Nei primi 10 minuti del film apprendiamo che entro 6 mesi un asteroide distruggerà la Terra, il resto del film ipotizza come la realtà attuale affronterebbe questo inaccettabile salto di paradigma: dover accettare che il tempo ed il futuro siano anch’essi risorse finite e scarse.

Nonostante il discreto successo, non mi sembra che Don't look up ci abbia convinto a modificare le nostre politiche o abitudini. Al contrario di un film degli anni Ottanta che ebbe conseguenze nell'opinione pubblica mondiale. 

[Riprendo qui un articolo del Post]

La sera di domenica 20 novembre 1983 oltre 100 milioni di persone negli Stati Uniti, circa 38,5 milioni di famiglie, guardarono sul canale ABC un film per la tv di cui si parlava da settimane: The Day After. Immaginava la rapida evoluzione delle tensioni tra Stati Uniti e Unione Sovietica in una terza guerra mondiale dalla prospettiva della popolazione di due città rurali statunitensi, basi di lancio di missili balistici intercontinentali. Il dibattito che aveva preceduto la sua messa in onda riguardava l’opportunità di trasmetterlo, i possibili effetti sull’opinione pubblica, sugli spettatori e le spettatrici più sensibili, sulle elezioni presidenziali del 1984 e sulle politiche per la riduzione degli armamenti nucleari. Trasmesso anche in Europa e in Italia l’anno successivo, The Day After è citato ancora oggi, quarant’anni dopo la sua uscita, come uno dei più ambiziosi e riusciti tentativi cinematografici di immaginare le conseguenze di un disastro nucleare. Benché apparisse tecnicamente limitato per diversi aspetti già all’epoca, il film interpretò paure e attenzioni sempre più diffuse e condivise riguardo al pericolo dell’utilizzo delle bombe atomiche, e secondo molti ravvivò una discussione che contribuì ad accelerare i processi che portarono alla fine della Guerra fredda.

Alla fine del film, prima dei titoli di coda, un messaggio dice: i catastrofici eventi a cui avete assistito sono senza ombra di dubbio molto meno tragici di quanto accadrebbe se gli Stati Uniti venissero realmente coinvolti in una guerra nucleare. Ci auguriamo che questo film convinca tutte le nazioni della Terra, i loro popoli e i loro governatori a evitare questa drammatica fine.

Negli Stati Uniti The Day After fu una delle trasmissioni televisive non sportive più viste di tutti i tempi. Parte di quel successo fu attribuita non soltanto al film in sé, che una parte della critica giudicò in realtà abbastanza mediocre, ma alla sua capacità di concentrare le attenzioni e le preoccupazioni dell’opinione pubblica verso i possibili sviluppi di una guerra nucleare in un momento storico di tensioni crescenti con l’Unione Sovietica, dopo un decennio di rapporti più distesi.

La discussione sui media sia prima che dopo la trasmissione di The Day After si concentrò principalmente sul significato politico del film, che fu interpretato dalla maggior parte delle persone come un invito a sostenere le politiche sul disarmo. «Come raramente è accaduto nella storia della televisione, un’opera di finzione ha raggiunto l’urgenza e la portata della copertura in diretta di una crisi nazionale», scrisse il critico televisivo del Washington Post Tom Shales due giorni prima che il film venisse trasmesso. Il film influenzò l’opinione pubblica «in modi che sembrano quasi inimmaginabili nell’era dello streaming caratterizzata dall’abbondanza di contenuti e dalla visione frammentata che ne consegue», ha scritto il critico televisivo della CNN Brian Lowry. Gran parte del pubblico del film – circa 38,5 milioni di persone – rimase sintonizzata sul canale anche per un successivo dibattito sulle politiche di deterrenza e sul rischio della guerra nucleare, moderato dal giornalista televisivo Ted Koppel. Tra gli ospiti c’erano lo scienziato e divulgatore Carl Sagan, l’ex segretario alla Difesa Robert McNamara, l’ex segretario di Stato Henry Kissinger e lo scrittore di origine ebraica Elie Wiesel, sopravvissuto alla Shoah. In Italia, dopo essere uscito nei cinema il 10 febbraio 1984, The Day After fu trasmesso in prima serata su Rai 1 il 16 novembre, seguito da un approfondimento condotto da Piero Angela.

Uno dei principali meriti della trasmissione di quel film, scrisse il New York Times nel 1983, fu aver indotto milioni di persone a porsi seriamente qualche domanda sulla questione della corsa agli armamenti e sugli obiettivi, indipendentemente dalle opinioni politiche. «La possibilità dell’orrore termonucleare – orrore è una parola troppo tenue, non esiste una parola per descriverla – è la questione travolgente del nostro tempo».


Sul tema della bomba nucleare è da ricordare il recente film premio Oscar Oppenheimer tratto da un libro premio Pulitzer 2006: American Prometheus: The Triumph and Tragedy of  J. Robert Oppenheimer. Nelle prime immagini il regista Nolan cita Eschilo paragonando il protagonista al “Prometeo incatenato” che rubò il fuoco agli dei per donarlo agli uomini: ma se il dono di Prometeo era necessario alla sopravvivenza della specie umana, quello di Oppenheimer è l'ordigno in grado di provocarne l'annientamento. La bomba è il simbolo del potere di una scienza magica e miracolosa, mutuata dal Sole, ma che trasferita nelle mani degli uomini diviene tragedia. Il 16 luglio 1945, data del Trinity test, è anche il primo giorno dell'Antropocene.

Un Prometeo incauto quindi, accecato dalla fiducia nella scienza e nel proprio ego visionario, ma anche un maldestro apprendista stregone che non libera ma condanna l'umanità al rischio dell'estinzione e sé stesso al rimorso eterno, quando cita dal Bhagavad Gita Ora sono diventato morte, il distruttore di mondi”. 


Riprendo da pag 7 l'analogia tra Adamo, l'apprendista stregone (il quarto episodio del film Fantasia è sull'estinzione dei dinosauri a causa della collisione di un asteroide, tema di Don't look up) e Prometeo.

[Riprendo un articolo di Amaranta Sbardella] "Se nel Medioevo, ad esempio in Boccaccio, Prometeo è il sapiente che ha affrancato l’uomo dalla condizione primitiva, più avanti, con Rousseau, diventerà colui che ne ha corrotto il felice stato naturale. Senza il fuoco, senza la tecnica, l’uomo primitivo era sereno, e non avrebbe pensato a farsi la guerra né avrebbe strumentalizzato il progresso per i propri fini. Se da e con Prometeo ha avuto tutto inizio, filosofi come Hans Jonas e Günther Anders chiamano in causa proprio il titano quando cercano una nuova etica che ponga freni alla tecnologia. Nella mente, allora, risuonano ancora le parole che Mary Shelley (la quale intitola il romanzo scritto nel 1818 Frankenstein o il moderno Prometeo) aveva fatto pronunciare al suo Victor Frankenstein, parole profetiche di un Prometeo già sconfitto: «Imparate da me, se non dai miei consigli, almeno dal mio esempio, quanto sia pericolosa l’acquisizione della conoscenza e quanto è più felice quell’uomo che crede che la sua città natia sia il mondo rispetto a colui che aspira a diventare più grande di quanto la sua natura gli permetta». 

[riprendo dalla prefazione de Il principio responsabilità del filosofo Hans Jonas] Il Prometeo irresistibilmente scatenato, al quale la scienza conferisce forze senza precedenti e l’economia imprime un impulso incessante, esige un’etica che me­diante auto-restrizioni impedisca alla sua potenza di di­ventare una sventura per l’uomo. La consapevolezza che le promesse della tecnica moderna si sono trasfor­mate in minaccia, o che questa è indissolubilmente con­giunta a quelle, costituisce la tesi da cui prende le mos­se questo volume. Essa va al di là della constatazione della minaccia fisica. La sottomissione della natura fina­lizzata alla felicità umana ha lanciato col suo smisurato successo, che coinvolge ora anche la natura stessa dell’uomo, la più grande sfida che sia mai venuta all’esse­re umano dal suo stesso agire. Tutto è qui nuovo, dissi­mile dal passato sia nel genere che nelle dimensioni: ciò che l’uomo è oggi in grado di fare e, nell’irresistibile esercizio di tale facoltà, è costretto a continuare a fare, non ha eguali nell’esperienza passata, alla quale tutta la saggezza tradizionale sul comportamento giusto era im­prontata. Nessuna etica tradizionale ci ammaestra quin­di sulle norme del «bene» e del «male» alle quali vanno subordinate le modalità interamente nuove del potere e delle sue possibili creazioni.


[riprendo da qui] Il mito di Prometeo è relativo ad un tempo in cui l'uomo iniziava appena a trasformare il suo ambiente, mentre la natura continuava in piena autonomia il suo stabile corso. Il potere umano rispetto alla natura aveva caratteri limitati e inerenti ad ambiti circoscritti, gli interventi sulla natura erano superficiali, incapaci di turbare l'ordine stabilito. In questo contesto la figura di Prometeo stava ad indicare agli uomini dell'antichità la possibilità di divenire padroni della propria vita, attraverso il fuoco rubato agli dei e dato agli uomini. Ma Prometeo ha anche un altro volto, che affiora in controluce dentro l'ansia di emancipazione offerta agli uomini. È la hybris (ὕβρις) la tracotanza che conduce a sfidare gli dei e a sovvertire l'ordine costituito. Ed è proprio questo volto quello che sembra riproporsi con particolare evidenza nel tempo attuale, costituendone una chiave di lettura decisiva. Ma in che senso il mito di Prometeo può aiutare oggi a leggere la vicenda dell'umano? Che cosa può dire ad un tempo in cui la dimensione artificiale dell'esistenza ha assunto caratteristiche in molti casi totalizzanti? Le biotecnologie e l'ingegneria genetica oggi riescono in certo modo a controllare l'evoluzione stessa della vita; la minaccia alla sopravvivenza stessa dell'umanità nel futuro diventa questione di assoluta concretezza dati i rischi di uso delle armi atomiche, ma ancor più dati i pericoli di una crisi di compatibilità fra la specie umana e gli ecosistemi che le consentono di sopravvivere [per non parlare degli interrogativi inquietanti che pone l'AI].

C'è però oggi un significativo elemento di diversità dal racconto mitico. Rispetto all'ansia di potere dell'uomo contemporaneo, novello Prometeo, non c'è più Zeus a stabilire il limite, ad infliggere punizioni e castighi. Gli esseri umani devono saper individuare da se stessi limiti e pos- sibilità. Ciò rende lo spazio della responsabilità umana più ampio e, nello stesso tempo, più problematico. L'accresciuto potere dell'uomo ha determinato mutamenti così radicali e significativi che le tradizionali categorie del pensiero non sono più in grado di indirizzare offrendo principi adeguati rispetto alle novità della situazione. L'etica tradizionale era fondata su una precisa definizione della natura dell'uomo e delle cose. Da questa visione oggettiva derivava un'idea del bene che costituiva il fondamento dell'agire, circoscrivendo l'ambito della responsabilità. Il sapere della limitatezza del potere umano in ordine alla natura apparteneva un tempo alla consapevolezza propria dell'uomo. L'etica tradizionale muoveva da un orizzonte di prossimità e di contemporaneità che non può più essere riferimento esclusivo. Responsabilità significa invece oggi pensare il proprio comportamento individuale e i comportamenti collettivi tenendo conto delle conseguenze del proprio agire, del carico di futuro che sempre accompagna ogni azione, facendo crescere il tasso di sapere sul semplice saper fare. L'etica è chiamata a riflettere sulla vulnerabilità della natura e sulla responsabilità umana anche relativamente alla natura e a se stessi. Come rapportarsi allora ad uno sviluppo tecnologico che sempre più appare come la nuova destinazione o addirittura la vocazione dell'umanità, divenendo questione che non può più essere lasciata fuori dal campo dell'etica?

L'essere stesso dell'uomo nel mondo, la sua presenza, un tempo dato originario, dal quale scaturiva ogni idea di dovere nel comportamento umano, è diventata ora «un oggetto dell'obbligazione», poiché si tratta ormai, come scrive Hans Jonas, «di assicurare per l'avvenire il presupposto fondamentale di ogni obbligazione, ossia la presenza di semplici candidati a un universo morale nel mondo fisico». Si tratta di garantire il futuro dell' umanità. Questo significa conservare il mondo così che restino intatte le condizioni di questa presenza, consapevoli della sua vulnerabilità nei confronti della minaccia crescente della scienza. Le nuove questioni relative all'agire rendono sempre più necessaria un'etica della responsabilità in grado di essere all'altezza della novità della situazione. La preoccupazione per il futuro determina in radice l'orientamento dell'etica e ne definisce gli imperativi irrinunciabili: «Noi non abbiamo - scrive Jonas - il diritto di scegliere o anche solo di rischiare il non-essere delle generazioni future in vista di quelle attuali, abbiamo invece un dovere rispetto a ciò che non esiste ancora». La questione è di una ineludibile serietà. L'umanità, divenuta essa stessa oggetto della tecnica, non sa gestire il potere smisurato di cui dispone e rischia di compromettere se stessa compromettendo le relazioni con la natura e con il mondo. Fondamentale diventa allora il tema di una responsabilità che sappia avere "potere" sul potere, dando ordine al potere senza lasciarsi corrompere dal potere stesso. L'uomo in pugno al potere sperimenta l'abuso e la degradazione a cosa. Chi è dominato, pur avvertendo il peso del dominio, sperimenta una volontà di lasciarsi dominare, perché ciò lo solleva dalla responsabilità personale; se si accetta il dominio, vuol dire che dentro di sé cadono le barriere della difesa e del rispetto per sé stessi. È qui il vero nodo etico della questione: il rapporto tra potere e responsabilità, la possibilità che l'esercizio di una piena responsabilità, pur nei limiti delle situazioni date, sappia porre argine al debordare del potere, sappia indirizzarlo governandone le derive. 


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