Mille assedi

Una poesia contro il pregiudizio

Le parole ordinarie non sono sufficienti a descrivere l’orrore serpeggiante dell’esclusione e del razzismo. Occorrono parole forti, parole indignate. La poesia scritta da Cloe e presentata di seguito denuncia in modo tagliente e forse inusitato per una ragazza di 17 anni, e perciò tanto più efficace, l’errore «banale» in cui cadiamo tutti noi quando adottiamo il metro dell’esclusione e ci adeguiamo a comportamenti civili non per convinzione interiore ma per semplice acquiescenza («codici di tolleranza mi pressano, calpestano me con i piedi nudi»). Eppure, sentiamo montare la rabbia per l’altro, per il diverso, una rabbia che è motivata esclusivamente da una violenza interiore, da una dissomiglianza che di fatto, anche etimologicamente, cela una somiglianza profonda. L’escluso di adesso potrei essere io domani. Odiandolo esorcizzo l’odio di cui io stesso potrei essere vittima e mi adeguo al branco, come un ragazzino in un gruppo di bulli che perpetra violenza temendo di finire dall’altra parte. Questa è l’ignoranza, «pietanza apprezzata dalla maggioranza» con cui ci pasciamo per convincerci di essere «gentili», uomini moderni e cosmopoliti pur continuando a celare in noi il seme della dissomiglianza. Siamo noi che ci abbandoniamo al confortante abbraccio del conformismo. Ma il velo cade non appena puntiamo il dito di cui non vediamo la carica di violenza contro chi riteniamo diverso e nemico, quando preferiamo il conformismo al pensiero critico e ci adeguiamo alla vulgata di massa e alla propaganda populista, quando non ci accorgiamo che siamo noi per primi a perpetrare i nomi di Hitler, di Gobineau, di Chamberlain ogni qualvolta escludiamo un altro dal consesso umano. Questa è la «febbre del dito» che nasce dalla «febbre del cuore», la smania sepolta ma non meno virale di trovare un oggetto umano su cui riversare la nostra animosità. Questo è il «rabbino», la vittima del pregiudizio. Sono io che scrivo. Siete voi che leggete.


Mille assedi

di Cloe Buralli

Mi sento la febbre di un dito

morsicato dalla

rabbia

per quel rabbino

così saturo di(s)somiglianza.

«Io non sono vicino a lui» - dico

ma codici di tolleranza mi pressano,

calpestano me con i piedi

nudi

come gli occhi di lui che bramo sano,

cristiano.

Abramo non approverebbe

E neppure l’Eva

le tue intuizioni superbe,

la tua dottrina cieca

eppure non cedi, ai mille assedi.

Disprezzo e vizio, il mio giudizio

dedotto dall’ignoranza,

pietanza apprezzata dalla maggioranza

di queste genti che tu solo vorresti

gentili.

Mi sento la febbre di un cuore

soggiogato dalla mano del cosmopolitismo

rispettosa, in questo ratto delle Sabine

mi lascerò incatenare

ormai alato, dal pregiudizio lontano.