Nel 1224 Francesco d'Assisi (forse aiutato da Guglielmo Divini) sceglie il volgare invece del latino per scrivere un messaggio ufficiale ed importantissimo. Non è un banale scritto interno all'Ordine dei frati minori, né una bozza da tradurre in seguito, che sono quel tipo di testi di cui abbiamo tracce in queste fasi di passaggio dal latino all'italiano. E' l'ennesima delle sue scelte innovative e dirompenti, che precede di circa 80 anni sia il De vulgari eloquentia di Dante (scritto nel 1303-5 ma in latino), che la traduzione in vernacolo del Costituto senese del 1262 ordinata dai Nove nel 1309 perché fosse accessibile a chiunque.
[Riprendo da Mario Ascheri] Con lo sviluppo dei Comuni nel corso del secolo XII diventa frequente la scrittura di Statuti che raccolgono la normative deliberate e vincolanti per i cittadini. I Comuni infatti rivitalizzarono “la coscienza dell’appartenenza cittadina, stimolata anche dal vivace culto del santo locale e facilitata dalla coeva rinascita culturale generale, che faceva rivivere l’antico e affascinante modello repubblicano di Roma. Il suo mito si diffondeva con la sempre più larga conoscenza degli scritti di Cicerone e del diritto romano. Le nascenti università e le scuole di notariato li rendevano di nuovo attuali in molte città. […] Questo spiega perché i testi statutari siano stati scritti in latino, che era il linguaggio normale non solo di chi fosse alfabetizzato, ma anche degli uomini esperti di diritto in Italia. […] La redazione di un testo scritto permetteva la conoscenza e il rispetto di regole applicate coerentemente a tutti.” A questo proposito e garanzia furono realizzate copie scritte a caratteri grandi, destinate a pubblica lettura per chiunque volesse verificarne l’esatta dizione e esposte in uffici aperti al pubblico “assicurate a un tavolo con una catena [una corda di ferro] per evitarne la sottrazione: era perciò detto, a Siena come altrove, il libro della catena”.
A Siena il Governo dei Nove decide la traduzione in volgare del Costituto redatto in latino nel 1262; il motivo è espresso, con queste parole: «fare scrivere, a l'expese del comune di Siena, uno statuto del Comune di nuovo in volgare di buona lettera grossa, bene legibile et bene formata, in buone carte pecorine acciocchè le povare persone et l'altre persone che non sanno gramatica, et li altri, e' quali vorranno, possano esso vedere et copia inde trare et avere a lloro volontà» (1309-1310).
“La Siena (e il Centro Italia) del Due-Trecento, dei governi dei mercanti e del ceto medio che si compendiarono nel nome dei Nove, privilegiò il volgare come forse nessun’altra città italiana. Non lo dice solo il volgare del Costituto e di altri documenti pubblici, dagli statuti fino alla Canzone che accompagna e spiega il Buongoverno (1338-39) e prima la Maestà (1315) di Simone Martini, ma il fatto che si rintracciano molti testi del tipo in volgare sia di corporazioni che di privati. Persino la bolla pontificia con la promessa delle indulgenze per il primo giubileo della storia, quello del 1300, fu volgarizzata a Siena: una specie ante litteram.”
Tanzini propone una diversa lettura: "il bilinguismo non è pensato a vantaggio di chi non conosce il latino, ma piuttosto per coloro che lo conoscono, affinché l’originaria redazione volgare possa essere presa in considerazione anche dai professionisti del diritto. [...] In un fase di grandi cambiamenti questi testi davano nuova forma 'volgare' a fenomeni sociali e commerciali fino allora normati dal diritto romano, e che la lingua latina iniziava a far fatica a descrivere. In questo modo l’uso del volgare cambiava un’altra volta la sua funzione. Decenni di pratica in città come Siena e Firenze avevano fatto sì che quella vernacolare fosse intesa come la lingua del potere: che si trattasse di una marginalizzazione ‘tecnica’ del notariato come accade a Siena a inizio secolo, o dell’atteggiamento meno conflittuale del governo fiorentino, sta di fatto che il volto dell’autorità pubblica parlava sempre più spesso usando il volgare. Questa evoluzione è davvero fondamentale per comprendere un passaggio decisivo della storia della cultura toscana. Negli stessi anni in cui diventava un topos di trita retorica la ripetizione del volgare come lingua di tutti, quello stesso volgare era diventato essenzialmente la lingua del governo cittadino. In quanto tale veniva esteso, per esplicita volontà del ceto dirigente cittadino, anche a contesto di livello ‘alto’, ad esempio nell’insegnamento universitario. Ben lungi dall’essere una forma ‘popolare’ di uso della lingua, il volgare si connotava come la lingua del ceto dirigente, anzi della parte più oligarchica di quel ceto.
Quindi il volgare del Cantico fu una precisa scelta per rivolgersi ed essere compreso da tutti, dagli umili ai ricchi e colti ceti mercantili (da cui proveniva Francesco), fino ai potenti amministratori delle città, delle corporazioni e degli ordini monastici. Esattamente come l'affresco del Buongoverno di Lorenzetti.