[Riprendo da Francesco Viola]

Sotto il profilo del loro governo e/o della loro gestione la questione dei beni comuni è indubbiamente connessa con il concetto di bene comune.  Il principio della comune destinazione dei beni proviene dalla filosofia stoica; Cicerone parla di res omnium o res communes omnium mentre Tommaso d’Aquino riteneva che «secundum ius naturale omnia sunt communia». Il concetto si trova ancora ben presente nel pensiero di Locke ed oggi è difeso dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica. 

La problematica del diritto soggettivo sorge proprio per giustificare il passaggio da questo stato originario di comunanza alla proprietà privata, e si concentra nel diritto di esclusione degli altri dal godimento del bene. Ma a prima vista esso appariva incompatibile con l’originaria comunanza dei beni e fondato unicamente sullo stato di peccato e di fragilità umana. Infatti, sia per lo stoicismo sia per la dottrina cristiana delle origini, la proprietà privata era considerata di diritto naturale secondario o derivato. Pertanto doveva essere concepito in modo da non far venir meno del tutto la destinazione originaria dei beni, anzi al contrario per favorirla. Questo è il tentativo perseguito da Francisco de Vitoria (1486-1546), che può essere considerato come il precursore storico della teoria dei beni comuni. Secondo Vitoria il regime della proprietà privata o il dominium proprium non fa venir meno il dominium omnium concepito come categoria di diritto pubblico, che consiste nel “condividere” (communis actio ovverocommunicatio) nel tempo della necessità, cioè come diritto a procurarsi il necessario o l’indispensabile per vivere (caccia, pesca, legna), un diritto fondamentale non individualistico governato dal principio della solidarietà.


Il bene comune è il risultato del processo deliberativo globale in cui i consociati danno forma alle ragioni per cui vogliono vivere insieme e ai beni o ai valori comuni che vogliono perseguire.

Viceversa i beni comuni creano legami e richiedono forme di organizzazione, istituzioni e procedure che sono simili a quelle richieste dalla ricerca del bene comune in una società̀ democratica. Si tratta, infatti, dell’auto-coordinamento delle azioni di una moltitudine di persone per il raggiungimento di uno scopo comune. Infatti ciò che distingue la gestione dei beni comuni dal regime privatistico e da quello pubblicistico è proprio il suo carattere cooperativo, contrassegnato dall’interdipendenza dei vantaggi e dei doveri degli uni con quelli degli altri partecipanti. Anche se la porzione di risorsa acquisita può essere fruita per proprio conto, essa è il risultato di un’opera comune al cui successo sono tutti egualmente interessati. 

Infine, bisogna almeno accennare all’ultimo profilo del rapporto fra bene comune e beni comuni. L’ambito di ricerca del bene comune, cioè nella sostanza l’estensione della comunità politica, dipende dai beni che ne costituiscono il contenuto. Secondo una dottrina antica, risalente ad Aristotele, una comunità̀ politica deve essere in grado si assicurare ai suoi membri tutto ciò che è necessario per la fioritura umana, cioè deve essere “completa”. S’è ritenuto che la polis greca, la città medioevale (Siena) e gli Stati nazionali rispondessero a questo requisito. Ma oggi è sotto gli occhi di tutti che gli Stati contemporanei non sono più autosufficienti, se mai lo sono stati, per quanto riguarda molti aspetti fondamentali della vita umana (soprattutto quello economico, ecologico e tecnologico). Ci sono beni fondamentali che lo Stato da solo non è più in grado di assicurare ai suoi cittadini. Alcuni beni comuni ne sono, tra gli altri, un esempio significativo. Di conseguenza, la ricerca del bene comune si estende al di là delle frontiere verso la Comunità internazionale e la comunità politica assume la configurazione di un ambito a geometria variabile, non sempre coincidente con quella nazionale.