronti del diverso è ancora più palese nella società romana, che non si limita a conquistare popoli e terre ma le «civilizza» romanizzandole. Come dice il capo britannico Calgaco, nell’Agricola di Tacito: «Rubare, trucidare, rapinare con falso nome chiamano impero, e dove fanno il deserto, la chiamano pace». Quest’imperialismo culturale, la velleità guerrafondaia mascherata da civilizzazione, percorre tutta la storia della civiltà occidentale e diventa apicale quando l’Europa, a partire dal XVI sec., acquista la superiorità tecnica che le consentirà di dominare il mondo fino al Novecento. Cortés, e con lui tutti i conquistadores e i governanti vari che condussero il sistematico sterminio degli indios, non tradusse mai la comprensione della grandezza degli Aztechi in un riconoscimento della loro soggettività e anzi, la trasformò in una maligna arma per la sottomissione. Gli Europei, nella denuncia di Las Casas «sono entrati come lupi, come tigri e leoni crudelissimi che fossero stati tenuti affamati per diversi giorni; altro non han fatto che straziarli, ammazzarli, tribolarli, affliggerli, tormentarli e distruggerli con crudeltà straordinarie, inusitate e sempre nuove».

L’elenco potrebbe proseguire ma rischierebbe di tradursi in un catalogo sterile. Pare che si tratti di una caratteristica propria dell’uomo occidentale quella di «fare il deserto e chiamarlo pace». Quello che mi stupisce, e forse pecco di ingenuità, è che oggi con tutta la nostra civilizzazione, le nostre conquiste civili si sentano ancora certi slogan, non più sussurrati nei vicoli o nei bar, ma pronunciati a voce alta con orgoglio. Com'è possibile accettare che in una corsia di ospedale di Sondrio le urla disperate di una madre nigeriana che stava perdendo la figlia di sei mesi siano state paragonate a quelle di una scimmia; urla inutili perché «tanto lì [in Africa] di figli ne sfornano uno l'anno». Influisce senza dubbio la crisi che il nostro Paese, ma direi l’Europa intera, attraversa da anni. È una crisi economica, politica, culturale che non può non suscitare un senso di precarietà e instabilità e soprattutto la mancanza di forti valori può rendere una pelle più scura, una religione lontana e una lingua incomprensibile raccapriccianti, suscitano letteralmente sentimenti di repulsione, rifiuto.

«Incomprensibile» è la chiave, poiché la paura e il rigetto derivano da una non comprensione delle altre culture, da una radicata ignoranza, nel senso latino del termine (ignorantia: «inesperienza», «mancanza di conoscenza»). Il problema maggiore è che questa condizione è ampiamente diffusa, è «pietanza apprezzata dalla maggioranza» – mi sia perdonata l’autocitazione: l’uomo ignarus si sente minacciato da ogni minima divergenza. Allora, un video girato da studenti bolognesi – «Sono nato qua, questa è la mia faccia» – che afferma una verità ovvia, diventa virale come un atto di ribellione.

L’auspicio è che questa ottusità mentale sia superata per lasciar spazio al confronto e a un arricchimento dell’anima, perché soltanto questa consapevolezza del mondo e delle sue creature nella loro vastità e varietà può rendere liberi, capaci di volare lontano. Ne Il rosso e il nero Julien Sorel dice di aver vissuto abbastanza per vedere che la differenza genera odio e io spero di vivere altrettanto per assaporarne la libertà, sorta per abbattere una visione della realtà storta.

Cloe Buralli

18/12/2019