Il ciclo pittorico del Lorenzetti è integrato da una Canzone in volgare di sapore dantesco, composta da 62 endecasillabi ordinati in 6 strofe: 4 stanze e 2 congedi, che "hanno la funzione di rammentare ai politici riuniti nei consigli di governo la correlazione tra le loro decisioni e le ripercussioni positive o negative sulla città e la vita dei suoi abitanti."

L'Allegoria del Lorenzetti è una perfetta combinazione espressiva di parole e immagini nel filone che lega i concetti di ut pictura poësis di Orazio e di visibile parlare di Dante. Anche la vicina e precedente Maestà di Simone Martini (1313-21), è corredata da testi in terzine dantesche: «Diletti miei, ponete nelle menti / che li devoti vostri preghi onesti / come vorrete voi farò contenti. / Ma se i potenti a’ debil’ sien molesti, / gravando loro o con vergogne o danni, / le vostre orazion non son per questi / né per chiunque la mia terra inganni». E ancora:  «Li angelichi fiorecti, rose e gigli, / onde s’adorna lo celeste prato, / non mi dilettan più che i buon consigli. / Ma talor veggio chi per proprio stato / disprezza me e la mia terra inganna, / e quando parla peggio è più lodato. / Guardi ciascun cui questo dir condanna». Un esempio coevo all'Allegoria sono i cartigli del già menzionato Trionfo della Morte.


[Riprendo da Rosa Maria Dessì] Per quanto riguarda l’attribuzione dei versi, la questione è aperta: sono stati menzionati Cecco di Meo degli Ugurgieri – autore di un compendio della Divina Commedia – e Bindo di Cione del Frate. La prima attribuzione, che Brugnolo considera un "po’ dubbia", può essere confermata dalla menzione, in un catalogo di opere di autori senesi del Trecento, di un manoscritto, oggi perduto, che attribuisce a Cecco di Meo i versi dipinti nella Sala della Pace. Il metro delle due stanze dov’è attestato il sintagma « bene comune » è anche quello dell’unica composizione a noi conosciuta di Bindo di Cione del Frate ovvero la “Canzone di Roma”, che inizia con i versi « Qual è virtù che ‘l terzo cielo infonde » (anche se qui le stanze sono di 8+11 versi e non di 8+5) e il cui attacco è identico a « Questa virtù », considerato, in genere, come l’incipit della “canzone del Buon Governo”. 

[Riprendo da Piccinni e Frugoni] Il programma degli affreschi ed il testo della canzone furono ideati anche dallo stesso Ambrogio (di cui erano noti l'acume, la cultura, l'impegno civico, anche con un proprio ruolo negli organi consiliari), ma fondamentalmente dal gruppo di giuristi incaricato negli stessi anni dell'elaborazione dei nuovi Statuti del Buongoverno [il proemio finale ricalca a grandi linee il testo della canzone], la quale in parallelo al progredire del ciclo pittorico "si confrontava sul grande terreno del diritto, del bene e del comune e della giustizia". Proprio tale elaborazione "potrebbe aver fatto riflettere sull'opportunità di confermare in maniera più forte che il diritto è un valore costituzionale quanto il Ben Comune".