L’articolo 34 della costituzione italiana stabilisce: «La scuola è aperta a tutti. L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso». È davvero così nella scuola italiana?
In un volume pubblicato da Einaudi nel 2013, Gustavo Zagrebelsky si interrogava sulla solitudine dell’articolo 1, che enuncia il diritto al lavoro tra i principi fondamentali della costituzione ma che spesso rimane disatteso nella realtà dei fatti. L’articolo 34 è parimenti importante, perché stabilisce il valore comunitario della cultura, indicata come strumento di emancipazione e avanzamento sociale. A tal fine «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» (art. 9). Grazie all’istruzione, ogni uomo può diventare un cittadino attivo nella società, partecipare consapevolmente alle iniziative politiche e sociali e non limitarsi a vivere passivamente e per inerzia, trasportato dalla corrente delle idee altrui che possono essere inesatte o totalmente scorrette. John Stuart Mill, padre del liberalismo moderno, paventava esattamente questo rischio quando nel 1861 a proposito del neonato governo rappresentativo scriveva che è «inammissibile che possa prendere parte al voto una persona che non sa leggere né scrivere ed è sprovvista delle nozioni basilari dell’aritmetica», poiché «non è utile, ma nocivo il proclamarsi della nazione l’ignoranza e la scienza ugualmente fondate in diritto a governare il paese». La democrazia, rispetto alle forme di governo autoritarie, comporta un prezzo: l’autonomia di pensiero. Quando non si provveda a ciò, il rischio, se non l’ovvia conseguenza, è la «tirannide della maggioranza», il dispotismo della maggioranza eletta sulla minoranza degli elettori attraverso il controllo della cultura di massa, e la demagogia, intesa come forma deteriore della democrazia.
Il sistema educativo italiano, per decenni un’eccellenza nel panorama europeo, ha perso gran parte del suo prestigio. Pare che gli attori politici che si susseguono al governo non diano particolarmente importanza all’istruzione, che è infatti pressoché assente nei programmi elettorali di orni parte. La scuola sembra per lo più un salvadanaio, peraltro ormai semivuoto, a cui attingere attraverso tagli di spesa quando mancano i fondi necessari a finanziare altre voci di bilancio, spesso purtroppo più per ragioni elettorali che di effettiva utilità al Paese. Ecco perché poi le scuole mancano di gessi per le lavagne, di attrezzature laboratoriali, di sapone. Non parliamo poi delle strumentazioni tecnologiche o della fatiscenza di molte strutture scolastiche. Un ulteriore limite alla possibilità di intervento immediato, quando insorgono problemi di manutenzione anche ordinaria, è il conflitto tra gli organi locali competenti. La scuola pubblica deve così contare sulla capacità del singolo dirigente e sul contributo di fondazioni esterne o di privati.
Incolpare la politica è vano tanto quanto incolpare il clima. La politica non è un’entità astratta; la politica siamo noi elettori che spesso, troppo spesso forse, ci lasciamo irretire da proposte allettanti ma irrealizzabili o, se realizzate, non all’altezza delle promesse. Mettere mano a una riforma seria, strutturale dell’istruzione, come di altri settori cruciali, richiederebbe una stabilità e un coraggio che la classe dirigente dell’ultimo trentennio ha raramente mostrato. A memoria, anche indiretta, nei miei quasi diciotto anni non si è mai avuta una legislatura completa. La conseguenza è il clima da campagna elettorale perenne che facilmente mette da parte questioni importanti ma spinose privilegiando obiettivi «civetta», di facile appeal. Un’altra ragione, forse un po’ da complottisti, è che ogni regime di massa necessita di una folla facilmente manovrabile. Che la politica menta è una verità nota almeno a partire da Machiavelli, ma i moderni mezzi di informazione hanno reso estremamente agevole diffondere ‘verità’ parziali o false, che fanno leva sulla paura e sul, correlato, livello medio basso del bacino elettorale. L’istruzione paga poco in termini elettorali perché è facile farla passare come una voce secondaria del bilancio. Quanto una posizione di questo genere sia assurda si capisce da sé e non vale nemmeno la pena confutarla. Tuttavia, se si volesse rimanere sul piano economico molti elettori non si rendono conto delle perdite che l’Italia proprio per la sua politica scolastica affronta nel campo dell’economia della conoscenza. la produzione di beni e servizi dipende, infatti, sempre meno dalla quantità di materie prime e di energia utilizzate e sempre più dalle conoscenze necessarie alla loro realizzazione, il cosiddetto know how. Non a sproposito, nel report del 5 giugno 2019, la Commissione europea ha individuato una precisa relazione tra la produttività «tendenzialmente stagnante» del sistema economico italiano e la qualità dell’istruzione, raccomandando maggiori investimenti nel settore, soprattutto nel campo delle retribuzioni del corpo insegnante. Scarsa competitività e scarsa meritocrazia pesano quindi come uno stigma sull’economia italiana.
Ed ecco perché l’istruzione primaria e secondaria l’Italia si colloca in fondo alla classifica europea sia per livello di preparazione che per investimenti statali – e per questo, infatti, è stata più volte sanzionata dall’Unione europea –, con un tasso di abbandono scolastico che nell’ultimo biennio è aumentato attestandosi al 14,5%. A rendere meno competitivo il modello italiano è la prevalenza, nella didattica, della teoria sulla pratica. Molto limitato il numero di LIM presenti nelle classi, di auditorium, di spazi di aggregazione autonoma, di biblioteche aggiornate, di luoghi adatti all’educazione sportiva, di una didattica laboratoriale adeguata. Se in un plesso viene creata un’aula 3.0 o aumenta la dotazione informatica il merito è quasi sempre di docenti e dirigenti caparbi. Nella maggior parte delle scuole italiane non è presente un laboratorio e se presente viene utilizzato poco o nulla anche a causa della mancanza di fondi statali. Per ovviare a questa carenza, la Legge 107 del 13 luglio 2015 ha introdotto l’alternanza scuola-lavoro, anche nell’ottica di un più facile inserimento nel mondo del lavoro: ciascun studente del triennio deve integrare il percorso curricolare con un monte ore da spendere in attività di tirocinio e stage presso enti terzi. Nonostante sulla carta la proposta sia sensata e incontri un’esigenza reale di formazione, i suoi limiti si sono palesati immediatamente: per lo più si trattava di lavoro non pagato presso aziende, con incarichi che poco o nulla avevano a che fare con il proprio curricolo e orientamento. Anche per questa ragione, la Legge 145 del 30 dicembre 2018 (resa applicativa dal D.M. 7774 del 04/09/2019) ha ridenominato i percorsi di alternanza in «Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento» (PCTO) riducendo a 90 il numero di ore obbligatorie per il triennio delle Superiori.
L’istruzione universitaria, invece, sembra raccontare un’altra storia. L’università italiana gode ancora di una grande stima a livello internazionale. Nella classifica delle cinquecento migliori università europee, l’Italia si posiziona allo stesso livello di Francia e Germania. Un risultato tanto più significativo in quanto il rapporto tra numero di atenei e abitanti è inferiore rispetto alla media europea e gli investimenti dello Stato sono altrettanto bassi di quelli per la primaria/secondaria. I meriti dei ricercatori italiani che nelle scorse settimane hanno isolato il nuovo coronavirus sono stati trionfalisticamente, e ipocritamente, presentati nel discorso politico come segno dell’eccellenza della ricerca in Italia. Più onestamente, forse, si sarebbe dovuto dire che successi di questo genere sono merito dell’impegno dei singoli e avvengono spesso nonostante il sistema paese e non grazie a esso. Ad ogni modo, le due facce dell’istruzione italiana sono plasticamente rappresentate dal recente scorporamento del ministero del ministero dell’istruzione, dopo le dimissioni del precedente ministro nel dicembre 2019: il ministero della pubblica istruzione e il ministero dell’università e della ricerca. L’esistenza di due diversi modi di trattare la scuola italiana – le «due facce» del sistema, come le ho chiamate prima – crea una disparità di trattamento inaccettabile e contraria al principio di uguaglianza sostanziale sancito dall’art. 3 della Costituzione, con i «capaci e i meritevoli» trasformati nei «più abbienti» o «più fortunati», quanti possono permettersi una formazione privata e contare sul sostegno della famiglia. «La scuola è aperta a tutti» e «l’arte e le scienze sono libere e libero ne è l’insegnamento», così esordiscono, rispettivamente, gli articoli 34 e 33; principi che rimangono lettera morta e ci riportano di almeno un secolo indietro nell’evoluzione storico-istituzionale occidentale se non vengono effettivamente garantiti a tutti i cittadini gli strumenti per poter fruire in libertà della cultura e della conseguente pienezza di cittadinanza prospettata dalla Costituzione.
La legge di bilancio 2020, approvata il 31 dicembre dello scorso anno, stanzia poco meno di tre miliardi di euro per scuola e università. Sono previste nuove risorse per la formazione dei docenti, l’incremento delle borse di studio e un piano di edilizia scolastica per mettere in sicurezza le strutture pubbliche di asili nido e scuole. A febbraio è stato firmato l’atto di indirizzo politico-istituzionale che definisce gli obiettivi del Ministero dell’Istruzione per l’anno 2020. Tra le priorità: inclusione, misure contro la dispersione scolastica, educazione alla cittadinanza attiva e alla sostenibilità ecologica, innovazione e competenze digitali. Chissà se qualcuna di queste proposte si tradurrà in azione concreta. Sembra però certo che senza una rotta chiara – un piano di riforma strutturale – la scuola resterà come una nave nella tempesta.
Riccardo Gabbani