Giacomo

“La nebbia che respiro ormai… un sole quasi bianco sale ad est...” Giacomo, camminava a passi lunghi, quel rumore di foglie secche sotto gli stivali gli aveva richiamato quella vecchia canzone, con un filo di voce provò a canticchiare: - Quest'odore di funghi faccio mio... piccoli stivali e sopra lei...

La rivide nitida, così presente, come quella voce interna, dietro l'orecchio destro, che incalzava: - ancora, ancora! Senza dargli pace: - ancora!

Ferma lì, fino a fargli male come un bisturi nella ferita di un malato non anestetizzato.

Quando il suo demone rendeva afose le sue ore, solo il silenzio della campagna riusciva a quietarlo. Ma quello stato di calma era solo a livello di pelle non si calava in profondità!

Era come un mare che ingabbia l'andare e tornare delle onde solo in superficie e non permette ai venti d'insidiare i paesaggi più segreti dei suoi abissi.

Ogni passeggiata era una prova per avere la meglio su quella voce che lo inchiodava a tutta la sua dipendenza.

Aveva da un po' preso l'abitudine a nascondersi in quel boschetto, con i fitti rovi alternanti ad avvallamenti di terriccio, tutto sconnesso sotto i passi.

Tutti lo infastidivano, aveva dentro un ribollire di indignazioni che non trovavano strade di razionalità: per ogni sguardo che sembrava sindacare il suo stato di sobrietà; per ogni ritardo ad una sua richiesta di essere lasciato in pace; senza contare la lentezza a capire, di chi lo circondava. Poi, cosa capire in quel groviglio di stati d'animo che, a tratti, dipanandosi e annodandosi, gli mostravano i gradi della sua fiacchezza?

Nel suo passato ne aveva fatte di sciocchezze a cui non era stato più possibile rimediare. La vita ti coglie impreparato nel trovare una risposta pronta, come quando al liceo, non aveva saputo rifiutare l'invito del professore di filosofia che lo ammaliava con la sua ricercatezza lessicale.

Si era creato tra di loro un giogo sottile. Egli sentenziava contro tutto quel presente imbarbarito, mentre le parole, come piccole carezze, penetravano il suo orecchio ingordo e scolpivano la creta barbara della sua coscienza.

Ogni fonema legato ad un dittongo, rimava una stanza del suo adolescente pensiero, alla guisa di un volto di dea nella terracotta. Non gli bastava mai d'ascoltarlo!

Era assetato di parole, tutte quelle parole che suo padre gli aveva negato da bambino, quando la sera, puntualmente, tornava a casa alterato. Quei suoi modi rudi, da equilibrista poco agile, gli includevano terrore e subito cercava di nascondersi nel contorno di un libro o nel piatto di una minestra calda; mentre sua madre, puntualmente, iniziava col suo rosario di rimproveri ingenerosi verso quel marito così impantanato.

Erano stati quelli i momenti in cui aveva voluto che il suo corpo perdesse spessore, come panna disfatta. Persi nel loro egoismo di coppia che non trovava un'equità di giudizio, finivano con non vederlo più, a conferma del suo sentirsi uno scherzo, mal riuscito, del destino.

Quando, poi, la lunga malattia se lo portò, la gioia che provò fu così intensa che invece di sanarlo lo aggravò, lasciandogli il rimorso di quel guizzo di vita che poco si combinava al dramma familiare.

... Scusa se non parlo ancora slavo... mentre lei che non capiva, disse... bravo... e rotolammo fra sospiri e da... - riprese a canticchiare.

La folata dei suoi ricordi s'acquietò, così la voce dietro l'orecchio, che iniziò a donargli un tratto più ampio di silenzio.

Lei riapparve in tutto il suo splendore, di donna innamorata.



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