Sulla grigia roccia di Cashel
l’occhio della mente
Ha evocato i gelidi spiriti che nascono
Quando la vecchia luna è sparita dal cielo
E quella nuova nasconde ancora il suo corno.
Sotto occhi vacui e dita senza requie
Il particolare è pestato finché è ridotto uomo.
Quando ebbi la mia volontà?
Oh, non da quando cominciò la vita.
Costretti, accusati, frustrati, curvati e raddrizzati
Da queste mascelle connesse da fili e membra di legno,
Anch'esse obbedienti,
Non conoscendo il bene e il male,
Obbedienti a qualche occulto magico fiato.
Non sentono neppure, così astratti essi sono,
Così morti oltre la nostra morte,
Trionfo a cui obbediamo.
II
Sulla grigia roccia di Cashel vidi improvvisamente
Una Sfinge con petto di donna e zampe leonine,
E un Budda, una mano in riposo,
Una mano levata a benedire.
E proprio in mezzo ai due danzava una fanciulla
Che, forse, aveva consumato
Tutta la vita danzando, perché ora, da morta,
Sembrava che sognasse di danzare.
Anche se vidi tutto con l’occhio della mente
Niente, fino alla morte, vi sarà di più solido;
L’ho veduto alla luce della luna
Nella sua quindicesima notte.
L’una sferzava con la coda; gli occhi accesi dalla luna
Fissavano ogni cosa conosciuta, ogni cosa sconosciuta,
La testa immobile, eretta,
Nel tripudio dell’intelletto;
I globi accesi dalla luna dell’altro erano immobili,
Fissi su ogni cosa amata, su ogni cosa non amata,
Eppure egli non aveva pace
Perché chi ama è triste.
Oh, poco si curavano di chi danzasse in mezzo a loro,
E poco lei di chi vedesse la sua danza
Tanto aveva superato con la danza il pensiero.
Il corpo apportava perfezione, perché soltanto
L’occhio e l’orecchio fanno tacere la mente
Con i minuti particolari della natura umana.
La mente si muoveva e tuttavia sembrava ferma
Come se fosse una trottola.
Nella contemplazione, quei tre avevano
Così operato sull’attimo, e lo avevano
Talmente esteso che, rovesciato il tempo,
Erano morti, eppure carne e ossa.
III
Seppi che avevo visto, avevo visto finalmente
Quella fanciulla che le mie notti immemori stringono
O i miei sogni che fuggono
Se mi stropiccio gli occhi,
Ma che fuggendo gettano sul mio cibo
Un succo di follia che mi fa battere i polsi
Come se fossi stato sedotto
Dal Modello di Omero
Che non degnò d’un pensiero la città che bruciava.
A tale picco di follia sono portato,
Preso fra l’attrazione
Del plenilunio e della luna nuova,
Tra la banalità del pensiero, e immagini
Che hanno la frenesia dei nostri mari occidentali.
Su queste cose levai il mio lamento,
e poi baciai una pietra,
E poi in un canto lo ordinai,
Perché io, troppo a lungo ignorante,
Ero stato così ricompensato
Nella casa in rovina di Cormac.
William Butler Yeats