Federico, pur essendo un militare, non era un uomo rozzo, anzi la sua corte era un luogo di educazione militare e culturale, a tavola non erano permessi scherzi grossolani né discorsi licenziosi, nessun eccesso era tollerato, nemmeno giochi d’azzardo, niente che sapesse della volgarità militaresca.
A tavola erano bandite le chiacchiere, venivano letti, ad alta voce, brani di testi latini.
Federico era frugale, di quelli che “sanno tenere il mezzo tra il poco e il troppo”. Preferiva le pietanze semplici, “non beveva vino per continenza”. Mai durante il suo regno ebbero luogo quei conviti per i quali i cronisti scrupolosi di altri principi arrivavano a misurare lo spago delle salsicce.
A Corte, in Urbino si mangiava carne bollita a mezzogiorno e a sera, arrosti nei giorni di festa, il venerdì e le vigilie minestra e pesce.
Tutti venivano serviti con ordine e senza confusione, egli esigeva che la carne venisse masticata con garbo.
La pulizia era un’altra lodevole fissazione di Federico, scaturiva dal suo fastidio per ogni forma di volgarità.
Federico era colto, poliedrico, di tutto informato, dall’arte di governare le città a quella di dotarle di fognature; sentiva come pochi l’importanza dell’avventura umanistica. Il profumo della cultura lo inebriava ed egli lo restituiva, lo diffondeva intorno a sé.
La sua cultura era risaputa anche all’estero. Si dice che padroneggiasse il greco alla perfezione.
Federico era devoto, due messe al giorno, ginocchioni, le mani giunte. Saltava i pasti tutte le vigilie comandate.
Federico era cavalleresco e sportivo. Praticava il rispetto del nemico vinto, sapeva fare la guerra con eleganza, soprattutto aveva l’accortezza di tenerla lontana dai confini dei suoi territori sicché essa non costituì mai per il Ducato un fatto lancinante e crudele. La sua gente conosceva una prosperità economica che per la prima volta aveva rotto la crosta della generale povertà.
Tutti i palazzi da lui fatti costruire, tutte le fortificazioni ordinate a Francesco di Giorgio Martini, vennero pagate con i suoi stipendi di condottiero e senza gravare sulle tasche dei sudditi. Il lusso non era solo un segno di prodigalità, ma anche un mezzo per dare lavoro al popolo, un fattore essenziale per l’economia del ducato. D’altronde Federico non sopportava la povertà come un povero ormai ricco può odiare il suo passato e quanto glielo ricorda. Il Duca finanziò una scuola di architetti militari che, divenuta celebre, avrebbe mandato i suoi alunni in tutti gli Stati comprese le Fiandre. “Architetti di Urbino” li chiameranno e sarà come dire “laureato a Bologna”, un diploma di altissimo valore.
Federico era ospitale. La sua fama di condottiero, la sua solennità che altro non era se non misura, e quella corte, di cui in Europa si parlava come di un centro esemplare, fucina di grandi caratteri, attiravano ad Urbino folle di stranieri.
Chiunque eccellesse in qualche disciplina se ne veniva quassù, su questo cucuzzolo marchigiano, sicuro di esservi bene accolto: menestrelli tedeschi, decifratori di manoscritti, esperti di meccanismi di orologeria, tessitori capaci di comporre le gesta di Achille sulla lana o sulla seta, greci fuggiti da Costantinopoli, monaci, falconieri, pittori fiamminghi col segreto dei colori ad olio, dottori in medicina.
Gli ospiti di alto rango venivano alloggiati a palazzo ed erano coccolatissimi, serviti e riveriti. Urbino quindi era sempre piena di gente venuta per un motivo o per un altro a riscaldarsi ai raggi fulgenti di Federico.
Ragazzi nobili d’ogni parte d’Italia gli venivano inviati affinché egli li iniziasse a un mondo cavalleresco fondato sul coraggio e sull’onore non disgiunti da una tinteggiatura umanistica e li preparasse a essere fatti uomini per affrontare gli aspri assaggi della vita.
Vespasiano da Bisticci, uno dei biografi di Federico ci racconta che il mecenate manteneva a palazzo "cinquecento bocche e più".
Federico era in guerra e in politica (non in amore) fedele. Senza mai tradirli, prima di aver esaurito la ferma, servì onorevolmente i Visconti, gli Sforza, Venezia, i fiorentini, la Santa Romana Chiesa, il Re di Napoli, sempre benamato da tutti e rispettato. Quando il Re di Napoli si stancò della malafede dei condottieri, non volle più saperne di nessuno, la Repubblica di Venezia, esempio unico nella storia, garantì per il Duca Federico.
Federico, pur essendo il Duca di uno staterello dell'Italia centrale, era però in contatto con tutti i regnanti del suo tempo, immischiato nelle vicende e negli intrighi delle varie Signorie, aveva la presunzione di fare da ago della bilancia nelle politiche di alleanze. Infatti era soprannominato il "Nomio" per la sua ambizione a governare e regolare (nomos infatti in greco significa legge) tutti gli affari italiani.
Dunque racchiudeva in sé molte doti e ci teneva a dare un'immagine positiva di sé: caritatevole, generoso, colto, frugale, cavalleresco, sportivo, ospitale, abile diplomatico, fedele, ma non casto, piccolo “difettuccio” sul quale, tenuto conto di tante sovrabbondanti virtù, anche Vittorino da Feltre, il suo maestro avrebbe chiuso un occhio. La "libidine" infatti come ci racconta Paltroni, suo cancelliere e biografo autorizzato, era una sua caratteristica. "Questo difecto et mancamento" - preciserà Paltroni, coll'assenso, è da supporre, compiaciuto del biografato - "multo lo demonstrò", ancora adolescente, nello "stato paterno... copiosissimo de dilicatissime e piatosissime donne". Federico anche in questo ambito era un esibizionista: è egli stesso, infatti, a promuovere una raccolta di rime, scritte, tra il 1440 ed il 1444, da suoi amici, specie da Angelo Galli, nella quale questo suo donneggiare riecheggia ingentilito. V'è già dell'autocompiacimento narcisistico in Federico adolescente che sollecita il commento in versi delle sue prodezze amatorie. Ciononostante, Battista, la seconda moglie amata, conobbe la felicità coniugale ed entrambi offrirono lo spettacolo edificante di una coppia ben assortita. Egli la tradì ma sempre con grandissimo tatto e incomparabile maestà, come del resto era nel suo stile. Le amanti di Federico sono tutte rimaste in un’ombra fitta da cui nulla è trapelato.
Anche delle figlie o perlomeno dei suoi rapporti con loro poco sappiamo. Probabilmente non ebbe tempo di occuparsene se non per quanto concerneva la loro formazione culturale e la loro sistemazione. Essendo ricco tale problema finanziario fu ridotto al minimo.
Provviste di ottima dote, le ragazze di Montefeltro vennero accasate con uomini di gran censo. Giovanna sposò un Della Rovere, Elisabetta un Malatesta, Costanza un Sanseverino di Salerno, Agnese un Colonna, le illegittime Gentile ed Elisabetta un Fregoso e un Sanseverino di Cajazzo. Restò Chiara, ma Federico forse si levò il pensiero mettendola in convento come facevano tutti i padri gravati da troppe figlie.
Nei rapporti con i parenti questo grand’uomo fu meno grande. Egli aveva della famiglia una concezione religiosa, molto solida, ma per i parenti nutriva antipatia. Eccezion fatta per gli Ubaldini di Gubbio, la famiglia forse materna per la quale ebbe sempre un occhio di riguardo, tutti gli altri non riuscì a tollerarli e sempre li tenne a distanza. Con le sorelle trattò per anni solo tramite avvocati e notai a causa di antipatiche contestazioni ereditarie e questioni di dote. Nei confronti delle sorellastre Violante, Agnesina e Sveva, Federico ebbe un comportamento non solo ingeneroso, ma che rasentò l'estorsione e il ricatto. Violante nel 1446 sarà costretta a rinunciare ai suoi diritti per l'irrisoria cifra di 1000 ducati, Agnesina morirà senza riuscire ad avere soddisfazione per la dote e l'eredità, Sveva nel 1471 starà ancora reclamando quanto le spettava.
Se Federico fu poco disponibile verso i parenti, invece si mostrò sempre affabilissimo e disponibile nei confronti del suo popolo. Uno dei piaceri più forti era quello di mettersi nei panni dei suoi sudditi, mescolarsi con essi, rivelarsi di persona, affascinante come il suo mito. La sua popolarità si rafforzava di giorno in giorno grazie ad una serie di atteggiamenti demagogici. Da consumato esibizionista qual era, usciva dagli splendori della regalità per essere uno come tanti, passeggiava senza scorta in città, curiosava nelle botteghe, fiutava gli umori della gente e quando scendeva in quel teatro a cielo aperto che è la piazza nei giorni di mercato, prendeva i villici sotto braccio, chiacchierava con loro in dialetto, a questi chiedeva della salute, a quello degli affari, a quell’altro se la moglie era gravida, e tutto senza perdere un attimo la sua regalità.
Pochi Principi hanno goduto come lui il piacere di rimirarsi nello specchio della fama. Lo aiutava una memoria di ferro, salutava tutti scappellandosi con gentilezza e puntualità tanto che ad Urbino era nato il proverbio “Tu hai da fare più della berretta di Federico”.
Viveva nel culto delle buone maniere e con l’ostinazione di insegnarle. Sobrio nel parlare, non alzava mai la voce e questo certamente gli costava fatica perché era collerico. Tenuto conto di questo sforzo esigeva che tutti parlassero e si comportassero in maniera corretta. Era caritatevole, paternalista, generoso. Voleva essere informato di tutto, provvedere ad ogni cosa. Una volta, sempre attento a costruire la sua leggenda, arrivò a spalare la neve con altri urbinati fino al convento di San Bernardino dove i frati erano rimasti isolati e senza viveri.
Si alzava in anticipo sugli altri, andava a letto tardi, innamorato di questo ruolo di padre insonne. Giravano per il ducato schiere di revisori ducali incaricati di indagare e fornire aiuti ai conventi poveri, alle zitelle bisognose, ai commercianti indebitati, ai contadini afflitti da troppi figli. Veri agenti di uno spionaggio caritatevole, questi revisori ducali fornivano ottime occasioni alla dispotica filantropia di Federico.
Il suo popolo chiaramente lo adorava e, quando all’età di sessant’anni, morì per le febbri malariche contratte a Ferrara, il cordoglio fu unanime e sincero.
Il mito di Federico e dell’età dell’oro del ducato si protrasse per molti decenni grazie anche a una produzione poetica ispirata alla sua figura e alle sue imprese. Il poeta Porcelio Pandone scrisse un poema epico ( Feltria o De laudibus et rebus gestis Federici Montefeltri) in nove libri e quasi 5700 versi nel quale sono narrate le imprese di Federico dal 1460 al 1474.
Un altro umanista Giovanni Mario Filelfo compose la Martis, poema in due libri di circa 2400 esametri. Il poema fu composto per celebrare una vittoria di Federico contro Sigismondo Malatesta. Il poema fa riferimento al mito classico: Marte, geloso della fama di Ercole, concepisce con Minerva un eroe che supererà la fama di Ercole. Si tratta appunto di Federico.
Federico però aveva i suoi scheletri nell’armadio anche se operò con astuzia per tenerli nascosti. Una lettera cifrata del Duca è giunta fino a noi ed è stata ritrovata dallo storico Marcello Simonetta; ci rivela che il duca di Urbino onesto e fedele fu in realtà uno dei mandanti della congiura dei Pazzi a Firenze per eliminare i Medici. Nell’attentato rimase ucciso Giuliano, mentre Lorenzo, anche se ferito, si salvò.
I seguaci dei Medici ripresero il controllo della città, la famiglia dei Pazzi bandita per sempre da Firenze. Il tentativo di colpo di Stato era fallito e Federico, che aveva agito nell’ombra, si spacciò per consigliere di pace con il sopravvissuto Lorenzo con una serie di missive che rivelano l'uso spregiudicato del doppio gioco.
Un'altra lettera cifrata del 1472, indirizzata da Federico a Giambattista Bentivogli, consigliere del Re di Napoli e ritrovato dalla storico Fabrizio Cece nell'archivio di Gubbio ci rivela ancora una volta l'ambiguità del personaggio, la missiva contiene una complessa disquisizione diplomatica sui poteri a cui “apoggiarsi”, fuori Italia e in Italia. La mente lucidissima di Federico tratteggia il panorama politico con logica stringente, illustrando le reciproche inimicizie nutrite dalle grandi potenze (Francia contro Borgogna, Milano contro Venezia). La lettera decifrata è piena di incisi rivelatori sull’uomo che vanta giustamente una vasta esperienza delle cose d’Italia. Federico era sicuramente una "vecchia volpe del marketing militare" .
La figura di Federico rimane enigmaticamente sospesa fra l’immagine compiaciuta dell’umanista assorto nella lettura di codici miniati nel suo studiolo, e quella dello spregiudicato condottiero impegnato nella redazione di dispacci cifrati. In altre parole, la doppiezza intrinseca della vita politica non ci permette facili semplificazioni e distinzioni manichee. Il celebre profilo del duca immortalato da Piero della Francesca continua a celare il “lato oscuro” del volto del Montefeltro, solcato da rughe e cicatrici con lo sfondo delle colline e le pianure del territorio da lui dominato.
Federico fu un uomo dalla personalità complessa e intrigante che dedicò tutto se stesso ad alimentare il suo mito.
I torrioncini del Palazzo Ducale di Urbino
Federico in ginocchio particolare Pala di Brera-Piero della Francesca
Lavanderie Palazzo Ducale di Urbino
La lettera cifrata di Federico indirizzata ai suoi inviati a Roma che ne avrebbero dovuto riferire il contenuto al papa Sisto IV, anche lui coinvolto nella congiura per eliminare i Medici. Lo storico Marcello Simonetta è riuscito a decifrare la lettera basandosi sul trattato di decodificazione del suo antenato Cicco Simonetta il segretario degli Sforza. Il trattato dell'arte della decifrazione, basato su un modello matematico, permette al decrittatore di calcolare le occorrenze statistiche di lettere in latino e italiano. Nel testo di Federico le parole sono tutte unite e questo rendeva la decifrazione ancora più difficile. Nella riga evidenziata si notano simboli ripetuti, ipotizzando che corrispondessero alla vocale A, si è compreso che tale sequenza potesse corrispondere a lA suA sAntitA. Per ironia della sorte quello che ha permesso di decifrare il codice è stato proprio il titolo di Papa Sisto IV al quale la lettera era indirizzata.
Terza pagina della lettera cifrata in cui si nota la data 1478 e la firma della cancelleria idi Urbino, unici elementi non criptati.