Un’idea di scuola per il XXI secolo
Sui media periodicamente si indicano come modelli la scuola finlandese, quella svedese o di alcuni Paesi asiatici: pur riconoscendo l’importanza del confronto, ritengo che nella maggior parte dei casi si tratti di esperienze troppo lontane dalla nostra società. La scuola che ho in mente è un luogo di condivisione di esperienze e buone pratiche; un luogo di crescita per gli studenti, avviati a divenire via via più autonomi, responsabili e partecipi essi stessi del loro processo di formazione; un luogo in cui non esiste dicotomia tra umanesimo e saperi scientifici, perché la conoscenza è una e tutte le discipline concorrono alla formazione della persona. La mia scuola è un grande atelier o laboratorio, in cui metodologie tradizionali e nuove tecnologie si integrano per incrementare conoscenze e competenze dei ragazzi. In questo senso il docente diventa un mentore, una guida, il regista dell’azione didattica, esaltando la creatività propria e degli studenti, e non un mero mediatore di saperi.
Insegno da oltre vent’anni e posso dire che le varie riforme che la scuola ha subito non hanno sortito l’effetto proposto, se non molto parzialmente e in forma non sistematica: la politica, di qualunque colore, è stata molto abile nella sua narrazione, spacciando per migliorie didattiche interventi ispirati alla logica del risparmio. Di fatto oggi sono i docenti che, con iniziative dal basso, stanno cercando di innovare nell’unico spazio in cui, per ora, possono farlo liberamente: la didattica. In questo senso vedo un grande e positivo fermento: nonostante la scarsa considerazione sociale, l’assenza di risorse su cui fare affidamento e uno stipendio ben al di sotto della media europea, che non gratifica l’impegno e non rende competitivo l’insegnamento sul piano occupazionale, ci sono insegnanti che non si stancano di sperimentare nuovi modelli e nuove pratiche, nell’interesse esclusivo dei discenti e della propria crescita professionale.
La scuola che vorrei è una comunità aperta, fondata sulla condivisione di pratiche educative e didattiche, sul dialogo e sulla cooperazione, attenta alle competenze di ciascuno; una scuola non cattedratica, ma cooperativa, anche nell’organizzazione degli spazi. Le due aule 3.0 che siamo riusciti a creare nel nostro istituto, grazie all’investimento della Fondazione Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia, costituiscono un esempio in tal senso e sono per me e per la scuola fonte di orgoglio, sia perché rappresentano il coronamento degli sforzi – che un mio collega ha definito in un articolo «donchisciotteschi» – che ho compiuto in questi anni per l’innovazione della didattica, sia perché costituiscono un esempio di buone pratiche che non ha paralleli nel territorio.
L’aula 3.0
L’ispirazione mi è venuta partecipando a una summer school a Bergamo nel luglio 2015: il tema, proposto dall'associazione «Impara Digitale» di Dianora Bardi, era la classe scomposta, una metodologia che a un diverso asset d’aula unisce l’utilizzo di strumenti informatici, quali LIM, notebook e videoproiettore. La tecnologia, però, di fatto non è che un sussidio al servizio di una didattica innovativa; per quanto riguarda gli spazi e la loro diversa strutturazione, flessibile in base al mutare delle attività svolte, mi piace ricordare un motto di Célestin Freinet, pioniere dell’innovazione didattica: «Se vuoi cambiare l’insegnamento, cambia l’aula». La portata innovativa dell’aula 3.0 consiste essenzialmente nella centralità riconosciuta allo studente nel processo di apprendimento: alle conoscenze, veicolate anche attraverso la tradizionale lezione frontale, che non viene certo abolita, si legano strettamente le competenze che gli studenti esercitano grazie ad attività in piccoli gruppi in apprendimento cooperativo. Vorrei precisare, però, che metodologie quali la didattica laboratoriale, il cooperative learning o la flipped classroom possono essere efficacemente utilizzate anche in un’aula tradizionale, purché sia presente una connessione wi-fi liberamente utilizzabile: ciò che abbiamo voluto creare al Liceo Lorenzini con l’aula 3.0 è una sperimentazione di buone pratiche che potranno essere utili a tutti i colleghi e a tutti gli studenti della scuola. Rappresenta anche un esempio di quanto si possa innovare partendo dal basso e con fondi limitati. Del resto, quando ho iniziato a sperimentare la classe capovolta, nell'aula non avevo nemmeno la LIM!
Il nuovo ruolo del docente
Nella progettazione e realizzazione delle unità di apprendimento il docente diventa il regista dell’azione didattica, in quanto a lui spetta l’individuazione degli argomenti disciplinari che più si prestano a un apprendimento laboratoriale, e la selezione del materiale pertinente. Durante le attività in classe, invece, gli studenti lavorano autonomamente, mentre l’insegnante osserva e valuta le loro competenze nel lavoro di gruppo, ma fornisce anche ulteriori spiegazioni o aiuta i ragazzi in difficoltà: il suo ruolo, quindi, diventa quello di un mentore, un facilitatore dell’apprendimento. Tutto questo, com’è facile comprendere, si traduce in una maggiore vicinanza agli studenti e in una rinnovata autorevolezza: l’insegnante non è colui che ha tutte le risposte, ma la guida che li aiuta a trovarle, esaltando la loro creatività e il loro senso critico. Anche il momento valutativo dell’azione didattica cambia radicalmente: il voto scaturisce da una media fra il punteggio assegnato al prodotto multimediale realizzato in piccolo gruppo, le competenze espositive e collaborative del singolo e le conoscenze acquisite individualmente. Questo comporta la predisposizione scrupolosa di apposite rubriche di valutazione prima di iniziare l’unità di apprendimento. I ragazzi hanno risposto con entusiasmo alle nostre proposte, imparando a collaborare nel lavoro in team e incrementando non solo le loro competenze digitali, ma anche e soprattutto quelle sociali e civiche.
L’apprendimento per le nuove generazioni
Ritengo, in generale, che l’elemento decisivo dell’innovazione didattica di cui la Scuola ha bisogno sia la diffusione di metodologie innovative, non necessariamente legate alle strumentazioni informatiche, che affianchino e integrino la didattica tradizionale, e a questo impegno sto dedicando la mia attività di docente e di formatore: le nuove generazioni vivono in un contesto caratterizzato da grandi e repentini mutamenti, in una società “liquida”, secondo la felice definizione di Zygmunt Bauman. Nel sovraccarico informativo, tipico della nostra epoca, è necessario fornire ai ragazzi le coordinate per comprendere il cambiamento senza farsene travolgere: in questo, il ruolo del docente, così bistrattato e sminuito dalle politiche dell’istruzione degli ultimi vent’anni, si rivela ancora insostituibile. Anche se i mezzi sono pochi, si possono fare tantissime esperienze sfruttando le potenzialità della tecnologia: basta avere creatività, per il resto il web offre un’ampia scelta di app e web tool completamente gratuiti. Recentemente abbiamo partecipato a un concorso scientifico e ottenuto un finanziamento per acquistare cinque visori per la realtà virtuale. Con questi apparecchi abbiamo costruito delle vere e proprie esperienze virtuali a 360°, ognuna con collegamenti a testi, video e immagini che raccontano le trasformazioni nell’ambito della storia, della fisica, della letteratura e di altre discipline. Il contesto è quello del videogioco, ma i contenuti sono gli stessi che si trovano nei libri. Un tempo di parlava di memoria visiva. I ragazzi, oggi, sviluppano invece una memoria immersiva e ricordano meglio se vivono quello di cui si sta parlando: non a caso la realizzazione di tour immersivi e l’uso dei visori VR hanno migliorato le performance dei miei studenti. Gli attuali studi di neuroscienze confermano che la realtà virtuale permette di imparare, sentire, ricordare ed elaborare nuove idee in modo “esperienziale” e profondo. Il tutto in uno spazio inevitabilmente da riformulare a livello di disposizione e di arredi. A questo proposito, mi piace ricordare un aneddoto narrato da John Dewey nel suo saggio «Scuola e società» del 1900. Andando in giro per Chicago alla ricerca di arredi scolastici adatti alla scuola che aveva in mente dal punto di vista estetico, igienico ed educativo, non riuscì a trovare niente che corrispondesse alle sue aspettative, finché un negoziante non gli disse: «Temo che non troverete quel che desiderate. Desiderate qualcosa con cui i ragazzi possano lavorare: questi sono fatti tutti per ascoltare». In effetti, osservava Dewey, se rievochiamo alla nostra mente una tipica aula scolastica, ci si para dinanzi l’immagine di uno spazio angusto con file di banchi disposti in ordine geometrico, addossati gli uni agli altri quasi per lasciare il minore spazio possibile al movimento degli alunni; banchi delle medesime dimensioni con un spazio appena sufficiente a contenere libri, penne e carta: «Tutto è fatto – osservava – per ascoltare, poiché studiare semplicemente da un libro non è che un altro modo di ascoltare; tutto attesta dipendenza di una mente da un’altra mente». Parole antiche, scritte in un altro secolo, che sembrano però descrivere abbastanza fedelmente – e tristemente – la realtà attuale. Occorre una rivoluzione dal basso. Non possiamo più aspettare. Dobbiamo agire, ognuno a partire dalla sua classe, ognuno con un obiettivo in mente: innovare.
David Del Carlo