Il nostro è un mondo che non indugia, un mondo che persevera nell’assistere il futuro e, quasi senza accorgersene, lascia vittime alle sue spalle: non fanno mostra di lesioni in superficie, non sono solcate da crepe dolenti né lasciano orme di sangue. Le ferite tanto incidono in profondità da rasentare i margini più fragili delle mente, provocando un’intima afflizione.
Non è forse il male più grande, per l’uomo, non sentirsi tale? Cosa importa del resto quando della stessa esistenza non si coglie l’essenza? Un uomo che non si sente uomo non sente niente. E così, si strascina un’intera vita alla ricerca di risposte inammissibili, figlie di un’autorità consacrata dal niente. La verità che tutti inorridisce è proprio la necessità di concepirlo, il senso.
Quando la solitudine gli si avventa con i suoi artigli ferini e il giardino dell’Eden è un deserto di avversità, alle orecchie dell’uomo giunge un sospiro di sospetto: «niente ha senso». E come Odisseo abbandonato da venti favorevoli, va errando senza meta, perdendosi tra rive e lidi lontani, senza una dea ad attenderlo né una voce a guidarlo, seppure quella ingannevole delle sirene; va, sempre più lontano da sé stesso
Viviamo per lo più anonimamente, trainati dai flutti, forse per timore o per un peccato di volontà. Vediamo altri naufraghi nell’ombra, abbarbicati alle loro scialuppe di fortuna e guardiamo con invidia o mestizia le navi integre e splendenti che solcano irridenti il nostro stesso mare. Che fare?
Ha scritto John Donne: «Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto». La nostra esistenza non è mai singola. Persino nella tenebra più buia siamo sempre almeno in due, noi e la nostra umanità. L’umanità non è un dono di nascita ma un’acquisizione e una responsabilità: siamo responsabili di essere umani. Dobbiamo averne cura.
La prima premessa per una vita soddisfacente è la conoscenza di sé, perché anche se l’aiuto altrui conforta, a fare la differenza sono la propria volontà e la consapevolezza degli attributi di cui si è dotati. Ma l’essere dell’uomo è per natura condiviso: senza gli altri nemmeno noi siamo, o siamo di meno. Prendersi cura degli altri non vuol dire imporre il proprio aiuto, che impedirebbe all’altro di assumersi responsabilità e lo ridurrebbe in uno stato di minorità. Vuol dire, invece, favorire socraticamente la scoperta del sé con l’esempio e la parola. In una realtà in cui la solitudine ha il volto subdolo dell’iperconnessione, è bene prospettare un ritorno alla comunità.
Parlare è sempre anche un fare, un costruire, un proporre. Trasmettere informazioni non è parlare. L’ancora del naufrago perduto è la riscoperta della passione. Non ha importanza che sia la pittura, la poesia, la corsa, o la cucina, ma che una naturale predisposizione sia coltivata nella diversità di ciascuno. Proprio per questo occorre la partecipazione comune: tutti insieme a imparare, senza vergogna né pregiudizi. Dobbiamo essere come bambini che imparano insieme l’uno dall’altro, in una «social catena». Nessuno è abbandonato o lasciato indietro.
Investire concretamente nella comunità è la rotta più sicura per la guarigione spirituale di tutti coloro che tra speranze abbandonate e dolorose insicurezze non scorgono più un approdo sicuro. Insieme possiamo raggiungerlo, non per imposizione moralistica o per la vanità che talora accompagna un gesto altruistico; per vocazione, invece, in risposta al dettato connaturato alla nostra natura: siamo la nostra umanità.
Questo è un viaggio che non deve rimanere ideale, ma che deve piuttosto permeare la realtà: noi, i più giovani, quelli che ancora non hanno su di sé il peso delle proprie scelte, dobbiamo per primi credere in un futuro condiviso e accudire il presente. La via della cura è il tempo: dobbiamo dedicare il nostro tempo.
Le rivoluzioni di successo partono dal basso. Riscopriamo il valore sociale della scuola, al di là delle discipline e delle strutture fisiche; inneschiamo un incontro fruttuoso tra generazioni diverse; valorizziamo e pieghiamo alla sua funzione naturale il talento di ogni singolo studente. Chi frequenta un istituto alberghiero terrà corsi di cucina aperti a tutti, incrementando così lo sviluppo della filiera corta che è in grado di ottimizzare le risorse del territorio; i ragazzi dell’artistico mostreranno i frutti della loro creatività e stimoleranno quella dei partecipanti; e ancora corsi elementari di lingua per il linguistico, di letteratura e poesia per il classico, di scienze per lo scientifico. E se alla fine di questo viaggio ci si riunisse tutti insieme in un grande evento che costituisca insieme opportunità di confronto e di lavoro; un evento di poesie, musica, arte, cucina, letteratura di cui tutti sono al tempo stesso autori e fruitori, un prodotto di tutti, nessuno escluso? Non riesco a immaginare un modo migliore per rendere la scuola un luogo di apprendimento reale e inclusivo.
Abbi il coraggio di far fruttare le tue proprie capacità, questo dovrebbe essere il monito; un monito che ha lo scopo di prevenire un’angoscia devastante ma che è anche un invito a raggiungere gli altri nella prospettiva di un futuro promettente. Questo sentimento di altruismo dovrebbe fare un eco così potente da portare un vero e proprio nome: C.O.R.E, da intendere “Contro gli Ostacoli un Rifugio Essenziale”. In inglese con core si indica la cosa più importante, il valore o l’ideale fondamentale, il nucleo di una società o di un macchinario; anche in italiano, dove core è forma poetica per cuore. C.O.R.E vuole far da sostegno alle persone in difficoltà, offrire un rifugio, un luogo sicuro, intendendo per essenziale ciò che è indispensabile; ciò che è sempre presenta ma di cui non sempre abbiamo coscienza.
L’eco per natura riverbera e il suo sarebbe una vittoria per tutti noi, una via di condivisione alternativa a quella dei social network che unendoci nella chiacchera e nella vanità ci dividono, rendendoci più infelici e soli. Un tempo le città celebravano i caduti non per malinconia o rimpianto, ma per commemorare la vita comune che avevano preservato. Noi dobbiamo fare altrettanto, celebrando gli oppressi dal disagio e quanti sono ormai scettici, anche senza saperli, nei confronti di un mondo che pare deluderli costantemente. Nella speranza di una società più vicina al malessere, che non possiamo ignorare perché è anche il nostro, bisogna esserci: io, voi, Noi.
Cloe Buralli