Il 30 ottobre 1938, i cittadini americani sintonizzati sull’emittente CBS appresero dal notiziario delle 20.00 che negli Stati Uniti era in corso un’invasione aliena. Sebbene al termine del servizio il suo autore, Orson Welles, spiegasse che si trattava di uno scherzo ispirato al romanzo La guerra dei mondi (di H.G. Wells), il realismo con cui era stato condotto – con l’intervento di esperti, inviati sul posto, interviste ecc. – e il generale clima di tensione del Paese negli anni ’30 provocarono un panico reale. Oggi si parlerebbe di fake news. Welles, che all’epoca aveva 23 anni, si sarebbe imposto come uno dei più grandi registi del ‘900, a partire da un film del ’41 dedicato al potere dell’informazione: Quarto potere (tit. orig. Citizen Kane). Le notizie false e la loro diffusione sono sempre esistite, questo è ovvio, sin da quando esiste la comunicazione verbale, ma se fino a un tempo relativamente recente le informazioni erano veicolate attraverso canali ufficiali e regolari, o comunque centri circoscritti di diramazione, la situazione attuale è quella di un policentrismo anarchico: le informazioni circolano indipendentemente dalla fonte e si diffondono in modo virale e anonimo amplificate da un numero pressoché infinito di mediatori, gli utenti del web.
Scriveva Voltaire: «Deve essere molto ignorante perché risponde ad ogni domanda che gli fatta». La rete ha ampliato esponenzialmente le possibilità della nostra conoscenza, ma anche della nostra ignoranza. La libertà di accesso e la diffusione delle informazioni rende taluni tronfi di un sapere che di fatto non si ha. L’informazione senza la formazione – gli strumenti culturali necessari allo sviluppo del pensiero critico – non è libertà ma solo l’ennesima forma di servitù perché può essere impiegata per confondere e creare un non-sapere facilmente manipolabile. Si pensi alla facilità con cui negli ultimi anni le personalità politiche evocano lo spettro delle fake news per difendersi dall’indifendibile, evocare cospirazioni o sollevare sospetti sull’avversario – che ricordi, il primo a rendere di uso comune l’espressione è stato il presidente Trump a proposito del Russia Gate.
«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro delle fake news»: questo scriverebbero oggi Marx ed Engels se potessero rimettere mano al Manifesto del partito comunista del ’48. All’ideologia si è sostituita la post-ideologia – che di fatto è solo un’altra forma di ideologia –; alla verità la post-verità. Il prefisso post- indica un oltrepassamento non cronologico ma logico. Nel caso della post-verità, in particolare, si intende che un enunciato non è ritenuto vero in base alla sua corrispondenza con la realtà ma per la sua capacità di coinvolgere emotivamente, di convincere, di motivare all’azione. La verità è quindi superata.
Già, ma che cos’è la verità? La definizione più ovvia e classica di «verità» è la corrispondenza tra il discorso e la realtà, cioè tra un’affermazione e una negazione e lo stato di cose, il modo in cui gli oggetti si trovano in relazione reciproca. Pertanto, in questa definizione, la verità non risiede propriamente negli oggetti o nei termini singoli di un discorso – nome, verbo, preposizione ecc. – ma nel suo significato. L’affermazione «questo bicchiere è rotto» è vera, cioè ha senso, se e solo le corrisponde la situazione – uno stato di cose – per cui il bicchiere cui mi riferisco è effettivamente rotto. Si tratta di una definizione ottimistica nei confronti delle capacità conoscitive umane, perché attribuisce all’uomo la possibilità di conoscere la realtà proprio in virtù di tale corrispondenza.
Possiamo dunque concluderne che la verità risiede nel linguaggio. Ora però sappiamo che esistono diversi linguaggi. Non solo le lingue che parliamo. In inglese o in francese l’oggetto «gatto» esiste ed è immutabile a prescindere dalla parola usata. Se ci fosse accordo, paradossalmente, potremmo scegliere di definire il gatto «cane» senza che il gatto muti di natura. Lo stesso discorso può estendersi al linguaggio dei segni, al linguaggio informatico, al linguaggio matematico. Quando in matematica dico 3, però, mi sto riferendo a qualcosa che esiste realmente? Esiste il numero 3? O piuttosto mi riferisco al fatto che è possibile contare gli oggetti e individuare un gruppo formato da uno-più uno-più uno oggetti? O il triangolo? Esiste in natura un triangolo equilatero o si tratta piuttosto di un’astrazione? Questo per la matematica, ma se ci spostassimo alla storia? Cosa è vero storicamente? Diremmo, ciò che è accaduto realmente. D’accordo, ma se per fatti che succedono nella nostra famiglia o in generale nel nostro tempo, non siamo in grado di fornire una spiegazione completa – una corrispondenza completa, quindi – figuriamoci per eventi accaduti nel passato, spesso ricostruibili solo parzialmente. Allora non è possibile parlare di verità storica. Allora, i libri di storia raccontano fandonie o tutt’al più fantasie verosimili. Ancora più complesso il tentativo di applicare il concetto di verità all’arte. Esiste un vero nell’arte? Nella nostra definizione iniziale, il vero artistico sarebbe esclusivamente il ritratto realistico o la raffigurazione di un paesaggio; dunque le opere di Picasso e Van Gogh sarebbero false, cioè non significherebbero niente? E, inoltre, anche i ritratti realistici e i paesaggi dal vero sono per definizione falsi perché dipinti, non esistono tali e quali nella realtà.
Di fronte a questa complessità, ci si aprono due strade possibili. O si adotta un significato univoco di verità e si lascia quindi scoperto tutto un settore fondamentale della vita umana, come l’arte, la storia, la psicologia, la scienza economica, oppure, ed è questo che tenteremo di fare qui, si cerca una definizione comune, che naturalmente assume sfumature diverse in base al contesto in cui è usata. Le verità più importanti non sono quelle che riguardano i numeri e la fisica, ma quelle relative all’esistenza umana. Il senso della vita, ammesso che ci sia, la felicità, l’infelicità, l’amore e per tutto questo non esiste una formula matematica. Ci sono cioè verità che hanno bisogno di altri metodi di indagine. Di fronte a Pilato - così racconta il vangelo di Giovanni - Gesù si dichiara «testimone della verità». Pilato, che proviene da tutt'altra tradizione culturale, gli chiede allora «Che cos'è la verità?». Gesù non risponde, non può rispondere: la verità che ciascuno di loro intende non è comunicabile all'altro. Come nel mito della caverna di Platone, la verità non è qualcosa che ti possa essere insegnato dall'alto, è il risultato di un processo personale fatto di vissuti ed esperienze: per questa ragione i prigionieri finiscono con l'uccidere l'unico di loro che si è liberato dalle catene e ha visto com'è fatto il mondo (per lo meno il suo mondo); per la stessa ragione Gesù, nel resoconto di Giovanni, muore.
È diffusa da secoli nell’opinione comune, e sempre di più nella società tecnologica, l’idea che la scienza sia la verità. Non voglio deludervi ma la scienza non è la verità; anzi il carattere fondamentale della scienza sta proprio nella sua non verità. Se la scienza fosse vera, se lo fosse sempre, allora non avrebbe ragione di esistere la ricerca scientifica. Sapremmo già tutto e la scienza non sarebbe diversa dalla fede. Il padre della scienza, Galilei, paragonava la natura e la religione a due libri: il primo scritto in linguaggio matematico e oggettivo, il secondo scritto con parole umane a scopo morale. Entrambi i libri erano veri, ciò che cambiava era il fine e il linguaggio. Nella prospettiva di Galilei esiste una verità unica e fede e scienza significano fondamentalmente la stessa cosa. Ma non è così. Se così fosse la scienza si sarebbe fermata con Galilei, non ci sarebbe stata la teoria della gravitazione universale, la fisica quantistica, la teoria della relatività generale.
Da dove nasce questo fraintendimento sullo natura della scienza? Iniziamo dal nome. Forse non ci avete mai fatto caso, ma la parola scienza vuol dire semplicemente conoscenza. In espressioni quali Ha la scienza infusa o possiede la scienza di numeri, si intende conoscenza. Perché allora impiegare un termine che indica semplicemente la conoscenza come il nome di una disciplina specifica fondata su un suo metodo? Dipende dalle condizioni storiche. A partire dal Seicento, dall’epoca di Galilei, si affermò una forma di sapere che pretendeva di essere oggettivo e descrittivo; un sapere che si basava sul linguaggio matematico, che non si chiedeva il perché ultimo dei fenomeni ma si limitava a descriverli; un sapere che non era praticato in solitudine o disinteressatamente, ma che si poneva come scopo la condivisione del sapere e il dominio sulla natura; un sapere, infine, che si avvaleva di strumenti tecnici. Questi sono i caratteri distintivi della scienza: linguaggio matematico, descrizione oggettiva dei fenomeni, tecnica, esperimento ecc. Questi caratteri conferivano a questo tipo di discorso un grado di oggettività apparente che nessun altro discorso possedeva prima, tanto da farne la conoscenza per eccellenza, la Scienza, appunto.
Voglio riportarvi un’immagine usata da un filosofo inglese del Seicento, John Locke, per spiegare i limiti e le possibilità della ragione umana, e quindi della sua pretesa di verità. La conoscenza, scrive Locke, è paragonabile alla luce emessa da una candela in una stanza buia. La candela crea una sfera di luce che ci consente di vedere chiaramente solo gli oggetti che si trovano nelle sue immediate vicinanze; gli oggetti posti invece oltre la sua fera di luce appariranno sempre più confusi; a una certa distanza, infine, prevarrà il buio assoluto. Qual è il senso di questa metafora? Provate a rispondere. [Risposta: la ragione, cioè l’insieme delle facoltà conoscitive umane, illumina il mondo che ci circonda, ma poche sono le cose che possiamo conoscere con assoluta certezza; al di là si estende la sfera più ampia di ciò di cui possiamo avere opinioni probabili o verosimili, e ancora oltre l’immenso territorio che non potremo mai conoscere in alcun modo: se anche potenziassimo la capacità di illuminare la stanza non riusciremmo mai a illuminarla del tutto con una sola candela, anche perché la stanza dobbiamo immaginarla infinita, come infinite sono le cose che potremmo conoscere]. Questa candela è l’unico strumento che possediamo per orientarci nel mondo e risulta adatta allo scopo finché ci limitiamo alle cose direttamente illuminate. Quando pretendiamo di conoscere ciò che si trova al buio non conosciamo, immaginiamo, che è volendo un’altra forma di conoscenza ma non di carattere scientifico. Non è che la verità non esista. La stanza rimane una stanza anche se noi non la vediamo, il discorso riguarda piuttosto la nostra capacità di descriverla e l’arroganza di descriverla perfettamente pur non vedendola.
Si vede allora il risvolto etico e politico di una simile concezione della verità. Se esiste una Verità in senso assoluto, allora non c’è libertà di pensiero e – per come abbiamo definito la scienza all’inizio – non esiste nemmeno scienza. La Verità è propria della religione e di quei regimi politici in cui è assente la libertà di pensiero, in cui domina solo il pensiero del capo. Se invece una verità assoluta non esiste e la conoscenza è solo probabile, allora tutte le opinioni possono essere vere se rispondono a determinati criteri e questi criteri sono determinati dalla loro capacità di convincere, di portare prove a loro sostegno. Potremmo dire che la concezione di una verità solo probabile è alla base del pensiero democratico e del libero dibattito. Ciò che rende una teoria scientifica «scientifica» è il fatto che può essere falsificata, cioè si può dimostrare che esiste una teoria migliore per spiegare un fenomeno.
La scienza non può essere considerata un processo unitario e lineare di selezione e accumulo di conoscenze. Ci sono dei salti. Per millenni una determinata conoscenza scientifica può risultare soddisfacente e poi essere superata quasi all’improvviso, nel corso di pochi decenni. Nel corso della storia umana si sono imposti dei paradigmi, cioè delle prospettive sul mondo, fatte di regole e presupposti condivisi. Paradigma in italiano vuol dire esempio, modello. Si può paragonare il paradigma alle regole di un gioco, mentre le teorie scientifiche corrispondono a ciò che si può fare all’interno di quel gioco rispettandone le regole. Questo è il caso ad esempio della meccanica di Newton, dell’evoluzionismo di Darwin e della relatività di Einstein. Il paradigma non è semplicemente la conoscenza scientifica ma è un modo di guardare al mondo. Perché da un paradigma si passa a un altro? La scienza può essere vista come un’attività di risoluzione di rompicapi che hanno senso solo nel quadro di riferimento del paradigma. Ad esempio, se sto giocando a scacchi, il problema di quale pedina muovere (il rompicapo) ha senso solo nel quadro delle regole stabilite dal gioco degli scacchi (il paradigma). Si potrebbe pensare che il paradigma sia superato semplicemente dall’osservazione di anomalie. In realtà no. Entro un certo limite le anomalie possono essere ricondotte nel quadro nella prospettiva vigente. Nel 1781 l’astronomo tedesco scoprì un nuovo pianeta, Urano, la cui orbita però non rispettava la teoria della gravitazione di Newton. Non per questo la teoria newtoniana fu abbandonata. Qualche tempo dopo un altro astronomo, Le Verrier ipotizzò l’esistenza di un altro pianeta, Nettuno, che avrebbe disturbato l’orbita di Urano, compatibilmente alla teoria di Newton. Solo a metà ottocento si sarebbe mostrata sperimentalmente l’esistenza di Nettuno. Quando però le anomalie non possono essere ricondotte nel quadro della scienza normale, allora il paradigma vigente può essere sostituito da un nuovo paradigma, e si ha quella che si definisce una rivoluzione scientifica.
Sbaglieremmo però a pensare che la sostituzione di un paradigma con un altro dipenda da questioni esclusivamente razionali. Sono fondamentali i fattori psicologici, sociali e storici. Per questa ragione i paradigmi sono tra loro incommensurabili, e non possono di conseguenza essere confrontati per stabilire quale sia il migliore o il peggiore dal punto di vista scientifico. Vi faccio un esempio. Per rivoluzione scientifica si intende quel cambiamento di paradigma, o se preferite di prospettiva, che ha luogo in Europa tra il Seicento e il Settecento, tra Copernico che sostiene la teoria geocentrica e Newton, che formula la legge di gravitazione universale. Questo paradigma vale appunto per l’Europa occidentale e dipende fortemente dal tipo di civiltà che si era sviluppata in Europa. Il paradigma astronomico precedente, il sistema eliocentrico, era stato funzionale per più di un millennio, perché rispondeva bene alle esigenze conoscitive dell’epoca. Il sistema eliocentrico per certi versi descrive meglio la realtà di quello geocentrico perché consente di rispondere meglio alle osservazioni a occhio nudo, è più intuitivo: quando noi osserviamo il cielo abbiamo l’impressione che sia il sole a muoversi; per quanto riguarda il movimento della terra, invece non ne abbiamo percezione. Allora dovete immaginare quegli scienziati o intellettuali che a quell’epoca sostenevano il contrario. Erano loro i pazzi, che affermavano teorie in contrasto con quelle vigenti.
Per farvi comprendere meglio il nesso tra scienza e fattori storico-culturali vi porterò alcuni esempi. Che il sole potesse essere al centro dell’universo era stato già affermato dai Pitagorici nell’età antica, ma questa tesi non aveva attecchito. Quando Copernico la ripropone nel Cinquecento, lo fa perché l’ha letta nei libri e ha pensato «Proviamo a verificarla attraverso calcoli matematici»: calcolando, si è reso conto che la teoria eliocentrica spiegava meglio di quella geocentrica il moto dei pianeti. Perché nel Cinquecento sì e nel quattrocento a.C. no? Perché erano mutate le esigenze. Ricordate che l’osservazione astronomica serviva essenzialmente per la navigazione e l’orientamento, e nel Cinquecento – le scoperte geografiche ecc. – ce n’era più bisogno che nell’età antica. Altro esempio. L’idea che l’universo sia infinito fu formulata non da uno scienziato ma da un filosofo, Giordano Bruno, che formulò per ragioni teologiche: siccome l’universo è prodotto di Dio e siccome Dio è infinito, anche l’universo deve essere infinito. L’ultimo esempio riguarda la macchina a vapore. La prima vera macchina a vapore moderna fu progettata da Watt nel 1765, e innescò quella che è nota come rivoluzione industriale. Già nel I sec. d.C. Erone di Alessandria aveva costruito un meccanismo che si muoveva sfruttando la forza del vapore. Perché la rivoluzione industriale non avvenne all’epoca? La risposta è che non occorreva la forza meccanica dato che esisteva una forza lavoro pressoché infinita e gratuita, quella degli schiavi. È la diversa economia, oltre che il quadro mentale, a giustificare l’introduzione della macchina a vapore nell’età moderna.
Non si vuole sostenere che tutte le teorie sono equivalenti o che non esiste una verità. Le teorie differiscono tra loro in base al loro grado di utilità, a quanto sono utili a fornire risposte a una data domanda. Saremmo ingenui a pensare che l’uomo, nel corso della sua storia, ha dato sempre la stessa risposta a domande diverse. E se anche la domanda era uguale, diverse erano le circostanze in cui è stata formulata. Ci sono risposte più complete di altre, risposte che soddisfano più di altre i problemi che ci poniamo. Ad esempio, la sostituzione della prospettiva della gravitazione newtoniana con quella della relatività si spiega con il fatto che il secondo accresce la capacità di previsione rispetto al primo, ma non che la prima sia assolutamente falsa e l’altra assolutamente vera. Si è detto all’inizio che la verità è nel senso più ovvio corrispondenza tra discorso e stato di cose. D’accordo, ma lo stato di cose rimane per noi sempre nella stanza buia di cui parlava Locke.
C’è nella scienza un carattere anarchico, che per certi versi l’avvicina all’arte. Nella scienza come nell’arte, le opere più importanti e rivoluzionarie spesso nascono proprio dalla violazione di quelle che fino a un certo momento sono state pensate come norme inviolabili. Prendiamo la condanna di Galilei. La lettura tradizionale è che Galilei sia stato vittima dell’oscurantismo della Chiesa. Sicuramente è vero. Possiamo però considerarla da un altro punto di vista. Dal punto di vista della scienza normale dell’epoca Galilei era in errore. Quello che chiamiamo «metodo scientifico» non sarebbe altro che la metodologia scientifica che si è imposta nel corso dei secoli – quella galileiana, appunto – ma che di base non sarebbe superiore a quella aristotelico-tolemaica sostenuta dalla Chiesa. Sembra un’affermazione paradossale, perché appunto siamo abituati a valutare la scienza come verità assoluta, ma operando in questo modo trasformiamo la scienza in fede religiosa. Nel quadro culturale odierno risulta superiore la scienza galileiana, mentre nell’epoca di Galilei sembrava migliore quella aristotelica. Per stabilire quale delle due teorie sia la migliore, occorrerebbe stabilire quale quadro culturale sia migliore, ma questo andrebbe al di là della scienza. Potremmo alla fine scoprire che l’universo in realtà è sorretto da una tartaruga gigante, ma in ogni caso la nostra visione scientifica non ne verrebbe inficiata perché finché è durata ci ha consentito di rispondere alle domande che ci servivano e a vivere meglio.
All’obiezione che sono i fatti, i dati osservabili, a stabilire se una teoria ha ragione oppure torto, e quindi se una teoria è migliore di un’altra, si potrebbe obiettare che non esistono fatti puri, ma che ogni fatto è interpretato già da una teoria. Ad esempio il termine massa ha un significato diverso a seconda che lo si consideri nel quadro della meccanica di Newton o in quello della relatività di Einstein. Socrate è vissuto in un epoca per certi versi simile alla nostra. L’Atene della democrazia, uscita dalle guerre contro i Persiani come il faro della civiltà, forte di un impero navale, impreziosita dalle opere di Fidia, sicura di sé e della sua libertà. E così Socrate si aggirava per la città facendo domande e cercando la verità. La verità di cosa? Questo è il punto. Non esiste una risposta univoca. La verità di Socrate era soggettiva e oggettiva al tempo stesso. Era soggettiva perché era convinzione di Socrate che ogni uomo potesse giungere alla verità attraverso un percorso interiore, oggettiva perché tale percorso era dettato dalla ragione, che è comune a tutti gli uomini, e perché doveva avvenire nel confronto con gli altri, nel dialogo. Un approccio alla verità quindi come dialogo che dipende dalle circostanze e dal tempo.
L’etimologia della parola latina veritas, da cui deriva la nostra «verità» ha lo stesso carattere ambiguo. Può derivare dal sanscrito vrtta, «fatto», «avvenimento», o dalla radice iranica var, che vuol dire «credere». Allora la verità è sia un dato di fatto, sia qualcosa che crediamo sia un dato di fatto. Noi sappiamo distinguere il vero dal falso perché ci crediamo. Ma non solo: la nostra conoscenza del mondo si basa su ciò che abbiamo appreso da altri ed è quindi fortemente legata alla nozione di fiducia. La parola veritas traduce il greco aletheia, che vuol dire svelamento. Cosa vuol dire che la verità è uno svelamento? La verità esiste, è oggettiva, ma si svela nel tempo e nello spazio. La mia verità non è la verità di Socrate o di Newton, e usare l’aggettivo «mia» è improprio, la verità è sempre «nostra» condivisa. Vuol dire anche la verità si svela nella connessione tra cose. Prendiamo il mondo. Il mondo non è semplicemente l’universo. Il mondo è l’insieme di tutti gli oggetti cui noi, esseri umani, diamo un senso. Se non esistesse l’uomo non esisterebbe il mondo, perché il nostro mondo è il modo in cui noi percepiamo le cose; esisterebbe però l’universo. Dire però che esisterebbe l’universo anche senza di noi o, come ho detto poco fa, che la verità esiste ed è oggettiva ma si svela nel tempo e nello spazio vuol dire che la verità vive nella nostra interpretazione. Il problema è di nuovo il linguaggio. Ma non è un vero problema. È un problema se ci atteniamo a una concezione statica della verità. Vi ho citato prima Nettuno. Vi cito un altro pianeta: Plutone. Scoperto nel 1930 fino al 2006 è stato considerato il nono pianeta del sistema solare. Si è poi deciso che Plutone, per le sue caratteristiche, non può essere considerato un pianeta come gli altri. Quindi Plutone non è più un pianeta ma non importa perché è la stessa cosa, lo stesso Plutone osservato nel ’30.
Passiamo all’arte. Consideriamo Guernica di Picasso. Il quadro ritrae il bombardamento aereo compiuto nel 1937 nella città spagnola di Guernica da parte dell’aviazione tedesca. Guardando il quadro avreste difficoltà a definirlo realista. Eppure lo è, in un certo senso, nello stesso in cui Plutone non è più un pianeta ma è pur sempre Plutone. Guernica, il quadro, raffigura qualcosa che nessuna fotografia, nessuna descrizione oculare può cogliere: la disperazione, il senso di distorsione interna ed esterna della città, la fine di un mondo – il mondo degli abitanti di Guernica. Prendiamo un quadro di Kandinskij con tutti i suoi colori e le sue forme geometriche. Si può parlare di verità? Diremmo di no, e invece sì, perché se è vero che la verità è il significato, il rimando a qualcosa, anche quei quadri rimandano a qualcosa. Certo, non è un qualcosa di misurabile come la circonferenza terrestre, ma è pur sempre qualcosa: la nostra emotività, la nostra soggettività. Un altro esempio: l’autoritratto di Van Gogh con l’orecchio mozzato. Cosa rappresenta il quadro? Un uomo con una benda intorno all’orecchio. Ma cosa svela realmente il quadro? Il disagio, la follia, la solitudine, la ricerca di un soddisfacimento nell’arte, di un linguaggio personale. La verità in questi esempi avviene nell’incontro tra il soggetto e l’oggetto, in una sfera di significato condivisa. È vero, la stanza rimarrà sempre buia, per quanto spostiamo la candela la candela verrà con noi e illuminerà una porzione limitata di spazio, ma è proprio questa la bellezza della scienza e della nostra condizione umana: che cerchiamo nel buio. Siamo come bambini curiosi che sgattaiolano nella notte alla scoperta del mondo. Riempiamo con la nostra fantasia gli spazi vuoti e poi di giorno verifichiamo se la nostra intuizione era corretta. A volte non lo è, a volte lo è. Ma non importa. Perché il luogo della verità è il buio. Basta aspettare che si sveli.
GS